Quando in paese scoppiò l'incendio, decisi che sarebbe stato meglio parlarne. Stampai dei biglietti d'invito dall'aspetto festoso; spessi, in cartoncino bianco, con sinuosi e colorati caratteri che aggrovigliandosi fra loro dicevano: "E' scoppiato un incendio! Sarebbe il caso di parlarne! Con la presente, il sindaco invita la popolazione intera, animali compresi, a recarsi nella sua villa alle tre pomeridiane di oggi, quindici Aprile, ove si terrà una riunione generale sullo stato d'emergenza".
Grazie ai miei collaboratori tutti gli inviti furono pervenuti in brevissimo tempo. Comodamente seduto nella poltrona accanto alla finestra, decisi di aspettare i miei ospiti passivamente, osservando le fiamme che senza fretta alcuna passavano vivaci di abitazione in abitazione, saltando fuori dalle finestre come impazzite, contorcendosi ovunque in una danzante scia di distruzione; dai tetti emergevano di prepotenza, voraci, soffocando il cielo in una densa notte di fumo.
Le masse accartocciate degli alberi, la vegetazione circostante, tutto sembrava marcire di colpo sotto i miei occhi. Uno spettacolo degno di nota, lo ammetto; eppure rimaneva tale, irreale, distante al pari di una qualsiasi trasmissione televisiva; anche poggiando una mano sul vetro che mi divideva dall'inferno, potevo a malapena percepire un timido tepore.
Ero letteralmente ipnotizzato. Solo quando uno dei miei collaboratori, forse accanto a me da più di un minuto, mi scrollò con forza, riuscii a intendere le sue parole: "Signor Sindaco! Rimanga con noi! Non è il momento di farsi prendere dal panico! I cittadini sono tutti qui" mi disse indicando con un ampio gesto della mano la moltitudine di persone accorse a discutere sulla situazione di pericolo incombente.
Per fortuna il nostro paese non vanta un gran numero di abitanti e così, con pochi sforzi, riuscimmo a stiparli senza problemi nell'ampio salone della mia villa. Stretti nei loro abiti eleganti stirati a puntino, i capelli eccessivamente pettinati, il volto pallido ma senza indizio di tensione o emozione alcuna, sembravano un esercito di manichini pronti a sgusciare cortesemente nelle vetrine dei più disparati negozi.
Di certo non mancava loro la voglia di parlare. Da prima mi arresi a quel cicalio confusionario; mormoravano come pazzi, confabulando e strusciandosi nel poco spazio che li divideva l'uno dall'altro. Non capivo bene quale genere di piano stessero elaborando, ma di colpo mi decisi ad alzare la voce per riportare l'ordine: in fondo era pur sempre casa mia! "Cari concittadini" dissi con tono altero ma senza scompormi, irrigidito nella mia posa di leader inflessibile "Vi prego di fare silenzio! Capisco la vostra agitazione ma vi prego di fare silenzio! Un grave pericolo incombe su tutti noi e penso sia il caso di parlarne, di capire bene di fronte a quale problema ci troviamo. Per tanto, prima che cominci ad elencarvi gli argomenti di discussione, alzando la mano potrete pormi una domanda a testa”.
Diedi la parola all'unica mano che si alzò, e ci trovammo di fronte alla prima importante questione: perché nel biglietto d'invito avevo menzionato anche gli animali? Con garbo, sorridendo, risposi che mi ritenevo un uomo di buon cuore; non avrei mai lasciato gli animali in balia dell'incendio.
Talvolta, aggiunsi, mi ritrovavo persino ad abbracciare affettuosamente le piante. Tra l'altro, ora che ci penso, non c'era traccia di nessun animale tra i miei concittadini; tutti, tutti esseri umani. Poi, dato che nessun altro sembrava interessato a fare domande, cominciai con il chiedere di che natura fosse l'incendio. Ebbene, per quanto mi sforzassi di mantenere il dialogo a livelli quantomeno accettabili, mi resi conto da subito che le divisioni in proposito erano tali da portarci persino al litigio più feroce.
Interpellavo uno ad uno, per alzata di mano, ma il signore o la signora del momento, venivano interrotti proprio nel bel mezzo delle loro esposizioni.
C'era chi diceva doloso, perché si era nel periodo degli incendi dolosi, perché l'inverno sicuramente non facilitava l'autocombustione; a quel punto balzava la mano di un fanatico della teoria naturale, che con furore si aggrappava alla possibilità di un fulmine.
