Autore Topic: Piramo e Tisbe (Parte 1)  (Letto 1135 volte)

Steven Joseph

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Piramo e Tisbe (Parte 1)
« il: Luglio 29, 2014, 11:27:59 »
Piramo e Tisbe
Rieccomi lì. Stavo osservando il mondo dalla finestra del mio appartamento come sempre. Da lassù potevo ammirare l’enorme strada, quasi un fiume, dove macchine e persone incrociavano le loro vite per qualche secondo e per poi non vedersi più. Passavano a bordo delle loro macchine, osservavano la finestra di una casa e vi si infilavano per qualche secondo, giusto il tempo perché il semaforo ritorni verde. Osservavano la strigliata di una madre ai figli, un regalo inaspettato per il compleanno di papà oppure qualsiasi altro particolare della vita di sconosciuti che dopo pochi istanti avrebbe dimenticato. Altri, invece erano a piedi. Correvano di qua e di là, senza fermarsi mai. Ognuno preso nei suoi impegni e  nei suoi vari tentativi di vivere meglio, anche solo un tantino. Chi comprava regali ai piccoli solo per vederli contenti e non sentirli più piangere, chi andava a comprare le sigarette per sentirsi meglio e per non sentire la moglie piangere. E io ero lassù. Non sentivo che suoni confusi e non vedevo che puntini insignificanti. Visto da una certa altezza niente aveva più importanza di una formica. Nemmeno i loro problemi e le loro vite potevano essere percepite da qualcuno che stava a debita distanza dal mondo. In realtà, però, la mia attenzione si era posata su quel confuso groviglio di vite solo per un secondo perché il mio sguardo era altrove. Osservavo il cielo che era diventato più timido del solito, guardavo le sue guance arrossate. Guardavo il tramonto.
Quei piccoli granelli di sabbia non riuscivano a vederlo. Erano troppo ingarbugliati nelle loro cose per potersi dedicare per qualche minuto ad uno spettacolo che la Natura ci offre ogni giorno gratuitamente. Niente biglietto, niente abbonamenti, niente di niente. Il dolce vento della sera carico di smog cittadino mi accarezzò il viso, ma io non lo avvertii. Nelle orecchie una vecchia canzone di Celine Dion accompagnava la visione del sole che abbandonava Manhattan solo per poche ore. Si sarebbe riposato e avrebbe ripreso servizio puntualissimo. Quello era il suo lavoro: illuminarci la giornata e renderci la vita meno amara. Dopo essere volato più in alto del sole ed aver osservato il mondo sotto di me sulle note della canzone che amavo più di tutte, ritornai nel mio appartamento.
Spensi l’I-Pod, ma notai con mia grande sorpresa che la mia canzone era ricominciata. Non avevo fatto niente eppure il piano aveva ricominciato a scandirne le prime note. Solo dopo qualche secondo realizzai che non era il mio i-pod a riprodurre quella canzone. Il suono veniva dall’esterno. Precisamente dall’appartamento affianco al mio. Pensai che fosse merito mio: forse avevo tenuto il volume così alto che chi c’era dall’altra parte aveva sentito e aveva iniziato a suonare. Però avevo le cuffie! Scrollai la testa e capii che non mi importava solo quando iniziò a cantare. Era una donna. La sua voce era vellutata e giovane. Non conoscevo la mia nuova vicina. Sapevo solo che si era trasferita appena due o tre giorni prima. Suonava il pianoforte, o forse una tastiera (non sono molto pratico di musica, io), con una maestria che rendeva la canzone quasi uguale all’originale. Nell’aria continuava a diffondersi quella voce d’angelo senza che io potessi sapere chi fosse a emettere quel suono. Mi avvicinai per ascoltare meglio e mi sedetti proprio in corrispondenza del muro che ci separava. Chiusi gli occhi e capii che stavo volando su quelle note. Erano come una grande aquila che mi ospitava sul suo dorso e con le sue grandi ali mi permetteva di volare oltre le distese di verde più grandi del mondo.     
La ragazza finì la canzone e smise di cantare. Con tutto me stesso desideravo che ricominciasse, che cantasse qualcos’altro, ma non lo fece. Era stata la voce più magica che avessi mai udito. Sapevo che un giorno lei avrebbe ricantato e io l’avrei aspettata, anche fosse stato tra cent’anni, anche se non l’avrebbe più fatto. Attesi a lungo, ma la ragazza non cantò.
