Vi è capitato di riflettere sull’estetica delle rovine archeologiche come simbolo di morte ?
Gli edifici in rovina, siano essi antichi monumenti diroccati ma anche palazzi in abbandono, invasi dalla vegetazione che penetra tra le crepe delle pietre, offrono la visione dell’ineluttabile precarietà, la testimonianza del tempo che passa.
Nel ‘700, in particolare, le rovine di epoca romana furono ritratte da pittori e incisori: templi crollati, colonne, resti di abitazioni. Di quel che furono, poderosi edifici, offrono allo sguardo la silenziosa malinconia.
Johann Heinrich Füssli, l’artista è commosso dalla grandezza delle rovine antiche, 1778-80, sanguigna e seppia, Kunsthaus, Zurigo.
Rovine nel parco archeologico di Selinunte. Sullo sfondo, il Tempio di Era, della prima metà del V sec. a.C..
Nel 1517 papa Leone X per far continuare la costruzione della nuova basilica di San Pietro, iniziata il 18 aprile 1506 durante il pontificato di papa Giulio II, non avendo il denaro necessario istituì una speciale indulgenza per coloro che avessero fatto un'offerta.
Inoltre, per accelerare i lavori fece depredare numerosi monumenti dell’antica Roma.
Nel 1519 il famoso pittore e architetto rinascimentale Raffaello Sanzio per difendere quei resti monumentali dalle spoliazioni da parte di nobili, cardinali ed anche pontefici per la costruzione di altre dimore o chiese, scrisse una lettera al papa Leone X per porre fine alla rovina arrecata ai resti della Roma imperiale “dalla scielerata rabbia et crudel’impeto di malvaggi huomini”.
Per elaborare la lettera Raffaello chiese l’aiuto del suo amico Baldassarre Castiglione, il quale mise in elegante prosa volgare i sentimenti appassionati e i progetti visionari concepiti dall’amico artista su “quella nobil patria, che è stata regina del mondo”.
Raffaello, a cui era affidata la direzione del cantiere per la nuova basilica di San Pietro, avvertiva la profonda contraddizione tra le esigenze del papa e il proprio convincimento circa la necessità di risparmiare le rovine del passato nella città. Da questa constatazione l’appello di Raffaello per la sistematica documentazione della Roma antica superstite, secondo gli insegnamenti di Vitruvio e di Leon Battista Alberti.
La lettera sarebbe stata concepita da Raffaello come reazione “emozionale e ragionata” all’asportazione dei ruderi, a cui l’artista stesso era stato costretto, nella speranza di riuscire a trasformare un papa “ruinante” in un papa conservatore dei monumenti.
Le speranze dell’artista erano destinate a cadere con la sua morte, avvenuta a Roma alle ore tre nella notte del Venerdì Santo del 6 aprile 1520. Aveva 37 anni.
Fu sepolto nel Pantheon, ai piedi della Madonna del Sasso: opera scolpita dal suo allievo Lorenzetto.
Il cardinale scrittore e umanista Pietro Bembo, suo grande amico, volle scrivere l’epitaffio che fu poi inciso sulla tomba nel Pantheon: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori” (= “Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire”.