In tre o quattro lo circondavano urlandogli nelle orecchie che di temporali non se ne vedevano da settimane, ed ecco che a loro volta si trovavano circondati da altrettante persone che, a tratti ridendo sprezzanti, ricordavano la possibilità di un fulmine a ciel sereno, senza neanche l'ombra di una nube temporalesca. I più increduli al fenomeno venivano appositamente messi a tacere dagli esperti del settore, che con eloquenti gesti delle mani, disegni funambolici nell'aria, e toni da saccenti, spiegavano nel più infimo dettaglio la possibilità, se pur minima, della "formazione di una colonna di gas ionizzato nel bel mezzo della quiete di un placido cielo" .
Ricordo che in uno di questi contrasti si inserì una donna piuttosto anziana, sulla sessantina direi, che alzando di scatto il braccio verso il giovanotto dei fulmini, gracchiò in tono offensivo: "Minima! Minima! Hai detto bene bello mio! Minima!"
Ma questo era davvero nulla in proporzione alla miriade di tesi che spuntavano al pari di funghi da ogni voce che inevitabilmente finiva per tentare di sovrastare l'altra: si accusavano a vicenda, puntavano il dito sul vicino che sicuramente aveva lasciato accesa la stufa a gas, e in un battibaleno finimmo per confonderci a vicenda, sovreccitati da tutte quelle parole che fuoriuscivano come cascate di brillanti dalle nostre bocche: ci piaceva, ci faceva godere parlarne. Neppure io riuscivo più a uscirne fuori; una droga, una vera droga; non avevo più il controllo né di loro né di me stesso.
Dopo le cause passammo in rassegna le più disparate argomentazioni, farcite di ogni sorta di domande: a che ora poteva essere scoppiato l'incendio? Eravamo in grado di misurarne la reale estensione? Con quali mezzi sarebbe stato meglio fermarlo? Lo avremmo domato? Qual era la percentuale esatta di sopravvivenza? Non riuscivamo a trovarci d'accordo su nulla, neppure sulle più piccole delle inezie; litigavamo ferocemente, fisicamente, urlando, scoppiando in crisi isteriche.
Tutti volevano avere la meglio su tutti e la confusione era tale da averne quasi paura.
Poi le idee non bastarono più ed il fiato cominciò a mancare; calò una calma inaspettata e ci trovammo finalmente avvolti nel silenzio. Solo un uomo, saltando all'improvviso fuori dalla massa, ruppe l'incantesimo urlando vivacemente: "Secondo voi quanto sono alte le fiamme? Quanti metri possono essere alte ormai?".
Ed ecco che in un lampo, pur di dire la loro, una marea di individui si scagliò contro le poche finestre presenti nel salone, travolgendomi le orecchie con uno scalpitio simile a una mandria di cavalli inferociti che di colpo, dopo una repentina corsa, si scontrino tutti insieme contro una gigantesca, spessa, lastra di plastica. I loro sguardi erano così accesi, avidi di sapere, che per un attimo pensai fossero in grado di divorare l'intero incendio. Lo avrebbero inghiottito senza porsi nemmeno il problema di digerirlo.
Estasiati, ipnotizzati, potevo vederli indicare qua e là oltre le finestre; accalcarsi l'un l'altro per sbirciare un po' più del vicino di spalla. L'eccitazione generale mi coinvolse e facendomi largo tra la folla mi ritrovai con gli occhi sbarrati sullo spettacolo di fuoco, devastante quanto prima ma incredibilmente vicino. Le fiamme ci circondavano sempre più, estendendosi, diramandosi in ogni direzione, in un cerchio di luce sfavillante ed accecante. Il calore, sentivo finalmente il calore; ma per loro non era abbastanza.
"Essendo io un profondo osservatore, potrei giurare che le fiamme non superano i venti metri d'altezza" disse uno, e molti concordarono muovendo solennemente il capo. In risposta giunsero una raffica di imprecazioni tese a contrastare quell'ipotesi: "Cosa dici? Al massimo possono essere sette metri!" "Sette? Direi almeno dieci!" "E io dico tredici!" "Facciamo anche quindici!".
Sembrava si stesse giocando a tombola e infuriandomi gridai di mantenere la calma, di parlare con cautela, perché se non ne discutevamo bene, se non analizzavamo radicalmente, nel profondo, il problema, non ne saremmo mai usciti. Ma gridavo vanamente e lo sapevo: da tempo mi ero perso in quel vortice di parole senza senso, da cui mi sentivo estraniato.
Rabbrividii quando cominciai a sentire, tra i vari discorsi sconnessi, anche un paio di barzellette sugli incendi: facevano a gara a chi ne raccontava di migliori. Ridevano, ridevano come inebriati di felicità. Ed è tra quelle risate che bruciammo e bruciamo tutt'ora, lentamente, quasi senza accorgercene. Qui dove sono adesso, tra le mie pene, mi rimane un solo e unico sollievo: so per certo che i nostri animali, per quanto bene addomesticati, sono scappati al primo indizio d’incendio.