Niou osservava la rugiada sulle foglie di bambù. Per quanto piccole e leggere, quelle gocce avevano scelto una dimora tra le più effimere: un solo pensiero di brezza e la loro condanna sarebbe stata pronunciata, un soffio e la morte le avrebbe attese nel fango.
Niou si sentiva come quei cristalli tremanti. Aspettava solo che la divinità del monte concepisse quel pensiero di brezza. Perché Niou sapeva di aver mancato.
Il viaggio durava da tre giorni quando arrivarono a quel monte. Erano stati giorni estenuanti; il carro si era impantanato più volte, avevano rotto una ruota e un bue era morto di fatica. Tutti cattivi presagi. Ma Niou non poteva permettersi ritardi: il suo signore lo aveva chiamato a sé; ignota la ragione, quel desiderio doveva essere esaudito, e in fretta. Era partito nel cuore della notte, Niou. Pioveva. Non poteva andare a salutare la moglie, la casa era lontana e una visita a quell’ora avrebbe fatto nascere pettegolezzi, ma la fece avvisare dalle serve: il viaggio era lungo e pericoloso, bisognava che la donna si dedicasse ai riti di protezione. Fino al suo ritorno non si sarebbe pettinata, né avrebbe pulito la casa; non avrebbe mancato di preparare il pasto quotidiano per lui, né di mettere una bottiglia di saké sul suo guanciale dopo averla fatta purificare. Per nessun motivo le preghiere e i rituali dovevano essere trascurati, pena il suo non ritorno: la donna avrebbe rispettato tutto ciò, ubbidiente, metodica, nella paura di trascorrere il resto dei suoi giorni a cercare il riflesso di chi non è più in vita negli occhi di coloro che l’avevano conosciuto.
Altri doveri attendevano Niou lungo la strada. Aveva pregato nell’attraversare il ruscello dell’Hototogisu, aveva meditato prima di entrare nel boschetto del Glicine; aveva recitato il Sutra del Loto allo stagno di Suwa. Ma, arrivato al monte, sfinito dalla stanchezza e dalla fame, si era addormentato nel carro, senza comporre alcun waka per placare lo spirito che là dimorava.
Quando si destò era troppo tardi: inutile prendersela con i servi che non lo avevano svegliato, niente avrebbe cancellato la sua colpa. La disperazione gli permise appena di vedere quel bambù e la rugiada che lo accarezzava. Fu in quel momento che comprese cosa doveva fare.
Una volta arrivato al palazzo, raccolse tutto il suo coraggio per condensarlo in un’unica, ultima richiesta; il suo signore chiese del tempo per pensarci: Niou era un buon servitore, però doveva redimersi perché la divinità del monte era stata oltraggiata. Così il signore acconsentì e Niou fu dispensato dal servizio.
Non tornò a casa. Mandò dei servi dalla moglie: non si sarebbero rivisti mai più. Regalò le sue spade, abbandonò i suoi eleganti abiti, si spogliò dei ricordi del passato e salì in cima al monte: diventò un intonsha, un asceta, e gli anni che gli rimasero da vivere divennero le strofe di quel waka che non aveva scritto.