Piccolofi ha scritto
Del troppo parlare ci si pente sempre. Quando stai per parlare, fermati, richiudi la bocca e fai passare una notte. Il giorno dopo avrai trovato le sole parole opportune.
La notte è trascorsa, ora sono capace di scovare nel thesaurus della mia memoria “le parole opportune” ? Non lo so !.
I tuoi aforismi sono sentenze senza appello, non vogliono risposte da
“coloro / che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (Inferno III, 35 – 36).
Allora che fare ? Tacere, soffrire in silenzio, oppure scrivere ?
“Essere o non essere è questo il dilemma. È forse più nobile soffrire, nell'intimo del proprio spirito, le pietre e i dardi scagliati dall'oltraggiosa fortuna, o imbracciar l'armi, invece, contro il mare delle afflizioni, e combattendo contro di esse metter loro una fine? Morire per dormire. Nient'altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali di cui è erede la carne! Quest'è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire per dormire. Dormire, forse sognare” (William Shakespeare, Amleto).
Piccolo fiore “tacet”.
Il sostantivo latino “tacet” (= tace) corrisponde alla 3ª persona singolare dell’indicativo presente di tacēre ( in italiano“tacere”).
Nell’ambito musicale il “tacet” indica una pausa, lo strumento musicale non deve suonare. Anche nel parlato indica la pausa, ma dopo il silenzio riflessivo l’individuo riprende l’attività dialogica.
L’elogio del buon tacere si addice al solitario eremita, ma chi vive in società deve dialogare con l’interlocutore/trice. Deve ascoltare e parlare, ascoltare e tacere per non interrompere chi parla.
Nulla come l'ascolto ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola.
Dopo quanto suddetto “
mi taccio”. Mi piace questo “mi taccio”, frase arcaica volutamente esibita ma che non uso, preferisco "taccio".
L’oscillazione tacere/tacersi è molto antica e presente numerose volte in letteratura.
Per esempio Dante (Inferno, X, vv. 119 120): “Qua dentro è ‘l secondo Federico / e ‘l Cardinale; e de li altr
i mi taccio”;
nel “Convivio”: “Non è da lasciare, che tutto ‘l testo
si taccia”);
Giovanni Boccaccio, in “Amorosa visione”: “però
mi taccio omai e dirò di color che seco mena dalla man”;
nel Decameron, X, 8: “I
o mi taccio per vergogna delle mie ricchezze, nella mente avendo che l'onesta povertà”.