Afrodite di "Cnido" (anche Afrodite Cnidia), copia in marmo conservata presso il Museo nazionale di Roma.
Per i Greci dell’età classica l’amplesso era simbolicamente collegato ad Afrodite, la dea dell'amore, della bellezza, della procreazione e della fertilità. Patrona del piacere sessuale, le parti del corpo di questa divinità erano considerati “ tà aphrodìsia” (= guardando le cose dell’amore), attinenti alla voluptas. Invece il desiderio sessuale suscitato dalla bellezza fisica era di competenza del dio Eros.
Se il sesso era delizia, il fallo era lo strumento di quel piacere, personificato da Fales (= Priapo), divinità con lungo pene in erezione.
Durante le primaverili “Falloforie”, dedicate a Priapo e Dioniso, si svolgevano riti propiziatori per la fertilità dei campi e delle donne. Veniva portato in processione il simulacro fallico in legno come simbolo di fecondità, accompagnato da canti tipici.
Dai poemi omerici si apprende che la società greca era basata sul patriarcato, mentre durante lo sviluppo delle città Stato (polis) vennero istituiti distinti gruppi sociali con criteri di esclusione: gli uomini nati liberi che avevano il diritto di cittadinanza, gli stranieri (meteci) e gli schiavi dall'altra... ma tra gli esclusi vi erano anche le donne.
Aristotele, nella sua Politica (III, 1) definisce la cittadinanza come la capacità di partecipare al potere politico; le donne, alla stessa maniera degli stranieri e degli schiavi, non avevano la possibilità di accedere al potere politico.
Comunque la condizione e lo status sociale della donna variava da polis a polis. In alcune città avevano la facoltà di possedere anche vasti appezzamenti terrieri, il che costituiva la più prestigiosa forma di proprietà privata dell'epoca.
Demostene ci fa sapere che ad Atene “Le cortigiane le abbiamo per il piacere, le concubine per le cure di tutti i giorni, le spose per avere figli legittimi e come guardiane fedeli dei beni della casa”. L'uomo economicamente benestante poteva avere la moglie (damar o gynè) per generare figli legittimi; la concubina (pallakè) che aveva doveri di moglie ma non gli stessi diritti; l'etera, l'attuale "escort", che accompagnava l'uomo nella vita sociale ed era a pagamento; la prostituta (pornè).
La società greca del V - IV sec. a. C. era una società schiavista e la schiava non poteva rifiutare di soddisfare le richieste sessuali del suo proprietario.
Nelle città c’erano anche residenti stranieri, fra cui donne che si prostituivano, e le “hetaìrai”, che cercavano di stabilire relazioni a lungo termine con uomini facoltosi ed attraenti.
La “hetaìra” (cortigiana) non va confusa con la “pallaké” (concubina).
Al politico ed oratore ateniese Demostene (384 a.C. – 322 a.C.) gli viene attribuito ma anche contestato come non suo il "discorso n. 59", noto come “Apollodoro contro Neera” (una etera vissuta nel IV secolo e citata in giudizio) dà dettagli sulla prostituzione nella poleis.
Di Neera, prostituta di Corinto, attraverso il dibattito sull'usurpazione dei diritti civili (questa è l'accusa rivolta alla donna) è possibile ricostruire l'escalation della cortigiana che vuole conquistarsi uno status all'interno della città ed avere la cittadinanza.
Nel paragrafo 51 Demostene usa il termine “synoikeìn” per definire la posizione di Neera, cui contesta di essere legittimamente sposata, pur vivendo con Stefano. “La condizione del matrimonio (synoikeìn), afferma Demostene, consiste nel fatto che si procreano figli”.
Se un giovane s’innamorava di una etera o una schiava, per avere il possesso dell’amata di solito la comprava o la riscattava.
Nell’Atene del V sec. A.C. non c’era una definita unione matrimoniale ma vari tipi di convivenza, con diverse conseguenze giuridiche per la donna ed i figli, distinti tra legittimi ed illegittimi.
L’elemento essenziale del matrimonio era l’engye, l’atto sociale che impegnava la coppia e le loro famiglie con accordi reciproci davanti a testimoni nel ruolo di garanti. L’engye era necessario ma non sufficiente. Doveva seguire la coabitazione della donna nella casa dello sposo.