Autore Topic: Il professore Rega  (Letto 906 volte)

dorotychecorre

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Il professore Rega
« il: Agosto 16, 2011, 14:44:48 »
Il professore Rega



La sveglia suonò al primo piano interno 11, alle sei, come sempre, ma il professore Rega non rispose al suo invito ad alzarsi. Aveva sessantacinque anni e quell’anno sarebbe andato in pensione. Insegnava lettere al liceo classico Giacomo Leopardi.
Se i suoi allievi lo avessero visto a letto, con  i capelli brizzolati  arruffati, la giacca aperta per mancanza di bottoni, le lenzuola lise, le ciabatte esauste e scolorite, non lo avrebbero riconosciuto. Per loro il professore Rega non era un uomo trasandato.
 Alto, lo sguardo grigio verde attento, Rega aveva un aspetto fresco e un buon profumo corteccia e muschio. Quella mattina non si alzò.
C’era il pranzo con gli allievi del quinto anno quel giorno. Se ne andavano, era già successo con tanti altri. Anche la moglie di Rega se n’era andata, da tre anni ormai. Era morta silenziosamente. L’anno dopo Diego, suo figlio, si era trasferito in Canada.
Rega quel giorno non si alzò perché era stufo di addii.
In quella casa era tutto liso, spento. Solo i vestiti erano in bell’ordine nell’armadio e le camicie perfettamente allineate nei cassetti, solo loro sembravano appartenere al presente, merito della lavanderia al civico 100 di quella stessa strada. Tutto il resto sembrava sospeso, proveniente da un tempo indefinitamente lontano.
Erano le undici quando finalmente il professore si alzò e andò in cucina a prepararsi il caffè. La tazzina sbreccata in mano, si accomodò al computer ma prima oscurò completamente la stanza abbassando la persiana. Si vide per un attimo riflesso nei vetri: <<Come sono invecchiato>> pensò.
Si collegò ad una chat incontri. Aveva scritto il suo profilo mentendo su tutto. In quel mondo lui era tale Socrate 60, quarantasettenne celibe, bella presenza, sensibile, amante della musica e della buona cucina. Gli scrivevano un sacco di donne. Era avido di quelle presenze e del disprezzo che provava per loro. Si era abituato a quella sensazione agro-dolce, non riusciva più a farne a meno.
Un rumore all’uscio lo distolse dalla sua conversazione con Regina di Cuori.
Era il portiere che, come sempre, gli lasciava la busta della spesa attaccata al pomello della porta. Poche cose: pane, latte, affettati. Rega gli lasciava la lista sotto l’uscio. Albino si preoccupava di fargli avere quanto richiesto entro mezzogiorno e se non trovava la lista comprava comunque pane e latte.
Quel rumore avvertì Rega che era mezzogiorno. Aspettò che il portiere se ne fosse andato per prendere la busta. Non aveva fame.
Alle quattordici uscì. Albino era chiuso nella sua casetta di portineria, si godeva la pausa pranzo.
Il portone era vuoto, non lo vide nessuno.
I pontili deserti erano lustri di acqua e sole. Sembrava un ragazzo Rega con la tuta da ginnastica e lo sguardo disteso dall’aria frizzante di quel settembre ora benevolo ora nuvoloso.

Quando suo figlio Diego era piccolo lo portava a pescare sul molo. Poi era cresciuto ed era successa quella cosa che li aveva allontanati. Quella faccenda dell’omosessualità.
Rega un figlio omosessuale non se lo aspettava. Niente contro nessuno per carità. Lui era un uomo di cultura, aperto, emancipato. Non come la moglie che quella sera, quando Diego li invitò a cena fuori per comunicargli la notizia, si mise a piangere.
Lui a tavola non battè ciglio, anzi, era anche un po’ seccato per tutta quella messinscena: “Vi porto a cena fuori, devo parlarvi di una cosa terribilmente importante”.
 La cena fuori, il ristorante particolare, la reticenza iniziale.
Che bisogno c’era di tanti misteri, avrebbe potuto dirlo così, dirlo e basta, in un momento qualunque, non so, ma insomma: era gay. Così si diceva. E allora?
E allora perché si sentiva così contrariato Rega , quella sera, andando a letto?  Non certo per quella faccenda del ristorante e tutto il resto. Diego era così, un po’ cinematografico diciamo, ma in questo non c’era niente per cui contrariarsi, anzi. A lui era sempre piaciuto quel gusto della cornice che il figlio aveva da sempre molto spiccato. Diego ritualizzava e impacchettava con grandi fiocchi tutte le banalità che possono venire in mente. Era così. Così come? Com’era Diego, adesso che ci pensava?
Fino a quella sera aveva creduto di conoscerlo benissimo:
Diego, mio figlio.
 E adesso se lo ritrovava gay. Cioè? Baciava gli uomini, si faceva toccare da loro, ci andava a letto, si, in quel senso.
Ebbe gli incubi quella notte. Aveva delle parole in testa che lo braccavano, volevano esplodergli dentro e lui le ricacciava come mosche fastidiose, come serpenti viscidi, odiosi, che schifo! Ecco. Il primo boato, la prima deflagrazione seguita da tante altre piccole onde d’urto, che schifo che schifo che schifo…
Si alzò come sempre alle sei. Corse fuori da quella casa subito dopo la doccia, aveva compito in classe, si giustificò, doveva fermarsi a fare delle fotocopie.
S’incamminò a piedi, si sentiva osservato come se tutti i passanti potessero accorgersi solo guardandolo del suo segreto. Già, il segreto. Ma Diego a chi lo aveva detto? Prima che a loro, prima che a lui? Dio mio, forse era da tempo lo zimbello di tutta la sua famiglia e non lo sapeva. Ecco perché suo fratello Carlo, al matrimonio del figlio, aveva fatto quella battuta su Diego, sui nipoti che non gli avrebbe mai dato. Ma no, che pensava, che c’entrava adesso suo fratello Carlo. Dio mio, Dio mio, sentiva i pensieri guizzargli nel cervello, era tutto accelerato dentro di lui, non riusciva a rallentare, a riprendere il controllo.
Passavano i giorni e la catastrofe si confermava ai suoi occhi, s’ingrandiva, mostrava risvolti inattesi, pretendeva di riscrivere la storia del suo rapporto con il figlio: quando era successo? Quale episodio? Aveva commesso qualche errore? Quando? Perché?
Passarono gli anni. Non ci pensò più. Fece una semplice operazione di restringimento: delimitò il perimetro della sua vita, la quantità degli incontri, delle  parole pronunciate, dei pensieri persino.
Teneva lontano quella cosa tagliandole i ponti di accesso fino a lui. Si lasciò risucchiare dai suoi studi e continuò a vivere come poteva.
La moglie morì dopo sei anni. Diego un anno dopo si trasferì in Canada. Non lo vedeva da due anni. Non lo sentiva al telefono ormai da mesi.



