Autore Topic: Quarantena  (Letto 767 volte)

Doxa

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Quarantena
« il: Marzo 18, 2020, 11:32:42 »
Un altro giorno della nostra quarantena.

Trascorro il tempo scrivendo e dipingendo i miei sogni. Ma la tavolozza non contiene tutti i colori che voglio.

All’ultimo mio sogno ad occhi aperti ho dato una pennellata di azzurro, un altro di turchese, un po’ di bianco, ho aggiunto alberi di palma, ed ecco il quadro



Sogni, fantasie per sopportare in tempo di Quaresima la  cosiddetta “quarantena”, ma non sono 40 giorni. Per adesso solo 15 giorni di clausura, ovviamente ripetibili …

Nel frattempo con l’immaginazione solco  i sette mari guardando sul fondo del bicchiere, percorro l’universo guardando nello specchio.
 


Doxa

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Re:Quarantena
« Risposta #1 il: Marzo 19, 2020, 00:32:57 »
In questo  periodo di "clausura" l'immaginazione aiuta

Allora continuo ad immaginare….


le mie maschere

Sono un mimo e un guitto, con gesti, movenze, parvenze, suscito l’attesa, la risata, la lacrima velata.

Sono un commediante, e con le parole seduco il pubblico pagante.

Sono delle parole  un giocoliere, non so far altro mestiere.

Sono un prestigiatore del reale, per regalare il sogno e l’illusione, il falso e l’apparente, tanto seducente da sembrare vero.

Sono musicista e cantastorie, suono e canto le cronache e le storie.

Sono un aedo e un rapsodo,un cantore girovago. Recito brani accompagnato dal suono della cetra, sacra al culto di Apollo, e dell’aulos, sacro al culto di Dioniso, dio del vino, dell’ebbrezza e dell’incantamento

Sono un giullare e un saltimbanco dell’identità: salto di qua e di là, per diventare quello che voglio nelle varie realtà.

Sono un rimator cortese e un menestrello,

perciò...

me faccio na cantata, tanto pe' cantà, pe’ fa quarche cosa. Nun è niente de straordinario, se po canta pure senza voce. Basta ‘a salute e un par de scarpe nove. Poi girà tutto er monno e m’accompagno da me.

Pe fa la vita meno amara me so’ comprato ‘sta chitara. E quanno era sole scenne e more, me sento ‘n core cantatore. La voce è poca ma ‘ntonata, nun serve a fa na serenata, ma solamente a fa ‘n maniera de famme ‘n sogno a prima sera.

Tanto pe' cantà, perché me sento un friccico ner core, tanto pe' sognà perché ner petto me ce naschi 'n fiore, fiore de lillà che m'ariporti verso er primo amore, che sospirava le canzoni mie e m'aritontoniva de bucie.

Grazie Nino (Manfredi) per avermi prestato le tue parole della canzone in dialetto “Tanto pe cantà”.

https://www.youtube.com/watch?v=HTuOw7lH_VE
« Ultima modifica: Marzo 19, 2020, 07:44:16 da dottorstranamore »

Doxa

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Re:Quarantena
« Risposta #2 il: Marzo 29, 2020, 10:50:30 »
Il  giornalista  e critico letterario francese Bernard Pivot con un tweet tra il serio e il faceto ha descritto così il “Coronavirus”:

è anticapitalista (caduta dell’indice della Borsa valori);

ama l’oro (il costo è salito dell’8%);

è ecologista (poco traffico automobilistico e aereo = meno inquinamento e polveri sottili);

è misantropo (odia le persone a distanza ravvicinata);

è puritano (impedisce alle persone di toccarsi).

A questa   descrizione manca l’aspetto teologico: è un castigo di Dio, per chi ci crede.

nihil

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Re:Quarantena
« Risposta #3 il: Marzo 30, 2020, 10:28:06 »
In questo  periodo di "clausura" l'immaginazione aiuta

Allora continuo ad immaginare….


le mie maschere

Sono un mimo e un guitto, con gesti, movenze, parvenze, suscito l’attesa, la risata, la lacrima velata.

Sono un commediante, e con le parole seduco il pubblico pagante.

Sono delle parole  un giocoliere, non so far altro mestiere.

Sono un prestigiatore del reale, per regalare il sogno e l’illusione, il falso e l’apparente, tanto seducente da sembrare vero.

Sono musicista e cantastorie, suono e canto le cronache e le storie.

Sono un aedo e un rapsodo,un cantore girovago. Recito brani accompagnato dal suono della cetra, sacra al culto di Apollo, e dell’aulos, sacro al culto di Dioniso, dio del vino, dell’ebbrezza e dell’incantamento

Sono un giullare e un saltimbanco dell’identità: salto di qua e di là, per diventare quello che voglio nelle varie realtà.

