Disgregazione
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Albert sognò di morire. Giaceva in una zona d'ombra, asfissiante e noiosa. Di lontano sentiva il fischio di un treno. Poi si palesò la prima carrozza, ed egli si vide già sotto le ruote, tranciato in due nell'oscurità.
Era convinto fosse giunta la morte, quando balzò fuori dal letto. Ma in pochi secondi tornò alla realtà: egli respirava a pieni polmoni. Solo ricordava l'oblio, il dolore vissuto nel sogno.
Eppure, indifferente al disagio, incatenato agli automatismi della banale giornata, si trasse di peso fuori dalle coperte. Pensò: "Devo lavorare."
Come sempre si guardò allo specchio, fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, addentò e bevve qualcosa. Appena pronto si trascinò all'aria aperta, masticando i resti della colazione. La sarabanda cittadina gli era indifferente. Nella testa aveva il banale ritornello di una canzone qualsiasi.
Il cielo mostrava rade nuvole che passeggiavano lente. Non vi buttò neppure uno sguardo. L'aria profumava di primavera, ma egli era privo di olfatto: il tempo e le stagioni passavano attraverso il suo corpo, senza rumore.
Nuovi colori sbocciavano nei viali alberati. D'ovunque edifici opachi. Era impossibile capire se fossero uffici o abitazioni private, tanto sottile era la differenza. Il traffico vibrava di vita autonoma. Albert camminava a schiena retta. Al rosso dei semafori si fermava e attendeva il suo turno.
Poiché non era mai giunto in ritardo, giunse a lavoro puntuale. Garantiva costanza. Timbrava passivo, sedeva alla scrivania, lavorava per inerzia. Teneva un ritmo sostenuto, come se un meccanismo ne movesse il corpo in assenza dell'anima. Conseguiva ottimi risultati. Una calma neutralità lo preservava dall'errore. Era asciutto, incisivo. I superiori lo guardavano, approvando e plaudendo. Egli non si accorgeva di quella stima. Era poco esigente. Mai aveva chiesto un permesso, mai si era degnato di influenzarsi, né conosceva la promozione.
Quel giorno lavorava a testa china. Isolato, demoliva ogni stimolo esterno. Fu quindi con suo imbarazzo che un fischio lo colpì nelle orecchie, come una sberla.
Balzò in piedi, irrigidendosi con un pugno sollevato nell'aria. Sbattè le palpebre, vedendo che stringeva un timbro.
Da dove...?
Vide, accanto alla sua, molte scrivanie che si allungavano in linea retta. Dozzine di impiegati vi sedevano, sovrastati da colonne di fogli. Timbravano i documenti, li passavano al vicino di banco, muovendosi in sincronia. Nell'aria vibravano colpi ininterrotti.
Albert osservava quella catena di uomini e si mordeva la lingua. Viveva da estraneo in quell'ambiente.
Il vicino di banco lo guardava interdetto. "Il ciclo lavorativo non dovrebbe mai essere interrotto", gli disse, prendendolo a calci negli stinchi. Ed ecco che la paralisi venne meno: Albert si accese, e timbrava, timbrava, timbrava...
Nella mente una nebbiolina lo soffocava e conduceva all'incoscienza.
Ma un altro fischio lo prese d'assalto, questo più forte del precedente. La visione di un treno gli passò nel cervello. Giunse la paralisi, una forte emicrania.
Cosa faceva lì? Perché timbrava quei fogli? Sì, certo, era il suo lavoro; ma perché? Lo stipendio fu la prima risposta, e d'un tratto si vide al bancomat, intento a prelevare grossi fogli di carta.
Perché? Da cosa gli veniva il desiderio di sapere, sin ora estraneo?
Voleva chiedere spiegazioni ai colleghi, ma questi erano assenti ed immersi nella realtà. Poteva rivolgersi ai superiori, ma non sapeva dove si trovassero né che aspetto avessero.
Il vicino intanto era tornato a colpirlo. Albert rabbrividiva all'idea di reagire; desiderava isolarsi.
Per la prima volta fuggiva comprendendo di fuggire, agiva in piena coscienza di sé.