Finita la cena mi misi a letto. Mentre fissavo il soffitto giallastro della stanza, non riuscivo a dimenticare quella voce così piena di amore e allo stesso tempo di delusione. Forse perché era una ninna nanna perfetta che dava pace al cuore o forse perché io stesso non volevo allontanarla per poi dimenticarla. Mentre quella ragazza sconosciuta mi cullava ancora tra le sue braccia con l’eco della sua voce, mi sembrava che la vita non potesse più farmi male. Avevo trovato la bellezza pura, la perfezione nella creazione di Dio e questo era il mio biglietto per un’eterna felicità in questa vita.
Non capii perché proprio io avessi trovato lei. Non riuscivo proprio a comprendere che cosa potessi mai avere io più degli altri. Perché Dio aveva scelto me? Perché aveva fatto discendere l’angelo più bello e l’aveva fatto venire ad abitare proprio nell’appartamento accanto al mio? Non seppi dare una risposta a quelle domande né allora e né mai ci riuscii dopo. Per questo motivo, con il senno di poi, capii che a volte, non è necessario arrovellarsi per cercare di capire il come e il perché degli eventi che ci capitano, se li meritiamo o no, oppure se questo scombussolerà i nostri piani. Perso tra queste domande e le infinite possibili risposte che potevo dare, sorrisi perché compresi, nonostante non riuscissi a trovare un senso a ciò che mi stava accadendo, che ero felice e basta. Solo questo. D’improvviso mi addormentai e la notte portò via con sé ogni pensiero e ogni domanda.
Il giorno arrivò e la sua luce mi svegliò. Feci colazione e prima di uscire di casa udii un colpo di tosse provenire dall’appartamento accanto al mio. Volsi lo sguardo al muro che ci divideva e in quel momento mi ritornò in mente tutto. La sua voce, i miei brividi e le mille domande. Fui tentato di andare a presentarmi e di conoscere quella donna, ma non volevo che pensasse male di me. Chiusi la porta e scesi le scale. Ero già arrivato al piano terra quando un impulso incontrollabile si fece spazio in me, con l’impetuosità del leone più feroce. Mi voltai e tornai indietro, su per le scale correndo. Non sapevo se fosse la scelta migliore ma non pensai più. Avevo passato tutta la vita a pensare e basta. Quella volta dalla buona riuscita di quell’azione sarebbe dipeso tutto. Arrivai al mio pianerottolo senza più fiato. Mi portai davanti alla porta accanto alla mia ed esitai per alcuni secondi. Pensai e ripensai alle mille possibili reazioni di quella ragazza. Pensai e ripensai. Infine, senza ragionare più, bussai. Aspettai pochi secondi e ribussai. Niente. Corsi immediatamente giù dalle scale, capendo che, mentre risalivo, doveva aver usato l’ascensore. Non potevo perdermi d’animo così corsi come non avevo mai fatto, rischiando ad un certo punto persino di inciampare. Arrivai al piano terra e notai che una donna stava uscendo dal portone. Corsi per raggiungerla, ma quando varcai la soglia del portone lei era sparita. La cercai con lo sguardo e la scorsi mentre girava in una traversa. Trafelato come un maratoneta le andai incontro alla mia massima velocità. Svoltai dove anche lei aveva svoltato ma non la vidi più. Era scomparsa. Mi piegai in avanti e mi appoggiai alle ginocchia per recuperare fiato. Ero stato così contento di intravedere le spalle di una donna sconosciuta che non prestai neanche attenzione al suo aspetto. Per assurdo, poteva anche non essere lei ma, preso dalla foga, non ebbi neppure un istante per riflettervi. Notai solo dei lunghi capelli che le arrivavano fin sotto le spalle. La luce del sole, la fatica e i mille accidenti che si frapponevano tra noi mi impedirono persino di scorgerne la tonalità. Nonostante questo, però, sapevo di aver fatto la scelta giusta per una volta. La più istintiva, la più stramba, la meno ragionata che mai, ma la più efficace. Mi ero fatto una bella corsetta su e giù per il palazzo cercando una ragazza di cui non conoscevo che la voce. Strano, ma vero. La scelta più sensata di tutta la mia vita.