Sono un rimator cortese e un menestrello,

perciò...

me faccio na cantata, tanto pe' cantà, pe’ fa quarche cosa. Nun è niente de straordinario, se po canta pure senza voce. Basta ‘a salute e un par de scarpe nove. Poi girà tutto er monno e m’accompagno da me.

Pe fa la vita meno amara me so’ comprato ‘sta chitara. E quanno era sole scenne e more, me sento ‘n core cantatore. La voce è poca ma ‘ntonata, nun serve a fa na serenata, ma solamente a fa ‘n maniera de famme ‘n sogno a prima sera.

Tanto pe' cantà, perché me sento un friccico ner core, tanto pe' sognà perché ner petto me ce naschi 'n fiore, fiore de lillà che m'ariporti verso er primo amore, che sospirava le canzoni mie e m'aritontoniva de bucie.

Grazie Nino (Manfredi) per avermi prestato le tue parole della canzone in dialetto “Tanto pe cantà”.

https://www.youtube.com/watch?v=HTuOw7lH_VE
[/quote  Il castigo di Dio, comincia a venirmi il sospetto. Finita l'acqua per i diluvi, prova a sfoltire l'umanita. Non so in base a quale criterio, che dubito comunque sia saggio.

Doxa

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Re:Quarantena
« Risposta #4 il: Aprile 08, 2020, 23:21:40 »
Monatto: dal dialetto milanese “monatt”, di etimo incerto.

Nei secoli XVI e XVII nei periodi di epidemia pestilenziale i monatti erano gli incaricati dai Comuni del trasporto degli appestati nel lazzaretto o nelle fosse comuni dei morti di peste. Eseguivano anche le sepolture e la distruzione degli oggetti dei defunti che potevano essere latori di contagio. Per la triste mansione venivano scelti condannati a morte, carcerati, o persone guarite dal morbo e così immuni da esso.

Proprio per la loro origine spesso malavitosa, erano inizialmente sorvegliati da commissari e soggetti a regole e norme, ma, con il passare del tempo e il dilagare dell’epidemia, i monatti sfuggirono ad ogni forma di controllo: “…si fecero, i monatti, principalmente, arbitri d’ogni cosa […] Sono considerati un flagello nel flagello dell’epidemia. Indossano vestiti dai colori accesi, quali il rosso, con pennacchi e fiocchi di vari colori che quelli sciagurati portavano come segno di allegria, in tanto pubblico lutto” (cap. XXXII).

Manzoni descrive i monatti nell’epidemia di peste a Milano nel 1630: “serventi pubblici ... addetti ai servizî più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta” (Promessi Sposi, cap. XXXII).

Raramente i monatti mostrarono segni di compassione e di rispetto nei confronti dei morti e delle loro famiglie.

Nell’episodio della madre di Cecilia (cap. XXXIV), il monatto pur definito inizialmente turpe, mostra invece un atteggiamento difforme a quello dei suoi compagni descritti in precedenza; la diversità dei modi della donna lo induce a un insolito rispetto e ad una esitazione involontaria, fino alla finale gentilezza nei confronti del corpo morto di Cecilia: “Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina”.


 Sull’uscio di casa la madre di Cecilia parla con il monatto mentre sorregge tra le braccia il corpo esanime della bambina.

Altra dolorosa incombenza era quella degli “apparitori”: avevano l’incarico di annunciare il passaggio dei carri dei monatti e dei “commissari” incaricati di vigilare su queste attività. Per il loro annuncio gli apparitori usavano dei campanelli legati alle caviglie o alla cinta dei pantaloni, avvertivano “col suono d’un campanello, i passeggeri che si spostassero” (cap. XXXII).

Nel capitolo XXXVI de “I Promessi Sposi” Renzo alla ricerca di Lucia a Milano, si "traveste" da apparitore per riuscire a introdursi indisturbato nelle corsie femminili del lazzaretto di Milano, indossando al piede un campanello; quando a un certo punto un commissario gli rivolge degli ordini, decide allora di sbarazzarsi del campanello, ritenendo di poter avere più problemi che vantaggi da quel travestimento.

Manzoni dice che gli apparitori e i monatti venivano accusati di ruberie e “che lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza” (cap. XXXII).

Nella bassa padana, al di là del fiume Po, nella città di Piacenza, nella grida “Regole et ordini”, i monatti venivano distinti tra “brutti” e “netti”. “…alla porta della casa che si dovrà espurgare, mandandosi dentro di quella solamente li monatti brutti, che entravano per primi nella case infette, facendo la prima purgazione, esponendosi fortemente al contagio”; i monatti netti ripetevano la disinfezione in condizioni igienico-sanitarie meno rischiose per distruggere ed eliminare potenziali microrganismi patogeni.