026 1957 - 21 anni - La consegna delle arance
(scritto il 6 agosto 2010)
Una sera mio padre mi disse “domani raccolgono le arance e dopodomani mattina devono essere consegnate alla ditta MS. Io non ci posso andare e ci devi andare tu. Domani ti prendi la macchina, non torni a casa, ma vai a dormire in campagna. Il camion arriva all'alba e fai la consegna delle arance. Poi te ne vai all'università”. La ditta MS era un commerciante di agrumi particolarmente “difficile” e mio padre cercava sempre di evitare di trattare e vendere le arance a lui. Quell'anno il mercato era piatto e mio padre fu costretto a vendere le arance proprio a lui. Io sapevo bene chi era la ditta MS e quanto difficile fosse il compito che mi aspettava.
La sera, dopo l'università andai direttamente in campagna. Arrivato, trovai tutti gli operai che avevano raccolto le arance (oltre quindici persone) seduti attorno al fuoco che mangiavano.
Infatti durante la raccolta era consuetudine che gli operai non tornassero a casa, ma rimanevano in campagna e dormivano nel magazzino sopra la paglia. Attorno al fuoco, assieme agli operai, c'era anche massaro Alfio armato di fucile. Posai la macchina, mi avvicinai e salutai tutti.
Risposero al mio saluto e mi invitarono a mangiare con loro. Sapevo che non accettare l'invito sarebbe stato scortesia pertanto risposi che accettavo l'invito e avrei mangiato con loro soltanto dopo aver fatto il controllo delle arance raccolte e del lavoro fatto.
Con massaro Alfio feci un giro per controllare il lavoro fatto e le arance raccolte, le quali erano accatastate in cassette di plastica dentro il magazzino. Resomi perfettamente conto della situazione (sapevo che avrei dovuto fare rapporto dettagliato a mio padre) tornai dagli operai e mi sedetti assieme a loro attorno al fuoco. Mi offrirono il loro pane e le olive che arrostivano sulla brace accesa, che accettai, anzi mangiavo con piacere, perché quel cibo per me era veramente buono.
Mentre mangiavamo tutti insieme cominciarono a scherzare sugli studenti universitari che anziché andare a lavorare facevano finta di studiare e si divertivano con le ragazze, facevano battute pesanti anche sulle ragazze che anziché stare a casa a fare la calza andavano all'università per farsi scopare. Io stavo allo scherzo anche se in certi momenti diventava pesante. Mi chiedevano quante ragazze mi ero portato in macchina, se cambiavo una ragazza ogni settimana oppure una al giorno, e via di questo passo. Io stavo al gioco e non mi tiravo indietro anzi vantavo anche avventure immaginarie. Nel frattempo studiavo tutti. Con la coda dell'occhio studiavo il capo ciurma, che stava silenzioso. Quasi sicuramente anche lui osservava me e si chiedeva se ero un figlio di papà imbecille che lui avrebbe potuto raggirare tranquillamente. Anche massaro Alfio era seduto, con il fucile accanto, attorno al fuoco e mangiava in silenzio assieme a noi.
Poi ce ne andammo tutti a riposare perché l'indomani, prima del sorgere del sole bisognava essere tutti alzati e pronti per il lavoro. Prima di andare a letto parlai con massaro Alfio e pianificammo il lavoro dell'indomani per la consegna delle arance: in quel posto lì si doveva posteggiare il camion, qui avremmo posto la basculla per la pesa delle casse, invece in questo altro posto sarebbero state accatastate le casse prima di essere pesate e in quest'altro dopo la pesa, e così via.
La mattina presto, il cielo cominciava appena a schiarire, io ero già alzato e sul posto di lavoro. C'era anche massaro Alfio, il capo ciurma e solo uno o due operai appena alzati che si lavavano il viso vicino al pozzo. “Mattiniero è il signorino!” esclamò il capo ciurma con meraviglia. Non risposi alla battuta. Poco dopo arrivò il camion e il capo ciurma lo fece mettere in un posto che non era quello che avevo stabilito la sera prima con massaro Alfio. “No – dissi io – il camion deve stare lì”.