Quel temporale lo sorprese mentre guardava le barche ormeggiate. Si avviò con il bavero rialzato, non si trovava molto lontano da casa. La pioggia aumentava d’intensità ad ogni istante, magri rivoli prima, una grandine maligna poi, sferzante, sul suo corpo curvo in corsa. L’acqua veniva giù dal cielo compatta ora: era un enorme cono di luce liquida.
Rega correva, i pochi passanti correvano, inquieti per quell’inaspettato travaso di acqua dal cielo. Rega correva ma ad un certo punto smise, rallentò, si fermò. L’acqua gli cadeva addosso con la violenza di una diga spezzata, di un argine violato. Piangeva il professore, ora, ma era acqua mescolata ad acqua, non si notava la differenza.
 Arrivò sotto casa bagnato fin dentro l’ultimo anfratto, l’ultima cellula del suo corpo. Tremava.
Albino stava lottando contro il vento per chiudere il portone quando lo vide: “ Professore, professore Rega, ma come, ve ne andate in giro con questo tempo”
 Rega non rispondeva, non sapeva cosa dire.
La moglie di Albino, la signora Elena, arrivò con un asciugamano  bianco, morbido: “Entrate professore, entrate un momento, ho acceso la stufa “
Rega si lasciò portare in casa. S’infilò dei panni di Albino mentre fuori la tempesta continuava ad urlare. La luce andava e veniva. Rimase fino ad ora di cena. Cenò con loro. Albino ed Elena erano increduli di avere in casa un ospite così importante, non la smettevano più di affannarsi attorno a lui, che se ne stava lì, tranquillo.
Tornò a casa tardi. Ebbe voglia di tagliarsi le unghie, da Albino aveva notato che erano troppo lunghe. Ammucchiò le unghie recise sul pavimento, gli sembrarono tanti piccoli cadaveri.
Si chinò a raccoglierle e notò, abbandonate in un angolo, le sue ciabatte sfondate, gli sembrarono vecchie serve fedeli in attesa di accompagnarlo verso la notte. Le ignorò. La lucina del computer occhieggiava, poco più in là. Immaginò Regina Di Cuori dall’altra parte dello schermo: sorrise.
Finalmente vide quello che stava cercando. Il telefono.
Cercò un numero nelle rubrica telefonica. Ci volle un po’ di tempo per ottenere la conversazione con l’abbonato, il Canada è pur sempre dall’altra parte del mondo.
Parlò a lungo con il figlio, gli raccontò del suo naufragio, di Albino ed Elena, del suo ricordo lì sul molo.
Dorotychecorre

Micio93

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Re: Il professore Rega
« Risposta #1 il: Agosto 16, 2011, 22:08:37 »
Finisce così? che peccato.. non ci potrebbe essere un continuo, o comunque una fine più decisa? mi sembra che l'ultima riga non basti come finale... :mah:
Bella Storia anche questa, complimenti!  :rose:

dorotychecorre

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Re: Il professore Rega
« Risposta #2 il: Agosto 17, 2011, 09:21:24 »
Grazie mille per aver letto il mio racconto. Hai ragione per quanto riguarda l'incompiutezza ma questi racconti fanno parte di un romanzo breve nella cui cornice è contenuto il senso complessivo. Letti così possono dare la sensazione che hai provato tu. Comunque grazie ancora per la tua lettura attenta e sensibile.
Dorotychecorre

victor

  • Mucca Cin Cin
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Re: Il professore Rega
« Risposta #3 il: Ottobre 02, 2011, 21:00:02 »

Si, anche io ho avuto la sensazione di Micio … il finale mi ha sorpreso …

Comunque complimenti!

Scrivi meravigliosamente!

Il duro impegno per l'acquisizione delle competenze, la passione e le doti personali creano eccellenza ... e distinguono il professionista dal lavoratore ... Victor