Arrivai al bar di Piazza del Duomo con un leggero ritardo e con lo sguardo cercai Emanuela. La vidi seduta al tavolo con un uomo che non conoscevo. Non avevo voglia di vedere gente. Stavo per andarmene quando lei mi scorse. Il viso s’illuminò e sorridendo mi fece segno di venire. Non potei far altro che avvicinarmi.
“Lui è Marco, un collega di mio marito. Mi ha fatto compagnia mentre ti aspettavo”, mi disse dopo il suo tradizionale abbraccio affettuoso.
“Buongiorno Marco”.
Lui si era educatamente alzato puntando il suo sguardo volitivo sui miei occhi. Era un bell’uomo sui quaranta anni, fisico longilineo e atletico ma non palestrato. Il sorriso sicuro di un uomo forte, che non si vergogna della malinconica dolcezza dei suoi grandi occhi neri. Un uomo pericoloso, avrebbe detto mia nonna. Quelli che rovinano le brave ragazze, avrebbe aggiunto.
Strinse la mano che gli avevo porto e pose la sinistra sul braccio effettuando una lieve, quasi impercettibile, carezza. Era estate, la sua mano incontrò la mia pelle nuda. Il sole, e spero solo lui, vide fremere al tocco la mia pelle.
“Ciao Marinella” disse semplicemente.
Rimase alzato mentre noi ci sedevamo.
“Io vado, così vi lascio chiacchierare liberamente. Marinella, è stato un piacere anche solo incontrarti. Emanuela mi aveva detto che eri una bella donna. Pensavo esagerasse, ma sbagliavo. Sei molto più che bella. “
E andò via, quasi fuggendo, senza darmi il tempo di ringraziarlo per la sua galanteria.
“Persona interessante. Un appassionato di De André, come te”. Chiosò la mia amica, passando subito ad altro.
“Ti devo raccontare una storia spassosissima. Te ricordi Giulia, la nostra collega di Educazione Fisica di quando insegnavamo a Riva del Garda?”
Volevo molto bene a Emanuela. L’avevo conosciuta il mio primo giorno di insegnamento, proprio a Riva. Da allora eravamo diventate grandi amiche. Entrambe figlie uniche, avevamo forse trovato la sorella che avremmo sempre desiderato avere. Ci eravamo prese come solo due opposti si prendono. Lei, un’insolita meridionale bionda, salita al Nord per lavorare, era solare, aperta, sempre ottimista. Sono una leccese normanna, amava dire. Io trentina delle Valli Giudicarie, diffidente, seria, col sorriso faticoso. Emanuela mi aveva insegnato che ridere è spesso la massima forma di serietà. È stata una delle poche, forse l’unica, che non è scomparsa quando il film della mia da commedia romantica si è trasformata in dramma. La maggior parte delle persone ha grandi difficoltà nell’affrontare la sofferenza, la propria e quella degli altri. Dalla propria sofferenza non è quasi mai possibile fuggire, da quella altrui sì. E molti cosiddetti amici, e addirittura qualche parente, erano scappati via.
Cascasse il mondo – e il mio era proprio cascato - ci vedevamo il giovedì pomeriggio per prendere un tè in un bar del centro di Trento. Era il nostro piccolo grande rituale da anni. Almeno quando lei era in città. L’avevo conosciuta che era un’insegnante di musica alle scuole medie, ora era violino di fila nell’orchestra dell’Arena di Verona e ogni tanto partiva per delle tournée. Quell’appuntamento per me era diventata un’oasi di serenità, se non una pratica di sopravvivenza, e maledicevo l’Arena quando me la portava via.
Qualcuno avrebbe detto che Emanuela tendeva a chiacchierava troppo. I trentini, si sa, non sono propriamente loquaci e spesso diffidano di chi lo è. A me piaceva sentirla parlare. I suoi racconti erano ironici e divertenti e anche quella volta mi fece ridere con le disavventure di Giulia prima e della sua famiglia poi. Era arrabbiata con il marito perché quel fine settimana sarebbe andato con degli amici a fare una battuta di caccia in Croazia. Lei, animalista militante, sarebbe stata meno dispiaciuta, mi confessò, se fosse voluto andare da qualche parte con un’amante. Non le credetti, sapevo quanto amava quel suo uomo, salentino anche lui, simpatico ma un po’ cialtrone.
“Guarda che se non fossi arrivata presto, avrei ceduto alla corte di Marco. Così avrebbe avuto le stesse corna del cervo che vuole sparare. Hai visto che bell’uomo che è? Ci cangia defrisca”, concluse nel suo dialetto che avevo cominciato a capire. Mi allenavo tutte le estati, quando passavamo almeno due settimane insieme nella sua casa vicino Otranto. Ma neanche questa volta le credetti.
Ridevamo ancora, quando ci salutammo. Voltato l’angolo, mentre tornavo a casa, Emanuela mi mancava già.
Quella sera a letto mi facevo cullare dal lento respiro di mio marito, ma io non dormivo. Mi veniva una tristezza infinita a pensare come fosse diventata la nostra vita. E mi venne il terrore di quello che ci aspettava. Non ne avevo parlato con nessuno, neanche con Emanuela. Il venti settembre si avvicinava sempre più velocemente e io non sapevo cosa fare.
Era il giorno del mio compleanno, poco meno di quattro anni fa. Camminavamo spediti verso il nostro ristorante preferito per festeggiare, noi due soli, come sempre. Enrico fu improvvisamente bloccato da un crampo alla gamba destra. Minimizzò. Minimizzai. Solo un piccolo strappo che si era preso giocando a pallacanestro. Chi si preoccupa per un semplice crampo? E infatti gli passò in un paio di giorni.