Il capo ciurma mi guardò e fece mettere il camion dove avevo indicato io. Nel frattempo gli operai si erano alzati e cominciavano a mettersi al lavoro. Il capo ciurma diede disposizione di tirare fuori dal magazzino la bascula. Io mi avvicinai agli uomini che la trasportavano e la feci posizionare nel luogo che avevo stabilito la sera prima assieme a massaro Alfio. Il capo ciurma tentò di obiettare che era meglio posizionarla diversamente, ma gli dissi chiaramente che il posto giusto era quello che avevo indicato io.
Nel frattempo alcuni uomini cominciarono a prendere le cassette delle arance e le portavano fuori dal magazzino, ma le posizionavano in maniera disordinata alcune di qua e altre di là. Alla mia osservazione il capo ciurma rispose che non era un problema, le cassette potevano essere posizionate anche in posizione sparsa. Si accese una discussione tra me e lui. Tutti gli operai si fermarono a guardare come sarebbe andata a finire. Mi rivolsi a massaro Alfio e dissi “dammi il tuo fucile – e me lo misi a tracolla – e vai a prendere l'altro fucile che è in casa”. Poi mi rivolsi agli operai che mi guardavano e dissi in maniera risoluta “accatastate le cassette delle arance tutte insieme e qui!” e fu chiaro che le mie parole non ammettevano né discussione, né replica.
In quel momento il capo ciurma lanciò un urlo, aprì le braccia e cadde per terra all'indietro. Rimasi allibito. Pensai che fosse una sceneggiata per distogliere l'attenzione. Mentre stavo attento e con i riflessi pronti a seguire gli eventi per prendere le decisioni più opportune notai che nel cadere all'indietro la testa del capo ciurma aveva sfiorato lo spigolo di ferro della bascula. Mi resi conto che non era una sceneggiata isterica, ma una crisi epilettica vera. Se avesse voluto fare una simulazione si sarebbe buttato per terra in maniera da non rischiare di ferirsi. La schiuma alla bocca più che le convulsioni, mi confermarono che la mia diagnosi era esatta (ero al quarto anno di medicina). Restituii il fucile a massaro Alfio che nel frattempo era tornato e mi inginocchiai accanto a lui, introdussi un legno tra i denti affinché non si ferisse accidentalmente la lingua.
Prestai per quanto possibile assistenza, aspettando che cessassero le convulsioni e quando poco dopo rinvenne ebbi la certezza che si era trattato di una crisi epilettica. Era la prima volta che assistevo ad una crisi epilettica.
Dopo questo episodio tutte le operazioni di pesa e di consegna delle arance si svolsero con assoluta tranquillità e notai come gli operai, che la sera prima avevano cercato di prendermi in giro, mi guardassero con deferenza e rispetto. Ritengo che avessero capito che ero uno studente che andava all'università per studiare seriamente e non solo per divertirsi.
Quando tutte le operazioni di consegna furono terminate era già tardi ed io avevo il laboratorio di Patologia Medica per cui senza neppure cambiarmi né l'abito, né gli scarponi, che erano pieni di fango mi misi in macchina e corsi all'università. Arrivai che la lezione era già cominciata, ed entrai.
L'assistente che teneva la lezione guardò il mio abbigliamento e disse “Da dove viene?” “Dalla campagna – risposi – ho consegnato le arance!” Lui annuì ed io andai a prendere posto.
P.S. -Penso che i miei nipoti resteranno piuttosto sorpresi da questa mia storia. Tanti particolari sembreranno a loro strani. Voglio chiarire alcuni dettagli.
A quell'epoca, spesso, durante la raccolta delle arance o dell'uva gli operai tornavano a casa solo alla fine della settimana o alla fine della raccolta.
Negli anni cinquanta era la prima volta che molte ragazze accedevano all'università, per cui non erano ben viste da molte persone, specie da quelle culturalmente poco evolute.
Era abbastanza frequente che il massaro o il padrone girasse per la sua campagna armato di fucile, era un segno del potere ed anche un deterrente nei confronti di persone malintenzionate.
Voglio ricordare che si tratta di fatti vissuti che sono ancora impressi nella mia mente.