La lingua del Paradiso
(Sul ciglio di una strada affollata due barboni-clown, eccessivamente vestiti, con appresso le povere cose, si trascinano tra la gente. Sullo sfondo negozi e cartelloni pubblicitari)
ALCESTE: Che lingua si parla lì nel Paradiso?
ERIKA: La lingua delle idee. Quella per la quale il bianco è bianco e il nero è nero e il grigio grigio, e mai e poi mai puoi sbagliarti.
A: Non puoi sbagliarti? (incredulo). Allora io non credo di venire ammesso. Io mi sbaglio sempre. Intanto balbetto e poi, ho lenti grandi come fondi di bottiglia; credo di essere sbagliato strutturalmente. Però ci vedo benissimo, vedo dentro. Il tuo animo, non ha segreti per me: so benissimo perché lo fai e non mi stupisco affatto. Anzi, quasi me l’aspetto.
E: Io invece no. Io mi stupisco sempre. Mi faccio un’opinione appena in tempo per smentirla. Tutto è così contingente, che una certezza, al più, dura qualche minuto. Mi dicono ingenua, ma io sono solo senza malizia. Non riesco a immaginarla, per ciò, neanche negli altri. So che gli altri hanno i loro fini e che li perseguono; credo facciano bene. Vado per la mia strada anch’io ed evito di intralciare alcuno. Mai ci riesco, da qui lo stupore. Lo spazio è poco e noi molti. La libertà è un lusso che c’è precluso.
A: In questo siamo simili. In questa nostra attenzione agli altri. Io che non posso non vedere dietro le mie lenti spesse e tu che eserciti attenzione spasmodica, frustrata ad ogni angolo. Sì hai ragione, ci manca lo spazio per la libertà. Siamo condannati su questa strada, da qui non possiamo uscire. Sembra che qui non ci manchi niente, ogni necessità può essere soddisfatta. Ma il prezzo è troppo salato, siamo malati di iperstimolazione. E se facessimo come tutti?
E: Se imparassimo la lingua del Paradiso, dici? Non credo che sia adatta a noi. A me piace la lingua nostra: così arzigogolata che puoi stare ore a sbrogliarla e, alla fine, non sai mai se hai ragione o torto.
A: Non c’è una ragione e un torto. Non l’hai ancora capito? Ciascuno va per la sua strada, niente più. Dobbiamo mettere più attenzione per non urtarci. Hanno diritto tanto quanto noi.
E: E noi? Noi perché non ci urtiamo mai?
A: Perché vuoi discutere di noi? Noi non ci urtiamo perché stiamo attenti. Abbiamo piena coscienza uno dell’altra, si chiama rispetto. Ma non possiamo pretenderlo il rispetto; se mai darlo.
E: E ti sembra giusto? Dare senza pretendere.
A: Non è giusto – là in Paradiso non sarebbe possibile, infatti – ma qui da noi questa è la realtà. D'altronde se non facessimo così, non saremmo noi.
A e E: (in coro) E se non fossimo noi non ci saremmo incontrati.(e ridono)
E: Vuoi dire che eravamo predestinati?
A: Non so rispondere, dovresti chiedere di là, in Paradiso. Quello che posso dirti è che il simile riconosce il simile e con quello litiga.
E: Con quello litiga? (stupefatta)
A: Sì, litigheresti mai con uno che non stimi? Per quello basta la massima: “perdonalo, perché non sa quel che fa”.
E: Impunito quindi, tutti impuniti.
A: Sì, è triste, ma è così. Noi non possiamo punire i nostri pari, non possiamo emettere sentenze, non dovremmo nemmeno giudicare (anche se so che è difficile, se non impossibile). Dobbiamo solo fare il meglio che possiamo.
E: Qualcuno ci premierà, allora?
A: Scordatelo, nessun premio. Segui solo la tua natura perché solo così sei tu. La tua individualità nessuno potrà togliertela; solo tu, a fine giornata, potrai dire: ho fatto bene, non ho niente di cui rimproverarmi, e sarai in pace con te.
E: E potrai sempre dirlo? me lo garantisci?
A: No, non te lo garantisco. Ma ti garantisco che ti accorgi di aver sbagliato: ti prende un dolore grande, qui in mezzo al petto; un sintomo inequivocabile che ti auguro di non provare mai, perché non c’è rimedio. È il giudizio negativo di te su di te. E non puoi fuggire al tuo giudice.
E: Come si guarisce, allora?
A: Il tempo guarisce, almeno dicono; o, forse, non si guarisce. È per questo che non possiamo imparare la lingua del Paradiso: perché abbiamo sbagliato e sbaglieremo ancora, sicuramente e, soprattutto, abbiamo il dono di accorgercene.
Infine, perché non è vero che il bianco è bianco, il nero è nero e il grigio è grigio. Che ci sono i buoni e i cattivi, il giusto o lo sbagliato. Che si può giudicare con equanimità: se giudichi sei sempre di parte, anche se lo fai per mestiere, in nome del popolo sovrano.
Quelli cui piace giudicare non sono adatti a fare i giudici e andrebbero interdetti. È un mestiere che si deve fare con dolore, perché le sentenze sono scritte in questa lingua imperfetta, da esseri imperfetti, su esseri imperfetti.
Qualcuno deve farlo, lo so, ma vorrei ricordarglielo a costoro, che hanno scelto la strada della sofferenza; e i migliori tra loro quel dolore nel petto l’hanno sposato per tutta la vita.
E: (come per sbloccare l’imbarazzo) Come si dice “arrivederci” nella lingua del Paradiso?
A: Non si dice, non avrebbe senso.
E: Allora arrivederci.
A: Già, arrivederci.
FINE