Speranza
Il sostantivo “speranza” deriva dal latino “spes” ed allude alla fiduciosa attesa di un evento.
Nella mitologia romana la Spes fu venerata come una divinità, rappresentata in piedi con un bocciòlo di fiore nella mano destra e la veste sollevata sul fianco sinistro. Veniva celebrata con riti in suo onore l’1 agosto.
A Roma nel luogo dov’era il Foro Olitorio (Forum Holiturium), ci sono i resti del tempio dedicato a Spes. Venne fatto edificare dal console Aulo Attilio Calatino durante la prima guerra punica, che si svolse tra il 264 ed il 241 a.C..
Il Foro Olitorio occupava un'area alle pendici del Campidoglio, tra il Teatro di Marcello ed il Foro Boario. Nell’antichità vi si svolgeva il mercato della frutta e verdura. Una parte di quella piazza era adibita ad area sacra con tre tempietti dedicati a Giano, Speranza e Giunone Sospita.
Nell’urbe un altro tempio dedicato alla Speranza era adiacente al “vicus longus” sul colle Esquilino.
Nella mitologia greca la Speranza era denominata “Elpis”.
Il poeta greco Esiodo, vissuto tra la fine dell’VIII sec. a. C. e l’inizio del VII sec. a.C., nel suo poema didascalico “Le opere e i giorni” narra che la speranza era tra i doni custoditi nel vaso regalato a “Pandora” ( nome che significa “tutti i doni”), la quale aveva avuto l'ordine di non aprirlo. Ma Pandora fu vinta dalla curiosità, aprì il vaso e tutti i mali che vi erano contenuti volarono nel mondo. Per volontà di Zeus soltanto Elpìs rimase dentro il vaso, perciò la frase latina “Spes ultima dea” (= la Speranza ultima dea) che ancòra usiamo, ma nella versione che dice: “la speranza è l'ultima a morire”.
Si può vivere senza speranza ? E' un dono prezioso, permette di andare avanti anche quando la situazione che si vive non offre molte opportunità.
La virtù della speranza sostiene moralmente dallo scoraggiamento, dà la forza morale per perseverare nelle difficoltà, per far fronte alle difficoltà quotidiane, per dire si alla vita, nonostante le sofferenze e le avversità. Abbiamo bisogno di sperare che sia possibile il raggiungimento di mete, di poter conseguire progetti, di realizzarci nell’amore.
In ambito psicologico alla speranza è assegnato un compito fondamentale, supportare la motivazione all’azione. Nella psicoterapia permette al paziente di avere fiducia nel futuro, di poter superare la propria sofferenza.
L’ex pontefice e “papa emerito” Benedetto XVI nell’enciclica “Spe salvi” (= Salvati nella speranza), pubblicata il 30 novembre 2007, spiega che la “speranza cristiana” non è individualista, ma comunitaria, perché discende dall’essere in comunione con Gesù. Essa agisce nel presente, come certezza dell'avvenire e fiducia che la propria vita non finisce con la morte.
Nel III Canto dell’Inferno si narra che Dante e Virgilio giungono di fronte alla porta dell'Inferno, su cui c’è una scritta che mette in guardia chi sta per entrare: ammonisce che tale porta durerà in eterno e che una volta varcata non c'è speranza di tornare indietro.
“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate". / Queste parole di colore oscuro / vid’io scritte al sommo d’una porta;”. Virgilio dice a Dante di non aver paura e di prepararsi all'ingresso nell'Inferno, tra le anime dannate.
Invece il XXV Canto del Paradiso si svolge nel cielo delle stelle fisse, dove ci sono gli spiriti trionfanti. L’apostolo Giacomo, esortato da Beatrice esamina Dante sulla speranza, virtù che il santo ben conosce in quanto ne è la figura allegorica.
In ambito letterario penso a due poesie di Giacomo Leopardi: “La sera del dì di festa” e “A Silvia”. In entrambi i componimenti il poeta cita la speranza.
"La sera del dì di festa"
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. […]
"A Silvia"
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.