LA SCELTA
La camera era quasi completamente al buio; solo sotto la porta, montata troppo alta rispetto al pavimento, filtrava una striscia di luce. Marta si svegliò, come ogni mattina alla stessa ora, poco prima che suonasse la sveglia.
Il momento più brutto della giornata. Uscire dall’oblio della notte e ricominciare a vivere. Si alzò di scatto, infilò le ciabatte e si diresse in cucina.
Gesti meccanici di ogni giorno: aprire le imposte e prendere la prima dose di farmaci: dodici gocce, per placare un po’ l’ansia che già le stava rattrappendo lo stomaco. La prossima tra due ore.
La luce verde della macchina del caffè smise di lampeggiare, ne riempì una tazza e si sedette sulla poltroncina di vimini , malamente ridipinta di azzurro, che da anni era stata sistemata tra il tavolo e la credenza.
La sua cuccia del cane e il cane era lei.
Caffè, sigaretta, sguardo nel vuoto.
Il solito rito prima di riprendere il controllo o quanto meno far vedere agli altri di essere in grado di farlo.
La borsa nella mano sinistra, la sigaretta nell’altra, uscì come al solito alla stessa ora e si fermò sotto la pensilina ad aspettare il tram, lo stesso che ormai da cinque anni prendeva regolarmente per andare al lavoro.
La nebbia di novembre aveva già nascosto i colori, ovattato i rumori. Se solo avesse potuto si sarebbe mescolata anche lei a quella massa grigiastra. Lì, forse, quei pensieri che si insinuavano ormai come vermi nella sua testa, non l’avrebbero trovata. Non pensare: in fondo era solo questo che voleva.
Abbozzando un sorriso all’autista, salì e scese alla terza fermata, poco distante dal portone del suo ufficio.
Lì, a parte qualche momento di pausa di troppo, nessuno sembrava mai essersi accorto di nulla. In fondo, in quei momenti non era lei, ma solo quella minuscola parte di sé che ancora riusciva a salvare.
Parlava e non aveva paura.
Rispondeva e non aveva paura.
Sorrideva e godeva di questi brevi momenti di tregua.
Lo sguardo spesso rivolto all’orologio per la prossima dose di “gocce”.
Quel giorno, invece, uno strano ma, fedele malessere, le arrivò quasi inaspettato. Aveva ormai imparato a riconoscerne i primi segnali e sapeva quali sarebbero venuti subito dopo.
Uscì in anticipo e si incamminò adagio verso casa: non voleva che gli altri vedessero.
Scelse di arrivarci passando per vicolo S. Agata, una viuzza stretta, fiancheggiata da case popolari, con i panni stesi sul filo, sotto il davanzale delle finestre. Le voci che arrivavano da dentro i portoni accostati, mescolate a qualche canzone di una radio accesa, l’odore leggermente stagnante di dove non arriva mai il sole, le erano quasi familiari.
Accese una sigaretta, si strinse addosso il cappotto e continuò a camminare a testa bassa fino a casa: tre stanze, quanto bastava, ma sistemate con gusto. Il bianco e l’azzurro erano i colori dominanti, colori di chi si apre alla vita e porta dentro di sé la forza del mare.
Il mare non ha paura, segue il vento, si lascia spostare e sbattere contro gli scogli, poi, come un animale docile riprende il suo ritmo, come se nulla fosse successo.
Marta no, lei aveva paura.
Paura di tutto e di niente, dell’ oggi come del domani, paura della morte, ma anche della vita, degli altri e di sé. Paura di quello che era diventata: una donna non più donna, ma solo una marionetta ripiegata su se stessa.
Entrò lasciando cadere la borsa sulla sedia di vimini e si guardò attorno: niente era sistemato a caso, tutto cercava un’armonia che lei aveva cercato di dare, quel senso di essere al proprio posto, una consapevolezza che da tempo ormai non aveva più. Quale era il suo posto se non quello di sentirsi intrappolata nell’angoscia che era diventata ormai la sua fedele compagna. Sentì un profondo senso di nausea salirle dallo stomaco fino alla gola. Tutto le sembrò così assurdo, senza senso.
Il cuore pompava forte nel petto, quasi a voler uscire da quell’involucro che non gli permetteva di vivere. Se solo avesse potuto lo avrebbe liberato, ma l’ansia la paralizzava.