Tornò tre settimane dopo e fu l’inizio del nostro calvario. Se la mia vita fosse stata veramente un film, in questo preciso istante la musica avrebbe cambiato registro, virando verso un tono basso e drammatico che sarebbe durato fino ai titoli di coda. E per me anche dopo.
SLA era il proiettile che il destino ci aveva sparato addosso, sclerosi laterale amiotrofica. All’inizio Enrico ci scherzava anche; la stessa malattia di Stephen Hawking, per lui laureato in fisica alla Normale e professore all’Università di Trento. Ma questa volta non c’era proprio niente da ridere.
Di colpo pensai a Marco. A quando aveva messo la sua mano sul mio braccio. Mi sentii bagnare. In silenzio, mi tolsi gli shorts del pigiama, allargai le gambe, mi accarezzai piano, lenta, senza fretta, prendendomi tutto il tempo che il destino reclamava indietro. Chiusi gli occhi e venni, intensamente venni. Mi voltai verso Enrico, presi la sua mano nelle mie e sussurrai: “Ti amo”.
Eravamo alla fine di agosto e non c’erano stati ancora temporali, il venti settembre si avvicinava veloce. L’aria era ancora calda alle sei di pomeriggio. Uscivo dalla Coop di piazza Lodron e mi sentii chiamare. Mi voltai e vidi il volto spavaldo e sorridente di Marco.
“Ciao Marinella, che bella sorpresa incontrarti”. Disse venendomi vicino. Pose la sua mano sui miei fianchi.
“Posso offrirti un tè o quello che vuoi?”.
“Mi dispiace, non posso, devo tornare a casa.” Risposi, forse troppo bruscamente.
“Ti posso lasciare il mio telefono?”, mi disse prima di salutarmi. “Per qualunque cosa, per bere un tè, fare una passeggiata, chiamami”. Presi il numero e scappai via.
Cominciarono le prime piogge e i primi freddi, le giornate si accorciavano sempre più velocemente. Il tempo stava per finire. Io stavo male e non potevo parlarle con nessuno, neanche con Emanuela.
La mia amica sembrava leggermi nel pensiero, perché proprio in quel momento mi arrivò un suo messaggino al telefono. Era un link a una pagina web con un’intervista all’assessore al turismo del Comune di Otranto. Erano iniziati i lavori per la costruzione del primo stabilimento balneare progettato per permettere anche ai portatori di handicap di fare il bagno in mare in tutta sicurezza e comodità. Scivoli per entrare in acqua e particolari sedie a rotelle con grandi ruote di gomma in grado di passare comodamente dalla spiaggia al mare.
“Così Enrico tornerà a farsi il bagno”. Mi scrisse.
Le risposi semplicemente: “Grazie”.
Pregai che mi perdonasse, quando avesse saputo.
Arrivò il giorno prima della partenza. Non chiamai Emanuela, ma telefonai finalmente a Marco. Ci accordammo per prendere un tè da lui. A casa dissi che avevo una riunione a scuola.
Tornai tre ore dopo. Corsi a farmi una doccia e misi tutti i miei vestiti in lavatrice.
Salutai Andra, la signora rumena che mi aiutava con Enrico. Mi avvicinai a lui, gli sorrisi e gli feci una carezza in viso.
“Come stai amor mio”, dissi.
Oramai parlava solo attraverso il computer. Lentamente, muovendo solo un dito, digitò e il sintonizzatore vocale disse: “Bene. Oggi sei più bella del solito”.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Le ricacciai indietro e mi chinai a dargli un bacio sulle labbra. Con la punta della lingua gentilmente gliene accarezzai. I suoi occhi si illuminarono. “Ti amo” gli sussurrai in un orecchio.
“Mai quanto io”, rispose la voce metallica.
Il giorno dopo partimmo. Era raggiante, direi proprio felice. Era tanto che non lo vedevo così. Il suo entusiasmo mi contagiò. Lui sembrava, era, felice di partire. Speravo che a cose fatte, la sua serenità sarebbe stata la mia difesa contro i sensi di colpa.
Potrà sembrare un’eresia, ma fu come se fosse il nostro secondo viaggio di nozze. Il buon Dio, o chi per lui, ci regalò una giornata splendida. Dopo una settimana intera di nuvole e pioggia, il cielo era azzurro e il sole brillava sicuro di sé. L’aria era tiepida. Arrivammo in Svizzera che era buio inoltrato.
Lui non aveva il minimo dubbio, io ero confusa e dilaniata. Fino all’ultimo gli dissi che potevamo tornare a casa insieme, nessuno avrebbe saputo nulla. E ripetei le cose che gli andavo dicendo da quando mi aveva comunicato la sua decisione, tre mesi prima. Se lo faceva per me, sbagliava. Io ero sicura che lui, per me, avrebbe fatto questo e altro, se fossi stata al posto suo. Che io stavo bene così, che non mi mancava nulla. Che lo amavo, come prima, se non ti più.
Fece il suo abbozzo di sorriso, che comunque ancora mi scaldava il cuore. E mi accarezzò con gli occhi, l’unico modo che gli era rimasto per farlo.
Era bellissimo, il mio Enrico. Gli feci una foto e la mandai a Emanuela. Chissà se avesse capito?
“Io torno libero. Sii felice”.
Mi arrivo il messaggio di risposta di Emanuela. Semplice e chiaro.
“Sono accanto a te. Ora e dopo”. Benedetta salentina normanna, aveva capito tutto.
Entrò l’infermiere, guardò Enrico per un’ultima conferma. Il sintonizzatore disse: “Ok”.
L’infermiere si avvicinò col il dispositivo che avrebbe aperto la flebo. Enrico mi guardò, sorrise e fece click.
“Tienimi la mano, fino alla fine”. Disse la voce metallica.
E la fine arrivò.