Voleva tornare alla sua vera natura, quella del vuoto, dell'incoscienza fine a sé stessa.
Sin da piccolo lo avevano spronato a scegliere un destino. Gli adulti mostravano un itinerario ed egli poteva sceglierne le tappe. "Cosa vuoi essere Albert?" chiedevano, ed egli scrollava la testa.
Non desiderava essere nulla, neppure desiderava d'essere il nulla, sebbene fosse destinato a incarnarlo. Conosceva il desiderio attraverso le parole altrui. Nel suo animo albergava il silenzio indifferente di una necessità senza coscienza di essere. Era inconsapevole, immune ai perché. L'automatismo del cuore lo spingeva a camminare, a godere della luce del sole, del sentire comune. Esisteva trascinato da una corrente, fluttuante sul precipizio nel quale non poteva sprofondare, poiché da quello stesso precipizio era nato. Il desiderio di morire gli era estraneo quanto quello di vivere.
La giornata lavorativa si protraeva lunga e interminabile. Albert ne soffriva. Il fischio e la visione del treno lo strenuavano a brevi intervalli. Egli cercava l'isolamento; le fughe duravano qualche minuto, forse qualche ora, in fede sua non sapeva dirlo: era confuso dallo scorrere del tempo di cui mai aveva avuto cognizione.
I nervi gli tendevano sotto la pelle. Forti mal di testa lo costringevano al dolore. Era chiaro che i colleghi detestavano la sua inadempienza. Forse anche un tempo aveva ricevuto quelle occhiate di disappunto, ora però le sentiva e ne era disturbato.
Nel rapporto con il prossimo Albert era sempre stato evanescente. Tante mani aveva stretto nel tempo, e in nessuna aveva percepito affinità o calore. Ora più che mai sentiva uno strano bisogno d'approvazione.
D'improvviso non seppe più trattenersi e disse al vicino: "Questi fogli... questi fogli sono bianchi."
"Non è una giustificazione." disse quell'altro, e lo fece di malavoglia, sibilando le parole a denti stretti.
"Sì, ma perché li timbriamo?"
"Perché li timbriamo."
"Dove finiscono?".
"Perché li timbriamo" ripeté il collega, e lo colpì sulle caviglie.
Albert svolse le rimanenti ore lavorative oppresso da un'attenzione febbricitante. Squadrava gli effimeri dettagli dell'ufficio, convinto di trovarvi la risposta alle sue domande, il perché di quell'affannarsi.
Il locale era uno stanzone disadorno, bianco nelle quattro pareti, senza finestre né mobilio, a parte l'immensa fila delle scrivanie. Ai piedi di questa, dentro un'enorme teca di vetro, grazie a quattro ventilatori, turbinavo centinaia di fogli.
Albert notò che all'interno di quel vortice si nascondeva qualcuno. Due uomini in divisa stavano là, a gambe incrociate, con la schiena curva e l'aria da malinconici pensatori.
Che fossero loro i superiori?
Del resto, se non superiori, erano diversi dagli altri. Albert voleva porre loro qualche domanda. Purtroppo il suo turno era finito: un allarme sonoro ricordava agli addetti che era giunto il momento di recarsi a casa; bisognava dedicarsi al tempo libero.
Albert, che si era attardato a lasciare la sua scrivania, nella stanza ormai priva di esseri umani, si avvicinò alla gabbia di vetro. Ma subito un terzo uomo sbucato alle sue spalle gli intimò di timbrare e lasciare l'ufficio.
"Lei è un superiore?" gli chiese Albert mentre quello si lisciava i lunghi baffi sotto il naso adunco.
"Io sono." gli rispose l'uomo in tono autoritario. "Per tanto timbri, e vada a casa."
E Albert andò a casa.
L'aria era sempre viziata dalla primavera. Albert, inondato sino al cervello da quell'odore nuovo e inaspettato, scelse di passare attraverso i viali alberati.
Dalle strade adiacenti, personaggi ambigui lo indicavano. Alcuni bambini grassocci si attaccavano ai finestrini delle macchine e si battevano il sedere.
