stakanovisticamente al vespro
La mia rovina sono stata le donne, posso dire che ero drogato di batticuore. Quel batticuore che ti fa sentire il migliore, l’invincibile.
Facevo il muratore da quando avevo otto anni, mio padre mi portava con sé al cantiere e lo aiutavo a fare la calcina; riuscivo a fare poco ovviamente, ma qualche spicciolo lo guadagnavo pure io, però li teneva lui. Avevo diciotto anni quando la nostra ditta aprì un cantiere in Liguria ed io scesi dalle montagne per intonacare una scuola. Gesùmmaria, non avevo mai visto tanta acqua tutta insieme! E tante donne mezze ignude. Persi la testa! I miei amici davano la caccia alle tedesche, ormai un mito della costa. Io no, non capivo un accidenti di cosa dicevano e mi sentivo stupido, perciò preferivo le italiane. Loro stavano una settimana o al massimo quindici giorni poi si dileguavano, così le promesse di amore eterno venivano semplicemente affidate alla fatalità. E poi via, ricominciavo la caccia alla preda. Fare il muratore? E quando mai, andavo a letto all’alba io, mica potevo lavorare. L’adrenalina mi teneva in vita, la conquista con i suoi incerti mi davano il respiro, a dispetto dei pochi panini che mangiavo per risparmiare; ciò che avanzava mi serviva per pagare il cinema alla donna della settimana o magari una coccola. Ma quanto potevo durare? Poco: fui licenziato a fine stagione.
A settembre era tutto finito, femmine e soldi; stavo seduto su un muretto a meditare l’improvvisa scomparsa delle donne, comprese le stagionate, quando mi si avvicinò un amico, fedele scudiero delle mie avventure. Rino ogni tanto faceva il falegname. Appunto, ogni tanto anche lui.
“ Senti, Dolfo, come ti va? Soldi ne hai?”.
Così piano piano, tastando il terreno mi spiegò che aveva un amico, che si arrangiava e cercava aiuto. Ero giovane, ma non sprovveduto, capii subito di che aiuto si trattava, ma allora tutto pareva una semplice avventura. Accettai e così mettemmo su una società di tre ragazzi.
Rino cercava il colpo, io lo facevo, l’altro sistemava la refurtiva.
Ci demmo all’arrembaggio delle tabaccherie, sì insomma iniziammo rubando le marche da bollo.
Rino cercava una tabaccheria dove dietro il banco stesse una donna, possibilmente anziana.
Io entravo quando non c’era nessuno, chiedevo un pacchetto di sigarette e tre marche da bollo, che all’inizio mi dovettero pure spiegare cosa erano, non avendone mai vista una.
Quando la donna prendeva il raccoglitore delle marche, io glielo strappavo di mano e via di corsa con il bottino, che rivendevamo a Gaetano, quello che per campare faceva lo zucchero filato.Gaetano ci pagava metà del loro valore, dopo averle contate con immensa pignoleria, ma a chi le rivendesse lui, non lo abbiamo mai saputo; certamente a qualche tabaccaio disonesto.
Rino e Melanzana mi aspettavano in auto, con la promessa di non fuggire mai senza di me.
Ci sentivamo i tre moschettieri, anche se solo confusamente sapevamo chi fossero.
L’auto era ovviamente rubata, e chi ce li aveva i soldi per comprarla?
A trovarne una ci pensava Melanzana. A proposito, vi ho detto perché lo chiamavamo così? Aveva un naso violaceo e prominente e fu ovvio che gli toccasse quel nomignolo.
Alla fine io fui chiamato Acciughino, perché magro e basso e Rino fu nominato Arborio, come il Riso Arborio, perché era d’incarnato bianchiccio come un risotto scotto. La fantasia non ci mancava, i soldi sì.
La nostra amicizia fu cementata dalla gastronomia.
Una volta Melanzana rubò un’auto senza benzina, ce la vedemmo brutta, si fermò durante la fuga al primo semaforo. Fummo davvero bravi, mantenemmo il sangue freddo; lasciammo l’auto, con la refurtiva nascosta in una cartella da scuola come il solito e c’infilammo in una gelateria davanti all’incrocio, rimanendo placidamente a guardare l’arrivo della polizia ed il can can che ne seguì, come se niente fosse. Chi fugge è regolarmente inseguito, chi si mangia un gelato alla fragola, è difficile che possa essere sospettato.
Ovvio che non sempre le cose potevano andare bene, questo lo sapevamo anche noi.
