Abito del medico della peste: l’abbigliamento indossato dai medici nei secoli scorsi in alcune zone per proteggersi dalle epidemie.
Nel XVII secolo l'abito era costituito da una tunica nera idrorepellente in tela cerata e lunga fino alle caviglie, cappello nero a tesa larga, gorgiera, guanti, stecca lignea per esaminare i pazienti senza toccarli; ad ideare la maschera a forma di becco di pappagallo tucano, fu il medico francese Charles de L’Orme. Due lacci permettevano di legare dietro la nuca la maschera-respiratore: aveva due aperture per gli occhi coperte da lenti di vetro; la respirazione avveniva attraverso il grande becco ricurvo, all’interno del quale venivano immesse essenze aromatiche: come rosmarino, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi garofano, aglio, a volte una piccola spugna imbevuta di aceto con funzione filtrante per non respirare l’aria malsana del Lazzaretto.
Le cause della malattia e le modalità per il contagio erano ignote. Secondo la dottrina miasmatico–umorale elaborata dagli antichi medici greci come Ippocrate e Galeno, le malattie si trasmettevano sia per lo squilibrio fra i vari umori del corpo (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) sia per i miasmi che inquinavano l’aria.
La maschera serviva al medico per evitare il fetore emanato dai corpi degli appestati. Non esisteva la cura efficiente per la peste, considerata lugubre mistero, perciò il clero ebbe facilità nel farla credere castigo di Dio per i peccati commessi.
I medici cominciarono ad usare maschere a forma di becco nel XIV secolo, durante le epidemie che fra il 1347 e il 1353 sterminarono circa un terzo della popolazione europea.
L'uso dell'abito del medico della peste cadde in disuso nel XVIII secolo.
Milano, Piazza San Babila durante la peste del 1630 (Melchiorre Gherardini)