Il fischio gli rintronò nelle orecchie e lo costrinse a inginocchiarsi. La testa gli esplodeva tra le immagini del treno. Sangue nero gli scendeva dalle narici. Desiderava morire.
Con il fiato corto, una mano stretta al petto, tossiva nel tentativo di alzarsi. Le macchine si accostavano e lo molestavano tra grida e risate di scherno.
Un urlo liberatorio gli proruppe dal cuore e riuscì a mettersi in piedi. Il mondo barcollava tutt'intorno. Non si vedeva più niente se non una distesa bianca, senza confini, come una gigantesca salina. L'odore della primavera era stato sostituito da un miasma simile alla candeggina.
Di colpo ai suoi lati due treni sfrecciarono roboanti, lunghi e senza fine, tra migliaia di carrozze. Al loro passaggio quel piattume bianco si strappava e svelava squarci di un abisso nero e insondabile.
Albert si rattrapì al suolo, le mani strette ai timpani: era quello l'aspetto del mondo in cui viveva?
Poi la crisi passò. Giunse il silenzio. Una pace soffice e consolatrice. Ogni cosa sembrava andare per il meglio. Albert tirò un sospiro e svenne.
Al suo risveglio era nel letto di casa. Il sole del mattino inondava la stanza dando nuova vita ad ogni cosa. Se ne riparò con una mano, come sempre si alzò dal letto, come sempre si guardò allo specchio, come sempre fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, e... dapprima un ronzio, poi il fischio, inesorabile, piombarono nella sua testa a ricordo delle sofferenze del... del giorno prima?
Quando era successo? si chiese Albert - quanto tempo era rimasto privo di sensi? Com'era tornato a casa?
Le domande erano tante, ma il tempo stringeva, l'orologio indicava l'ora, e non poteva sbagliarsi: era un nuovo giorno, una nuova mattina, Albert doveva entrare in turno di lì a mezz'ora, quindi non poteva supporre, non poteva domandare, doveva solo agire, mangiare, vestirsi, lavarsi, vivere, camminare, fare, far, ar, f.
Ed infatti così fece. La colazione gli colava giù per il tubo digerente, sana e leggera come da consuetudine.
D'istinto si passò una mano sul labbro. Toccò qualcosa d'appuntito. Era un foglio accartocciato dentro la sua bocca. La nausea gli salì alla gola, traballò sulla sedia e dallo spavento cascò al suolo. Teneva le mani premute a terra e vomitava. Poi si alzò a fatica in preda alle vertigini, minacciando di cadere da un momento all'altro.
La paura di sapere perché, più della paura di volere quel perché, lo faceva bestemmiare invano. Quante altre volte aveva vissuto lo stesso fenomeno continuando a esistere senza problemi, incosciente di quel male incurabile! Maledetto treno!
Percepì un calcio agli stinchi, sobbalzò, come sbalzato da una dimensione all'altra. Era seduto alla scrivania. Il vicino di banco lo guardava sprezzante. "Sono stufo di te." osò dirgli, guardandosi rapido attorno e riprendendo il lavoro.
Nulla nell'ufficio era mutato. Ad Albert sembrava che i suoi colleghi masticassero carta e ne strappassero brandelli dalla bocca. Quelle labbra serrate, bianche e pallide, si sfibravano come filamenti cartacei.
"Sono di carta, sono tutti di carta," gli venne in mente al colmo della disperazione. "No, no, ero a casa, adesso di colpo sono in ufficio..." si diceva, e d'un tratto comprese la sua ingenuità: dietro la porta spalancata dell'ufficio c'era la sua cucina. Gridare gli sembrò quasi inutile.
"Fuggo, provo a fuggire di nuovo..." si disse, e cercò la pace fasulla della sua natura. Immergersi nella meditazione, chiudere gli occhi, continuare a timbrare. Non conta altro, non conta altro, si ripeteva, non voglio sapere e devo dimenticare. Appongo i timbri, faccio finta di nulla, placidamente percorro il sentiero donatomi dall'esistenza, non conta altro, non conta altro, timbro, e timbro ancora.