Arborio un giorno si ammalò, era dicembre, aveva la bronchite e non venne al lavoro.
Ci andammo io e Melanzana a fare il colpo a sera tardi, quando la gente per il freddo non circola. Tutto filò liscio e oltre le marche arraffammo pure i soldi della cassa, circa trecentomila lire.
Eravamo entusiasti, stavamo migliorando la nostra carriera. Dopo cena per festeggiare c’infilammo in un night club, prima volta in assoluto, ci sentivamo grandi signori.
Progettavamo di comprare un’auto: “ Domani ci facciamo la Topolino, o magari una Giardinetta, mica possiamo sempre andare avanti così! I nostri colleghi penseranno che siamo degli sfigati!”.
E via discorrendo. In realtà non avevamo la minima idea di quanto costasse un’auto, al massimo eravamo informati sulle biciclette.
Io ordinai una spuma e Mela un tamarindo. I camerieri ci guardarono allibiti; ma che ne sapevamo noi delle usanze di quei locali, io avevo sete e la spuma mi è sempre piaciuta. Arrivarono due ragazze, coscia lunga e non tedesche. C’intendemmo subito! Ordinarono una bottiglia di champagne, facendoci notare delicatamente che quello era la cosa adatta a due fustaccioni come noi.
Insomma bevi tu, bevo io, dopo due bottiglie eravamo ubriachi da far schifo, ci era venuta pure la piangina. Avevamo speso un sacco di soldi e presumo che gli altri ce li abbiamo fregati le ragazze, perché ci ritrovammo su una panchina di un viale mai visto a vomitare l’anima. Niente Topolino! Fortunatamente le marche le custodiva Arborio.
Ciò che ci fece davvero male fu che non avevamo dato nemmeno una palpatina, nemmeno un bacino, nemmeno una strusciatina; ci sentivamo particolarmente stupidi, fregati da due ragazzotte più ladre di noi.
Quando Arborio guarì, cambiammo lavoro; basta tabaccherie, azzardammo un salto di qualità e ci dedicammo agli appartamenti.
Arborio come il solito studiava la situazione, sceglieva stakanovisticamente ( complimenti se riuscite a leggere ‘sta parola senza inciampare!) le donne anziane, frequentando le parrocchie al vespro. Certo che Arborio era un vero idealista, nel senso che aveva le idee! Seguiva le vecchiette alla fine del rosario, identificava l’appartamento e le teneva d’occhio per un poco. Le vecchiette sono abitudinarie, se vanno ad un vespro, ci vanno a tutti, di conseguenza c’era almeno un’ora di tempo per i nostri affari. Prima suonavamo il campanello per scrupolo, e se non rispondeva nessuno, ci davamo da fare.
Facemmo tre colpi facilissimi.
Il quarto io lo avrei saltato perché era venerdì diciassette, ma per non sembrare un provincialotto antiquato, mi adeguai alla maggioranza.
Mela suonò il campanello. Risuonò per prudenza. Non venne nessuno a rispondere.
Arborio appoggiò il suo ferro allo stipite, e con una leggera pressione, delicata e silenziosa, aprì la porta. Chiudemmo e ci precipitammo in camera da letto, dove di solito ci stanno i soldi. La vecchia era sorda, porca miseria, ma non muta, iniziò ad urlare come una pazza che mancò poco ci rimanessimo secchi per la sorpresa e lo spavento. La befana era a letto con una colica e quella che era andata a messa, non era lei, ma la donna del terzo piano, che con la pezzola in capo era la sua fotocopia. Alle vecchie dovrebbero mettere la targa per distinguerle!
Lo avevo detto io che venerdì 17 porta sfiga, infatti sullo stesso pianerottolo ci stava un poliziotto alto quanto un autobus e largo uguale. Ci menò di brutto e alla fine ci beccarono!
“Arborio, porca troia, ma perché non ti metti gli occhiali, quando lavori?”
Fu così che ci portarono dentro per la prima volta. Non fu l’ultima.
Devo dire che furono mesi bellissimi, ci facemmo un sacco di amici, imparammo tante cose, eravamo tutti giovani ed entusiasti del mestiere.
Il commissario Cozzo era un buono, non rompeva le scatole, andavamo tutti d’accordo; un giorno fu trasferito, ma lo rivedemmo tempo dopo.
Vi racconterei anche in quale occasione, ma tra poco spegneranno le luci e non potrò più scrivere.
Qui si dorme su ordinazione!