In autunno
In autunno quel viale si sommergeva di foglie di platani e si faceva di quel colore rossiccio, inequivocabile. Se cadevano due gocce, poi, le foglie umide ti si incollavano agli stivali, miste a fango che diventava malta. Anche sapendo che poi avrei dovuto faticare non poco per ridare a quei calzari dignità di rappresentanza, che i pantaloni di velluto puliti sarebbero, non appena rientrato, finiti in lavanderia, amavo percorrere quel viale della mia infanzia.
Amo, in realtà, sempre seguire le tracce di un mio passato, scoprire chi sono, perché se me lo chiedi non so più rispondere. Sono quello che sono stato è la mia unica risposta. Tutto si è scompaginato, rotto di fronte a me e se non voglio che la frattura mi penetri devo attaccarmi a qualcosa: a questi boschi, a questa casa, a quello che mi rimane.
Io lo so a cosa mi aggrappo, non mi serve uno psicanalista, ci posso arrivare da solo. Mi aggrappo alla storia della mia famiglia di cui sono l’unico erede. Unico erede non perché unico superstite, ma l’unico cui importi qualcosa. Gli altri hanno altre necessità, non hanno niente da impedire vada in frantumi. Sembrano avere tutto il necessario: mogli, figli, una tranquilla esistenza borghese. Le normali angustie di tutti.
Loro non sanno chi sono, e non vogliono saperlo, hanno accettato facilmente di snaturarsi e lasciarsi plasmare dagli estranei che hanno occupato la loro vita. Desiderosi di cancellare un passato ingombrante e liberarsi. È facile sentirli dire: “Quell’eredità familiare è un peso insostenibile. Io sono io e null’altro. Il mondo inizia dal giorno della mia nascita”.
Concordo che è un’eredità pesante, con cui fare i conti. Poi la dicotomica scelta: farceli o non farceli? Io sono l’unico che ha deciso di farceli. Ma io non ho eredi. Sarà un caso? O i figli ti costringono a non distogliere lo sguardo dal futuro?
Eppure tutta la nostra storia è una storia di memoria. Anche i muri trasudano memoria, gli oggetti, i segreti della cucina tramandati da generazioni, quei libri polverosi i cui soli titoli, declinati in ordine, dal primo all’ultimo, sarebbero uno splendido affresco di un tempo che fu, ideale soggetto di una tesi di laurea.
Nel suo studio, davanti alla libreria, ogni giorno mio padre riceveva i visitatori che petivano suppliche accompagnandole con povere cose, una forma di formaggio, un’anatra, qualche ortaggio. Per tutti aveva la sua risposta, sì o no, insindacabile. Oggi più nessuno varca quella porta, il podere è pressoché in abbandono, se si eccettua i vigneto da cui il buon Vito ricava ancora un ottimo rosso, e quel poco d’olio che raccapezziamo da quel centinaio di ulivi ormai esausti.
Ma perché produrre ancora quando sugli scaffali dell’alimentari hai tutto quello che ti serve? Non si sente più l’esigenza di produrre, solo quella di consumare. Io vorrei ancora produrre, far rivivere questi luoghi e queste cose, non accettare che diventino rifugio caldo di qualche anziana coppia inglese o tedesca, buono per svernare e per reiterare, in forma meno cruenta sì, passate invasioni.
Ma è ripida salita, un vezzo, un’impuntatura, un ancorarmi ad un passato ormai passato. Una follia, insomma. E ogni volta attraverso quelle montagne per tornare qui e ritrovare traccia di me. Per ritrovarmi tra queste cose, per sentire ancora quei retaggi che, altrimenti, sparirebbero. Non li lascio ad altri, a neofiti, a chi, magari, non saprebbe che farsene. Fin che ci son io sono per me, dopo vedremo.
Torno sui miei passi, un latrato di un cane, il sole ormai tramontato dietro quello sperone che da secoli sovrasta questa casa. Tra poco il buio mi impedirà di far ritorno e dovrò cercare in qualche modo la via. Lo so che non ne avrò per molto, che non lascio molto dietro di me, a parte ciò che ho di fronte, macerie. Macerie di affetti. L’ultima, la mia amica Olga, al cui sodalizio ho consacrato gli ultimi anni, mi ha lasciato da qualche mese. Mi attacco, edera non doma, a questi resti di un passato glorioso, a ricordi che sono voci vere di persone vere, che qui hanno vissuto e lottato; che questo hanno ricevuto in dono e questo hanno trasmesso, rigenerato e accresciuto, a chi li seguiva. Sono l’ultimo ma, finchè ci son io, qui non si vende niente.