Piangeva a dirotto, sopraffatto da sentimenti sconosciuti. Nel profondo malediceva quel fischio che lo aveva sottratto alla cecità, senza donargli la forza di reagire. Non aveva volontà, interesse, quell'ambizione che indirizza verso nuove strade. Gravido di uno scetticismo universale, pensava che il vuoto fosse ovunque, indipendentemente da dove si gettasse lo sguardo.
Era tormentato tra il desiderio di sapere, mai conosciuto, e il desiderio d'incoscienza anch'esso mai conosciuto e generato dal primo.
Quel giorno, in ufficio, venne il medico aziendale per una visita di rito. Albert, che pensava al medico come ad un dio terreno, gli andò incontro a braccia aperte: ma quale fu il suo terrore quando l'anziano signore lo accolse nell'ambulatorio con un "Ciuff Ciuff" divertito.
"Signov Albevt, Signov Albevt," gli disse il medico, "pvoblema con tvenivo? Pvoblema?", e si sedette sul tavolo di marmo al centro dell'ambulatorio, dove un trenino elettrico si muoveva a spirale.
E così Albert tornò al lavoro: timbrava, timbrava, ignorava le lacrime, sentiva gli sguardi delusi dei colleghi.
"Perché!?" urlò, scoppiando in un crisi isterica. Batteva i pugni sulla scrivania: nessuno gli faceva caso o lo ammoniva, poiché il suo turno era finito.
"Non ti licenzieremo, mi dispiace." gli disse uno dei prigionieri della gabbia di vetro.
Albert, che adesso dubitava anche di quell'uomo a cui prima si sarebbe offerto in sacrificio, scappò sbattendosi dietro tutte le porte possibili, maledicendo ogni cosa, e in particolar modo il Creatore.
Sì, Dio, ecco!, era quello il nuovo nome che gli fischiave nelle orecchie: lui, ancor più terribile del treno, e forse suo gemello, lui il tiranno che lo aveva destinato all'incapacità di volere, imprigionandolo in quel mondo di carta!
Che poi, era davvero questo Dio il colpevole? Chi era Dio? Non ne sapeva nulla, lui, di Dio! Era una parola come un'altra nella sua bocca, il pretesto per appigliarsi a qualcosa: uno sfogo di poco conto. Ne aveva sentito parlare un giorno: unico creatore del cielo e della terra, qualcuno aveva detto; ma non era forse una menzogna in quella vita senza senso, o era forse Dio a essere senza senso? Quale logica perseguiva? Chi era? Era Dio il suo nome o non ne aveva nessuno? A chi rivolgersi? A chi ribellarsi? Chi bestemmiare?
Stanco e affranto, Albert correva incontro alla sua via d'uscita.
"Che abbia trovato la via giusta
nella mia via giusta," pensò, come in delirio.
Il fischio nelle orecchie era tornato a scuotergli le sinapsi. Vedeva doppio, triplo, sangue nero gli colava dalle narici. Correva, correva verso la salvezza: verso la stazione.
Quando vi giunse controllò gli arrivi: il primo treno del primo binario avrebbe fatto al caso suo, e dopo un attesa spasmodica, con quindici minuti di ritardo tipico dei treni ad alta velocità, Albert si lanciò tra le ruote della prima carrozza, urlando al cielo la sua ribellione.
Ma non si fece nulla. Neppure un graffio.
Provò la sensazione di venire meno, di cessare di essere, e come da un sogno si svegliò sul binario, circondato da spettatori d'ogni età che gli ridevano in faccia.
Ragazzi cenciosi e donne anziane in vestiti variopinti lo circondavano tra i flash delle macchinette fotografiche; qualcuno filmava.
Come...? Eppure aveva sentito il peso del macchinario!, il dolore strappargli via le ossa!, il sangue spruzzargli fuori dalle vene; possibile si fosse immaginato tutto?
"Dio, che tu sia maledetto Dio! Chi sei!? Ci sei!? Voglio sapere!" gridava, coi pugni all'aria, travolto dalle risate degli spettatori che si affollavano sul primo binario.
"Aspetto il prossimo!" gridò anche a loro, "il prossimo sarà quello giusto!"
