Gli occhi di Dora si aprirono di colpo, e si sveglió immersa nel freddo abbraccio della neve.
Cercava in vano nei ricordi un solo motivo al mondo che l’avesse portata in quella piccola valle, nel pieno di un mondo sconosciuto, ad addormentarsi nel manto bianco di quel prato innevato. Era sdraiata faccia a terra e non si sentiva piú il lato sinistro del volto per colpa di quel bacio freddo e crudele che l’inverno aveva appoggiato a forza sulla sua guancia arrossata. Eppure, nonostante il freddo e i dolori, Dora si alzó in piedi verificando, con sua stessa meraviglia, di essere tutto somato in buona salute. Si accorse di essere vestita di abiti pesanti, di pellicce e di scarponi, di guanti avvolgenti, di un grosso giaccone bianco e un pesante cappello. Dopo essersi tastata il petto, le braccia e le gambe alla ricerca di qualcosa di rotto ebbe finalmente il coraggio di guardarsi intorno per capire dove in realtá si trovasse. Per quei brevi attimi infatti, aveva cercato di ignorare quell’urlo tremendo che l’inconscio le infliggeva e che gli domandava tremante di freddo e di paura “cosa mi é successo?”.
Decise di ignorare momentaneamente quella domanda perché non aveva una risposta valida. Si accorse, man mano che si guardava attorno e vedeva il placido scenario che la circondava, di non saper rispondere a nessuna delle domande a cui il suo inconscio la sottoponeva.
“Come sei arrivata qui?”
“Non lo so”
“Dove sei?”
“Non lo so”
“Chi sei?”
“Non lo so. Ma so come mi chiamo...il mio nome é Dora”.
Gli occhi azzurro elettrici di Dora scrutarono il paesaggio ancora per qualche istante mentre dentro se stessa, nostra protagonista, reprimeva l’urlo di paura e disperazione che gli incrinava l’anima e gli tagliava il respiro. Che gli stringeva lo stomaco e gli imepdiva di vedere e capire ció che la circondava. Anche per questo, per capire cosa in realtá fosse successo, Dora cominció a contare, lí in mezzo a quel paesaggio che sembrava segnato da un eterno inverno e in mezzo a quella solitudine e quella disperazione:
“uno”
“due”
“tre”
e mentre contava il panico gli si arrampicava sulla schinea, si impossessava delle sue ossa facendole tremolare come gocce appese ad una grondaia in procinto di cadere. Continuava trascinando il suo manto nero nelle viscere e offuscando il cuore e i polmoni fino a cancellare il respiro.
Ma non arrivava al cervello, dove trovava il suo argine finale, ultimo baluardo della ragione.
“Uno, due, tre”.
Aprí gli occhi e la paura non c’era piú, fuggita come un animale notturno sorpreso nella luce. Aprí gli occhi e si trovò finelmente libera da paure rampicanti.
“Io mi chiamo Dora” disse con un filo di voce sfidando il vento d’altura che sembrava volerla zittire. Sapeva solo questo di se stessa, ma se voleva avere salva la vita, doveva farselo bastare.