IL POLLAIO E LE CHIOCCE
Mio nonno si occupava anche del pollaio. Ogni anno, all’inizio dell’estate, si mettevano due o tre chiocce a covare per rinnovare le nuove generazioni di galline. I preparativi per mettere le chiocce a covare duravano diversi giorni. Venivano raccolte le uova scegliendo quelle più grosse. Poi veniva un donna del quartiere che era esperta nello “sfilare” le uova. Questa era una operazione che serviva per scegliere le uova gallate, cioè fertili (non so quanto questa operazione fosse scientificamente attendibile). Si svolgeva in cucina e nel primo pomeriggio, quando il sole cominciava la sua discesa ed era particolarmente rosso. Tutta la famiglia, compresa la servitù, si raccoglieva per assistere all’operazione. Si chiudevano tutti gli infissi della cucina in maniera che la stanza restasse quasi completamente al buio. Restava socchiusa solo la finestra che era rivolta verso ponente in maniera che da una sottilissima fessura filtrasse un raggio di luce solare rossa che tagliava la stanza. L’esperta osservava le uova uno alla volta attraverso quella fessura di luce e stabiliva se era gallato o meno. Io guardavo e cercavo di farmi spiegare e capire, ma non sono mai riuscito a vedere quello che vedeva lei.
Poi, nel magazzino posto a piano terra, di cui ho parlato prima, in un posto ben riparato e isolato, veniva preparata una cesta bassa e ampia piena di paglia e riempita con uno strato di uova (circa venticinque). Accanto vi veniva posto uno “scifo” (il recipiente di terracotta che ho descritto prima per mettervi il mangiare) a quattro comparti. Uno per la crusca, uno per il granone (gran turco), uno per lo scaglio, e uno per l’acqua. In questa maniera la chioccia aveva tutto l’occorrente vicino al suo posto di cova senza doversi allontanare. Quando tutto era pronto mio nonno sceglieva la chioccia. Anche la scelta della chioccia non avveniva a caso, ma era una procedura sempre uguale che veniva seguita con scrupolo e attenzione. Mio nonno mi spiegava sempre tutto. Mi spiegava che le galline, come tutti gli esseri viventi di sesso femminile, hanno un loro ciclo fertile. Lo racconto così come l’ho capito, quindi è possibile che quello che dico non sia perfettamente esatto. Questo ciclo ha un periodo di preparazione in cui nell’addome della gallina cominciano a formarsi le uova, durante la prima fase l’uovo è formato solo dal tuorlo, che inizialmente è molto piccolo e ce ne sono in numero abbondante (da trenta a cinquanta). Questi tuorli molto piccoli, man mano che si avviano verso la maturazione aumentano di volume, quando il tuorlo è maturo è il gallo che con la sua opera lo rende fertile, e poi la gallina lo avvolge con il bianco e ricopre il tutto con un guscio calcareo e lo depone. In media uno al giorno. Quando la gallina ha deposto tutte le uova e il suo ciclo è terminato diventa chioccia ed è pronta a covarle. Quando è diventata chioccia la sua temperatura corporea sale (le “viene la febbre”). A questo punto si accovaccia nei nidi che si trovano all’interno del pollaio e cova le uova che vi si trovano. Mio nonno per prima cosa controllava se le galline accovacciate nei nidi erano lì perché stavano deponendo le uova oppure erano chiocce che cercavano di covare le uova trovate nel nido. E poi, dopo aver identificato le chiocce sceglieva quella che riteneva più idonea per portare avanti la covata.
Scelta la chioccia la portava nel magazzino e la poneva sulla cesta già pronta di tutto punto. Qui doveva essere lasciata in assoluta tranquillità. Solo una volta al giorno veniva rifornita di mangiare e contemporaneamente controllata.
Se non ricordo male la cova delle uova dura circa 21 giorni. Dopo, a poco a poco si schiudono e i pulcini cominciano a gironzolare attorno alla cesta sotto lo sguardo attento e materno della chioccia. Ricordo che ho visto i pulcini rompere il guscio con il becco e affacciare la testa, e poi, a poco a poco, continuare a rompere il guscio dell’uovo e, alla fine, venir fuori, dapprima tutti inzuppati dall’albume dell’uovo, poi man mano più asciutti, per poi diventare un batuffolino di bambagia gialla.
Ma una volta nato il pulcino il lavoro non è finito. I pulcini venivano tenuti separati dalle galline adulte ancora per molto tempo per evitare di essere beccate e ferite. Anche tra gli animali c’è la lotta competitiva per la sopravvivenza, in maniera che resista sempre il più forte e salvaguardi la specie. Quando i pulcini diventavano più grandicelli e autosufficienti venivano portati nel pollaio assieme alle altre galline. Mio nonno realizzava questa integrazione a poco a poco, quattro o cinque alla volta, intervallati da più giorni di pausa tra l’una e l’altra immissione. Mentre una covata cresceva, se ne attivava una seconda e successivamente spesso ne partiva anche una terza.
Dopo i tre mesi le pollastre cominciavano a distinguersi dai galletti. Le pollastre si integravano immediatamente con le altre galline e dopo sei o otto mesi avrebbero cominciato a deporre le prime uova. I galletti, invece, pur vivendo assieme a tutti gli altri stavano, in genere, raggruppati tra loro. Spesso si cimentavano in competizioni e in lotte beccandosi reciprocamente. Una volta vidi mio nonno che ne prese uno e gli tirò immediatamente il collo, anche se ancora era molto piccolo. Poi mi resi conto che durante una di queste lotte con gli altri galletti aveva perso un occhio che penzolava completamente fuori dall’orbita.