Si lasciò cadere su una sedia accanto al tavolo. Sulla tovaglia, ben allineate, le confezioni delle sue gocce di salvezza, le uniche ormai in grado di alleggerire la tempesta. Senza contarle ne versò alcune in un cucchiaio. Il sapore dolciastro le riempì la bocca. Lentamente il cuore diminuì i suoi battiti: ancora una volta, alla libertà, aveva preferito l’involucro che lo avvolgeva.
Tirò fuori dal cassetto un foglio e una penna.
“A mia madre “ , scrisse in alto a destra, poi lo voltò.
“Tu mi hai insegnato a pregare ma ,non sono mai riuscita a recitare una preghiera con la mente, solo parole ripetute, litanie che non hanno mai avuto senso.
Eppure, Dio io l’ ho cercato, dentro e fuori di me, come si cerca l’aria per respirare, la terra per non cadere.
Hai cercato di far rivivere nella mia, la tua vita, esempio di rigidità e di buon senso e invece io sono uscita dal cerchio in cui mi avresti voluto contenere e ho creato il mio spazio.
Li ho trovato la forza del mare e mi sono lasciata trasportare dalle onde, cullare con la stessa tenerezza con cui si cullano i bambini, sentire sulla mia pelle il calore di carezze che da te non ho mai avuto, non perché non mi volessi bene ma, il pudore dei tuoi sentimenti ti impediva di farlo.
Niente di sbagliato in tutto ciò, ritenevi solo “sbagliata” la persona che mi aveva portato con sé nel mare.
Troppe volte ho combattuto per avere, nonostante tutto, la tua approvazione .
E invece tante volte ho subito i tuoi silenzi di disapprovazione e ancora tante volte mi hai fatto capire che ti vergognavi di me, delle mie scelte, lontane dai canoni di rettitudine che avevi in mente.
In quello spazio io mi sono persa: troppo debole per staccarmi da te, troppo debole per vivere la mia vita in mezzo al mare.
E chi mi stava accanto mi ha lasciato la mano, in cerca di un’altra più forte e io sono stata sbattuta contro gli scogli.
In quel momento ho riavuto il tuo sostegno, ma la consapevolezza del fallimento e della sconfitta, lo sguardo di pena che leggevo nei tuoi occhi, pesavano troppo.
Ho avuto paura di non farcela.
Il giorno mi spaventava perché mi chiedeva di vivere e l’ansia, a poco a poco, si è presa gran parte di me, poi, come una bestia affamata, è arrivata ad occupare tutto lo spazio che aveva.
E’ diventata la bestia nera della depressione.
Non sono stata in grado di combatterla se non ricorrendo ai farmaci: la preghiera che mi sollecitavi non bastava.
Anche in questo ti ho delusa!”
Posò per un momento la penna, allungò la mano e si versò nel cucchiaio altre gocce. Sempre senza contarle, sempre lo stesso sapore dolciastro che le riempì la bocca.
“Mi dispiace! , continuò
Dio solo sa quanto avrei voluto essere forte, rialzarmi dopo esser stata spinta con la faccia per terra.
Ora so che era come chiedere ad un cieco di guardare, ad uno storpio di camminare.
Sento ancora dentro di me la forza del mare ma, le onde che io stessa ho creato, mi spingono sempre più in basso fino a toccare il fondo.
Ora ho il viso completamente sprofondato nella sabbia e il resto del mio corpo lo sta seguendo.
Nessuno mi chiederà più di guardare o di camminare.
Finalmente posso rispondere:- Non ce la faccio!-
Ti voglio bene”.
Alzò la testa dal foglio, guardò distrattamente la bottiglietta di gocce .Non occorreva nemmeno contarle: ne erano rimaste così poche che decise di finirle. Di nuovo lo stesso sapore dolciastro.
Sentì una sensazione di calma sconosciuta salirle lentamenta lungo il corpo, la testa finalmente vuota e il cuore che rallentava i battiti.
Posò la penna sopra il foglio, si avvicinò a fatica alla sua poltroncina di vimini e si sedette.
Qualcuno la trovò così il giorno dopo, la testa leggermente reclinata sul collo, le labbra contratte in una debole smorfia di dolore.
Ma, forse, non stava più soffrendo: alla paura della vita aveva solo scelto il nulla della morte.
ALBERTI MARISA