Poche parole. Molte volte, finito di rileggere ciò che ho scritto, anche a distanza i mesi, mi scopro un groppo in gola e le lacrime che mi rigano il volto. Che sintomo è? che l'altro da me che scrive ha colpito nel segno e mi ha fatto commuovere? che sono autoreferenziale e parlo solo a me? che sono fragile come non mai? che sono efficace nel mostrarmi e lì mi riconosco? che mi riapproprio di me? e gli altri? pianse per la sua Bovary? e l'altro per la sua Karenina? Se crei creature vive puoi innamorartene? puoi provare pietà per quel te che ti si palesa dalla carta, dove tu l'hai messo e solo lì scoperto? Forse è solo autocoscienza. Non si piange sul lettino dell'analista? e perchè? è pudore della nudità, ma anche consapevolezza che solo così, nudo, sei vero; senza quegli stracci che fan da velo alla certezza. Fragile che solo a persone speciali puoi mostrarti, a chi non abusa, raccoglie e restituisce intatto e accresciuto.
Si scrive per sè, ma ora che mi beo a leggere ciò che altri similmente scrivono, penso che non solo; vuoi che torni qualcosa di quelle carni nude, rese imperfette dalla natura e dal tempo, un accenno, un respiro, un soffio, che ti indichi, incontrovertibilmente, che non è un soliloquio, che non stai scivolando nella pazzia, che qualcun'altro possa gioirne. Che il successo altrui nulla ti toglie e se l'altro è riuscito a rendersi chiaro forse puoi nutrirtene ancora e trovare la forza per far meglio e in questo rispecchiarti.
Scrive Nihil, ed ha tragicamente ragione, “Io non faccio leggere nulla. I miei parenti non stanno nemmeno ad ascoltare, mio marito dice che sono temini, i miei figli ridono( giustamente) o dicono che è roba disfattista. Credo che il detto nemo profeta in patria sia sempre valido, anche perchè è difficile scindere la conoscenza personale dell'autore, dall'autore stesso. Nei nostri scritti credo compaia qualcosa di noi che a prima vista non è rilevabile, ciò forse destabilizza il lettore amico, che non sa cosa dire, in un senso o in un altro. Qui ci si commenta perchè abbiamo gli stessi interessi, di scrittura, di lettura e molte altre cose, inoltre sappiamo cosa c'è dietro a ogni scritto: un pensiero, uno sforzo di comunicazione, un regalo di condivisione. I parenti, penso, credano ad un atto di esibizionismo nei loro confronti, che vivono come se fossero messi su un gradino inferiore. Forse sono così solo i miei parenti ?! mia cognata arrivò a dire di far leggere i miei racconti a suo figlio, così mi poteva dare un parere! insomma, come se avessi fatto i compiti a scuola.
Trovai la cosa il massimo dell'arroganza. Faccio leggere solo a voi e che i miei scritti piacciano o no...siamo sempre amici come prima”.
Riscontro esattamente lo stesso. Mettiamo in imbarazzo chi ci conosce, tranne pochi. I pochi che si sono risolti o, almeno, si sono avviati a farlo, che non hanno invidie. Questo è il punto “lìberati dall’invidia e così sia”. È un sentimento spregevole, il meno umano, anzi negatore della natura umana, che ti allontana dall’altro che dovrebbe essere il tuo fine. Sono feroce con l’invidia, non che non ne sia, anche se raramente, vittima, ma la tengo a bada.
Forse mettiamo similmente in imbarazzo anche noi stessi ma non possiamo invidiarci senza scivolare in un vortice autoreferenziale e da lì la commozione: incapacità di gestirlo quel vortice e riconoscenza per avercene, nel contempo, liberato.
Dovrebbero provare tutti a liberarsi, a mettersi a nudo, dovremmo consigliarlo. Non siamo speciali, siamo solo quelli che ci hanno provato e ne hanno tratto giovamento. Gridiamo che stiamo bene, che siamo felici, ciascuno per sé e per noi come comunità di simili. Facciamo proseliti, liberiamone un altro e poi un altro ancora fino a non aver più tempo per leggerli tutti e sceglieremo a caso nel mucchio, sapendo che non a tutti potremo rispondere. Ma altri lo faranno in nostra vece e, esattamente, come avremmo fatto noi, forse meglio, e nessun rimpianto mai ci adombrerà.
Sono solo a commuovermi? sono l’unico efficacemente autoreferenziale? l’unico fragile? o qualcun altro mi fa compagnia? E chi sembra più forte, che “sta come torre ferma che non crolla giammai la cima”, lo è veramente? O siamo noi, resi flessibili combattendo a nostro modo la nostra intima fragilità, a resistere meglio alle intemperie della vita?