Fu un principe indiano di nome Siddharta vissuto intorno al VI sec. a.c che non avendo mai conosciuto alcun aspetto veramente negativo della vita, in quanto non era mai uscito dai confini del proprio palazzo, rimase un giorno letteralmente sconvolto al vedere, in un villaggio, un vecchio decrepito, un malato grave e un corteo funebre. Improvvisamente capì che esistevano anche le malattie, la vecchiaia e la morte come destino universale degli esseri umani.
Visse allora per sette anni nella foresta sottoponendosi a digiuni, privazioni e sofferenze, ma non ne rimase soddisfatto. Giunto alla soglia della morte per esaurimento, una notte, mentre era seduto ai piedi di un albero, sprofondò nei suoi pensieri pervenendo alla sola verità, quella di rifiutare sia una vita di piaceri, perché troppo effimera, sia una vita di sofferenza volontaria, perché fonte di orgoglio.
Fu allora definito Buddha, cioè illuminato. Da qui buddhismo quale filosofia di vita e soprattutto pratica meditativa. Nel momento dell'Illuminazione il Buddha avrebbe intuito un preciso imperativo etico: "liberarsi dalle opinioni". L'atteggiamento quindi vuole essere di tipo anti-dogmatico. "La dottrina è simile a una zattera, disse il Buddha, serve per attraversare e non trasportarsela sulle spalle".
Sul piano del comportamento sociale, il Buddhismo rifiuta il sistema brahminico delle caste e riconosce l'uguaglianza formale di tutti gli uomini. Ogni uomo ha uguali possibilità di salvezza morale, poiché tutto dipende dalla sua volontà.
Il buddhista ama non tanto il singolo, quanto il genere umano. Non si difende dal male ricevuto, non si vendica, non condanna chi commette un omicidio. Nel complesso il buddhista ha un atteggiamento di indifferenza per il male, rifiutando soltanto di non compierlo.
D'altra parte chi ha sana la mente non compete col mondo né lo condanna: la meditazione gli farà conoscere che nessuna cosa è quaggiù durevole, salvo gli affanni del vivere.
Il buddhista sostanzialmente è convinto che chi compie il male, vedendo la non-reazione da parte di chi lo subisce, ad un certo punto si renderà conto che è inutile continuare a compierlo.
La donna era vista come una fonte di tentazione del tutto incompatibile con la vita ascetica; essa ovviamente non veniva condannata come persona, ma piuttosto come potere di seduzione che porta a quell'attaccamento per la vita che, attraverso le generazioni, perpetua la condizione di "essere nel mondo" e vincola, di conseguenza, l'individuo al suo dolore, alla sua cieca ignoranza, alla ruota delle rinascite. Questa forma di maschilismo è venuta attenuandosi col tempo. Va altresì detto che il Buddhismo non interviene negli aspetti della quotidianità e neppure nelle vicende fondamentali della vita, come il matrimonio e la nascita dei figli, i cui riti si basano sempre su usanze locali.
Le regole di condotta previste dal Buddhismo per la vita matrimoniale sono essenziali, basate sostanzialmente sul buon senso e quindi praticabili da chiunque.
In Italia esistono almeno 60 centri buddhisti, in gran parte nelle regioni settentrionali (solo due al sud).
Tutte le grandi scuole tradizionali sono presenti: in particolare quella Theravada (Sri Lanka e Sudest asiatico), quella Zen (Giappone) e quella tibetana.
Di questi centri, 28 fanno capo all'Unione Buddhista Italiana, nata nel 1985 (dei quali 16 sono di scuola tibetana), che è stata riconosciuta dallo Stato come "ente morale avente fini di culto".
In tutto i buddhisti italiani sono circa 60.000 (di cui 44.000 cinesi e cingalesi immigrati e rifugiati; 16.000 di varie nazionalità, inclusa quella italiana); la presenza femminile, di ceto medio-alto, con interessi nei campi dell'ecologia e della non-violenza, è preponderante: 70%.
I monaci buddhisti sono una decina di stranieri e una quarantina di italiani, prevalentemente seguaci della tradizione Zen. I monasteri sono tre.
Escludendo qualsiasi intento di proselitismo, i buddhisti italiani si dedicano prevalentemente al volontariato, ad attività socialmente utili, al dialogo interreligioso e interculturale.