Mi recai al lavoro con la camicia zuppa di sudore e sperai che nessuno se ne accorgesse. Dove lavoravo? In un’agenzia di viaggi. Era strano come io mi dessi da fare per organizzare i viaggi e i divertimenti delle altre persone, senza poter essere anch’io come loro. Il mio magro stipendio mi permetteva a fatica di pagare l’affitto, le bollette e da mangiare. Ogni tanto i mia madre mi spediva dei soldi per posta e io li accettavo ben volentieri. Niente di più. E poi c’era l’amore. Chissà poi che cosa avessi fatto ad ogni ragazza della Terra. Nessuna sembrava interessarsi a me e questo mi rattristava moltissimo Insomma quella era la mia vita: fare felici gli altri mentre io ero infelice della monotonia e delle difficoltà della mia vita.
- Ciao, Craig- feci io rivolgendomi al mio collega. Lui, un bell’uomo sulla quarantina con moglie e due figli, mi alzò la mano distrattamente. Non eravamo mai andati molto d’accordo. Sarà perché non condivido il suo modo di vedere il mondo oppure perché sono invidioso della sua vita perfetta. Una moglie che gli porta sempre il pranzo al lavoro e che la sera lo porta a cena fuori, quando a suo dire “Ha scaricato i marmocchi alla suocera”. Non che lo odiassi per questo, ma il disprezzo che aveva per la sua vita mi disgustava.
Lasciando stare Craig, posso solo dire che la giornata lavorativa fu una come le altre. Niente clienti troppo esigenti o maleducati. Tutto normale. Come sempre. Arrivarono le sei del pomeriggio e decisi che prima di tornare a casa sarei passato dal supermercato per provvedere a riempire il frigo. Appena entrai presi subito quello che mi serviva e mi diressi alla cassa. D’improvviso mi ricordai di aver dimenticato il tonno in scatola, così mi voltai per andare a prenderlo quando il mio cuore si aprì. Per magia udì un colpo di tosse. Era lo stesso che avevo sentito quella mattina. L’avrei saputo riconoscere tra mille. Era lei. Era lì. Poteva essere chiunque. In coda alla cassa oppure una cassiera. Cercai di ricordare quel poco che avevo visto della ragazza. I capelli lunghi. Non era molto utile come indizio anche perché di ragazze giovani e con i capelli di quella lunghezza ne individuai circa dieci. Avrei potuto chiedere a ognuna dove abitasse ma non mi sembrò il caso. Pensai che se l’avessi sentita parlare l’avrei riconosciuta, così attesi. Passarono i minuti e ancora non ero riuscito a scoprirla. Rassegnato mi avvicinai alla cassa e vidi una ragazzina poco curata con gli occhiali che probabilmente lavorava lì solo perché non aveva trovato di meglio. Era nuova. Vidi che era costretta in quella sua piccola postazione contro la sua voglia. Capii che la vita l’aveva costretta lì. Capii che magari quella ragazzina aspirava a diventare qualcosa di più, magari una cantante come la mia vicina oppure le piaceva dipingere. Qualunque fosse, il suo sogno non era di lavorare lì. Ma chiudeva gli occhi e ingoiava un’altra giornata di lavoro, sperando che il retrogusto di quella sua condizione sarebbe stato migliore. Io le sorrisi. Non seppi perché: compassione, forse, oppure simpatia. Non la feci neppure parlare (non che ne avesse molta voglia), dicendo che sapevo già quanto le dovevo. Quella di quel giorno era la mia solita spesa e, siccome i prezzi erano sempre quelli, mi portavo da casa i soldi giusti fino all’ultimo centesimo. Quando me ne andai le sorrisi e la salutai. Notai che il suo viso era arrossato e aveva preso a sorridere anch’esso. Ecco perché le sorrisi: perché sapevo che per quella piccola e fragile ragazzina un sorriso avrebbe significato che qualcuno le era vicino e la vedeva come una sorella. Grazie a quel sorriso aveva capito di non essere sola a questo mondo. Aveva capito che non tutti le avrebbero voltato la faccia, non tutti. Molti, forse, ma non tutti. Uscii soddisfatto di aver visto quel viso tanto triste, trasformarsi completamente per tornare a sorridere. 

nihil

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Re:Piramo e Tisbe (Parte 1)
« Risposta #1 il: Settembre 21, 2014, 08:52:03 »
molto bello, una solitudine che osserva il mondo e ancora spera. Ma perchè non in Italia? Il racconto parla di cose che tutti abbiamo provato, per questo è prezioso.