1944 - 8 anni - Gli uccelli
Una sera mi trovavo ospite nella villa a mare di un amico, assieme a un nutrito gruppo di amici comuni, affacciandoci sul mare dalla terrazza della casa che si erge su una rupe disturbammo un uccello variopinto che fuggì via. “Un'upupa!” esclamai. Uno di loro mi guardò sorpreso “Si è proprio un'upupa – disse – come hai fatto a riconoscerla? Non è facile!”. Ci sedemmo su un divano e ci mettemmo a chiacchierare. Gli dissi che da ragazzo avevo avuto proprio un'upupa e che avevo avuto tanti uccelli che avevo allevato la maggior parte dei quali erano tenuti liberi.
Raccontai che il primo uccello lo allevai a otto anni, mentre passavo l'estate da mio nonno. Tano, il figlio del pastore che si occupava delle capre di mio nonno, durante il giorno, mentre faceva pascolare le capre, talvolta catturava degli uccellini nel nido, e poi li allevava in casa. Aveva catturato una civetta e durante il giorno catturava dei grilli in maniera che la sera, quando tornava a casa, li dava da mangiare agli uccelli. Era bellissimo vedere quell'uccellino che afferrava con la zampetta i grilli morti che Tano gli poggiava davanti sul terreno e se li portava alla bocca restando dritto sull'altra gamba. Ero entusiasta di quello che avevo visto e raccontai tutto a mia zia. L'indomani mia zia mi chiamò, mi diede un pane intero e mi disse di portarlo a Tano chiedendogli in cambio la civetta. Così avvenne ail baratto.
Quella civetta divenne lo spasso di tutti. La zia mi dava dei ritagli di carne da darle da mangiare, le ragazzine mi catturavano i grilli per vedere come li afferrava con la zampetta e li portava alla bocca. Se qualche gatto, ingenuo, si avvicinava subito la civetta drizzava le penne, si alzava gambe e saltellando cercava di beccarle gli occhi. Al che il gatto si dava alla fuga.
Ricordo anche che quell'anno ci fu una invasione di cavallette che provenivano dall'Africa e venne in casa di mio nonno una squadra della Stazione Sperimentale dell'Agricoltura per studiare il fenomeno. Girando per le campagne avevano catturato un gran numero di cavallette che avevano conservato dentro delle provette tappate con un batuffolo di cotone e catalogate dentro scatole di cartone per motivi di studio. Quando scoprirono come la civetta le mangiava, cominciarono a prelevarle dalle provette dove erano conservate e glie le davano da mangiare con grandi risate e gran divertimento.
Al termine della vacanza i miei genitori mi fecero restituire la civetta a Tano in quanto in città non c'erano grilli per darle da mangiare.
Durante le mie vacanze in casa di mio nonno ho scoperto tante cose. Mio nonno aveva un pollaio ben fornito e di tanto in tanto faceva covare le uova alle chiocce, per cui assistevo a tutto il rito. Per prima cosa venivano scelte le uova più belle e più sane. Poi venivano “sfilate”. Questa era una procedura per cui l'uovo veniva osservato per trasparenza attraverso una fessura della finestra accostata da cui filtrava un raggio di sole e una persona esperta controllava che l'uovo fosse “gallato”, cioè che fosse fertile. Non so se fosse un procedimento scientifico o empirico, ma veniva attuato sistematicamente. Poi le uova (da 20 a 25) venivano accuratamente poste in un cesto con della paglia in un luogo riparato e ben protetto anche da eventuali disturbi estranei e vi veniva portata una chioccia. Questa covava le uova per circa 20 giorni. Solo una volta al giorno le si portava da mangiare in abbondanza ed era vietato avvicinarsi. Solo qualche volta e da lontano potei vedere la chioccia che covava. Invece quando cominciavano a venire fuori i pulcini mia zia mi accompagnava e mi faceva osservare come rompevano il guscio, come venivano fuori, e come passeggiavano attorno al cesto. Dovevo stare molto attento in quanto la chioccia poteva essere pericolosa in quanto se aveva timore per l'incolumità dei suoi pulcini poteva beccare chi era vicino.
Anche negli anni seguenti ogni anno allevai un uccello diverso: un upupa, un merlo, una ghiandaia, una pernice. Poi, quando divenni più grande, nella campagna di mia madre, imparai a catturare anche io gli uccelli. Con maggiore frequenza catturavo i passeri solitari (il merlo di rocca), che nidificavano anche sulle viti. I contadini che coltivavano la vigna, quando scoprivano un nido me lo segnalavano ed io andavo a controllare. Talvolta ci trovavo le uova, talaltra gli uccellini.