Al treno successivo non cambiò nulla. Albert provava la morte, la intuiva, non cessava di esigerla, ma persino il suo corpo rimaneva integro, come immune al passaggio del treno. "Sono fatto di una carta dalla quale si può passare attraverso," si disse, oppresso dall'onnipotenza di quel mistero.
E dopo lunghi insuccessi cadde svenuto. Al mattino seguente si svegliò. Era di nuovo a casa. Si trasse fuori dalle coperte, come sempre guardò il sole benevolo, come sempre fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, e andò a lavoro con un piano ben preciso.
Esasperato da quel fattore sconosciuto che gli proibiva di mettere fine ai suoi dolori, per dispetto appiccò un incendio nell'ufficio.
"Vediamo, vediamo se adesso non mi licenziate!" gridava, ridendo tra le fiamme che inghiottivano il mondo e i colleghi. Il fuoco si sprigionava intorno, pire umane correvano ovunque, gettandosi e rotolandosi al suolo.
Aveva bloccato tutte le uscite, era deciso a immolarsi nella speranza di morire. Vomitò l'anima quando vide che i colleghi, sebbene avvolti nelle fiamme, non urlavano dalla disperazione, bensì ridevano inebriati d'una felicità insensata.
Alcuni, fermi sul posto, in piedi sulle scrivanie, lo plaudivano sganasciandosi dalle risa. Danzavano simili a fuochi fatui. Odore dolciastro di carne si spandeva nell'aria insieme al fischio inesorabile del treno.
"Perché!?" imprecò Albert, che voleva vederli contorcersi dal dolore, accomunati a lui dalla sofferenza.
Non si sorprese quando di colpo si ritrovò fuori dalla stanza. Era sulla strada di fronte al palazzo degli uffici impiegatizi. Osservava le fiamme divampare dalle finestre dei piani più alti, tra dense colonne di fumo. Alcune sagome si lanciavano nel vuoto e si abbattevano al suolo come stelle cadenti.
La morte li aveva presi, una morte felice, ed Albert provava nei loro confronti un'invidia più insidiosa delle altre, poiché sconosciuta.
Un uomo lo avvicinò, osservando quello spettacolo di rivolta e distruzione.
Era vestito in giacca e cravatta, grigio ed immobile nella sua eleganza sfarzosa. Un monocolo gli brillava all'occhio sinistro. Disse, atono, stringendo la mano ad Albert: "Lei quest'oggi ha ottenuto promozione. Signor Albert, lei appena effettuato svolta nella sua vita: WhitePlus Inc. le impone contratto tempo indeterminato come Operatore Incendiario, impossibilità licenziamento, ottima paga."
E rovistandosi nelle tasche ne trasse un lungo contratto che Albert, con suo tenue stupore, sembrava aver firmato qualche anno prima. Siccome si toccava la testa, e un nuovo treno sicuramente incombeva, il funzionario aziendale gli diede una pastiglia contro il dolore. "Duole, lei, vero?" chiese non curante, "Passerà lei."
Passò difatti. Quando Albert il giorno dopo si alzò di nuovo nello stesso letto di sempre, non si stupì per nulla: ogni mattina tornò ad alzarsi puntuale. Andava in un nuovo ufficio uguale a quello precedente, e vi dava fuoco con calma e incoscienza. Veniva pagato a percentuale: più decessi causava, maggiore era l'incasso.
Nel suo settore divenne un'artista: appiccava incendi alla moda, d'un certo spessore. I pompieri gli fornivano l'occorrente. La polizia si congratulava, poiché sapeva con quale passiva dedizione egli si cimentasse nel mestiere.
I dipendenti degli uffici lo attendevano gioiosi, scattanti all'idea di bruciare per mano dell'innovatore del dolo.
Albert li guardava prendere fuoco come fogli di carta, perdersi nella cenere, andare verso la morte, felici; ma era tornato all'inconscienza: non sapeva più di provare invidia, non sapeva più di provare dolore.
C'erano tantissimi uffici da bruciare, il lavoro non gli mancava, e sebbene non ne fosse consapevole, negli anni perse ogni speranza ma non perciò divenne un uomo disperato.