Sapevo che quando c'erano ancora le uova la madre se veniva disturbata oppure sentiva minacciato il nido lo abbandonava e non covava più le uova. Pertanto, quando trovavo le uova non tornavo a controllarlo per i sette giorni successivi. Anche se le uova si sarebbero dischiuse a breve gli uccellini non avrebbero avuto il tempo di mettere le piume e volare via. Invece sapevo che se c'erano gli uccellini la mamma non li avrebbe abbandonati e tornavo a controllarli con maggiore frequenza. Così tenevo il nido sotto controllo. Quando cominciavano a mettere le penne traferivo tutto il nido dentro una gabbia che mi ero fatto fare appositamente e la ponevo sulla stessa vite nella medesima posizione, lasciando lo sportellino aperto. Sapevo che la madre sarebbe entrata nella gabbia ed avrebbe continuato a dare da mangiare agli uccellini. E così avveniva. Talvolta nella gabbia mettevo anche del frumento o della scagliola per facilitare il compito alla madre di dare da mangiare, ma anche con con l'obiettivo di abituare i piccoli uccellini a mangiare da soli. Quando ritenevo fossero sufficientemente grandi e pronti a volare via, chiudevo lo sportellino lasciando sempre la gabbia al suo posto in quanto la madre continuava a dar loro da mangiare attraverso le sbarre. Quando ero certo che avevano imparato a mangiare da soli portavo via la gabbia e trasferivo gli uccelli in una gabbia molto grande dove li tenevo per farmi delizire dal loro canto.
Nella campagna di mia madre, poco distante dalla casa c'era un pino marittimo, di quelli ad ombrello, molto alto. Una volta, dovevo avere 14 o 15 anni, notai che un passero solitario aveva fatto il nido proprio tra i suoi alti rami. Lo tenevo sotto osservazionbe. Ad un certo punto notai che la madre andava e veniva dal nido con maggiore frequenza e spesso teneva qualcosa nel becco. Dedussi che erano nati gli uccellini e che la madre le portava da mangiare. Morivo dalla voglia di vedere il nido con gli uccellini, ma la chioma del nido era altissima. Talvolta misembrava di sentirli pigolare, ma penso che fosse più una immaginazione che la realtà. Un giorno mi decisi: andai nel magazzino dove si tenevano tutti gli attrezzi per la coltivazione della campagna e presi la scala a pioli più alta che trovai. Credo che fosse alta tra cinque e sei metri. La portai sotto il pino e l'appoggiai al tronco. Il piolo più alto arrivava a circa due metri del ramo più basso. Salii lo stesso ed abbracciatomi al tronco che verso la cima era meno grosso mi arrampicai fino ai rami. Lì mi avvicinai con prudenza al nido: c'erano gli uccellini, che appena mi videro aprirono il becco e si misero a pigolare. Avevano fame.
In quel momento mia madre si affacciò sul terrazzino e mi vide. Ero sull'albero a circa 8 metri da terra. Non si agitò, non si mise a urlare, non si mise a correre. Mantenne il suo sangue freddo e si avvicinò al pino. Quando fu sotto mi guardò dal basso in silenzio. “Mamma – le dissi – ci sono gli uccellini! Sai come sono belli!” “Si – disse lei – ora che li hai visti scendi e fai attenzione, sii prudente”. Tornai verso il tronco e guardai giù: ero salito proprio molto in alto. La scala era lì e i due metri che mi separavano dall'ultimo gradino mi sembravano una distanza infinita. Ebbi paura, ma non potevo dimostrarlo, anzi non dovevo mostrare di avere paura. Mi inginocchiai sul ramo, poi mi abbracciai al tronco e lentamente cominciai a scivolare verso giù. Scendevo un centimetro alla volta strisciando lungo il tronco del pino. La corteccia ruvida del pino, mentre scivolavo, strappava la mia camicia, i miei vestiti, le mie carni. Ma io mi tenevo abbracciato stretto al tronco, non sentivo il dolore. Dovevo scivolare lentamente giù, ancora più giù fino a raggiungere la scala.
Riesco solo a immaginare ciò che provava mia madre in quei terribili momenti, ma non una parola usciva dalla sua bocca- Mi guardava in silenzio. Centimetro, dopo centimetro raggiunsi il piolo più alto della scala: era un punto fermo. Poi l'altro piede si posò nel gradino successivo, e poi sull'altro ancora. Ce l'avevo fatta... Quando giunsi a terra mia madre mi disse “bravo... ma guarda come ti sei ridotto... vieni... – ero tutto strappato e tutto graffiato, nelle braccia, nelle gambe, nel petto – ora devi lavarti e devi disinfettare le ferite” Mi poggiò una mano sulla spalla e mi accompagnò a casa. Mi tolse gli abiti di dosso, mi lavò e mi disinfettò con lo spirito. Io, bruciavo dal dolore, ma non un lamento sfuggì dalla mia bocca... C'era un patto tra me e i miei genitori: io ero libero di fare tutto ciò che volevo, ma quando mi facevo male dovevo farmi disinfettare le ferite senza fiatare. Questo patto fu sempre rispettato.
Come avrete capito gli uccelli erano la mia passione: vederli, toccarli, carezzarli, ascoltare il loro canto... Il canto del passero solitario era quello che mi piaceva di più... E ancora oggi mi torna alla mente quel canto e la poesia di Leopardi che lo ha reso immortale.
D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Ohimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.