La fine dei galletti era presto segnata. Appena raggiungevano un certo peso veniva loro tirato il collo ed utilizzati per l’alimentazione della famiglia. Mio nonno mi spiegava come si tira il collo ad un galletto o ad una gallina. Con la mano sinistra si prende il pollo per i piedi e lo si mette a testa in giù. Si poggia il piede destro sopra un gradino o un sedile in pietra (ce ne erano tanti in giro per il cortile). Si poggia il corpo del pollo contro la propria coscia destra che è poggiata sul gradino. La mano destra prende il collo del galletto e scivola delicatamente fino a raggiungere la testa. Il pollice della mano destra si pone proprio a livello della nuca subito a ridosso della colonna cervicale, poi d’un tratto la mano stringe forte la testa e dà uno strappo secco e forte, tale da staccare il cranio del pollo dalla colonna, ma senza lacerare la pelle. In questa maniera il pollo muore istantaneamente e con una sofferenza minima. Anche i vasi del collo si rompono mentre il cuore continua a pompare il sangue che si raccoglie proprio attorno alla testa e al collo (è necessario tenere il pollo sempre a testa in giù). Ciò rende tutta la carne più bianca e la parte della testa e del collo, con tutto il sangue raccolto diventa un boccone prelibato.
I polli, in genere due per volta, uccisi la mattina presto, venivano lasciati riposare a testa in giù fino a dopo il pranzo. Poi veniva preparata dell’acqua bollente e venivano spennati accuratamente dalle donne di servizio. A questo punto entrava in scena mia zia. Sopra il tavolo di marmo della cucina, quello dove mangiava mio nonno e la sua famiglia veniva preparato tutto l’occorrente. Mia zia apriva il torace del pollo con delicatezza, e tirava fuori i visceri senza romperli. Io assistevo con interesse a tutta l’operazione mentre lei mi spiegava tutti i passaggi. Questo è lo stomaco e lo tirava fuori, questo è il fegato, vedi questa violacea è la cistifellea che contiene la bile, bisogna staccarla senza romperla, altrimenti il fegato non è più buono, diventa amaro. Questo è l’intestino, e delicatamente lo tirava fuori senza romperlo, questi sono i rognoni (reni), queste sono le animelle (testicoli). Ogni cosa veniva isolata, accuratamente ripulita, lavata e posta in un piatto. Lo stomaco e l’intestino subivano un trattamento particolare. Lo stomaco veniva aperto e, dopo averlo lavato accuratamente in una grossa ciotola posta anch’essa sul tavolo, veniva deposto assieme agli altri visceri nel piatto. L’intestino ancora sporco veniva isolato alle due estremità e posto sul piano di marmo. Poi, mia zia, mentre con la mano sinistra teneva chiusa una estremità, con la destra passava sopra l’intestino il dorso di un coltello (cioè il lato smusso e non tagliente), in questo modo faceva scorre tutto il contenuto che si trovava all’interno verso l’altra estremità. Così l’intestino veniva svuotato quasi completamente. Poi con un paio di forbici il budello veniva aperto per tutta la sua lunghezza e lavato accuratamente nella ciotola, cambiando ripetutamente l’acqua finché questa (dopo l’ultimo lavaggio) non restava assolutamente limpida. Dopo di che veniva posto nel piatto assieme agli altri visceri. Finite tutte queste operazioni veniva ripulito accuratamente il tavolo e riposizionato il pollo con i visceri sul marmo. Veniva di nuovo accuratamente lavato un’altra volta il tutto. Il pollo sezionato a seconda della maniera in cui doveva essere cucinato. Anche i visceri venivano nuovamente lavati e preparati per essere cucinati. L’intestino, anch’esso lavato un’altra volta, veniva avvolto in gomitoli ed annodato su se stesso, in questo modo si preparavano le cosiddette “stigghiole”. Queste, cotte assieme al fegato ed agli altri organi interni, erano un piatto il cui gusto era di una prelibatezza da fine del mondo!
A me piaceva tutto, ma i rognoni e le animelle erano il mio boccone preferito … oh dio, che delizia gustosa! … E mia zia (ero il suo pupillo!) accoglieva sempre tutte le mie richieste e mi viziava. Anche i galletti, cotti al forno con le patate a me piacevano tantissimo e spesso, quando durante la settimana si faceva il pane (che come ho detto, veniva fatto in casa), dopo averlo tirato fuori dal forno veniva messa una teglia con due galletti tagliati a pezzi assieme alle patate.
Un’altro piatto che mi piaceva era il pollo ripieno. Per prepararlo era necessario prendere un pollo molto grosso, così mia zia parlava con mio nonno il quale sceglieva una delle galline meno giovani. Il rito che avveniva sul tavolo di marmo della cucina era uguale a quello che ho descritto, con la differenza che lo svuotamento dei visceri avveniva in maniera completamente diversa. Mia zia riusciva a tirare tutte le interiora e tutti i visceri, come gli imbalsamatori dei faraoni egiziani, solo dal buchino naturale, senza tagliare o lacerare la pelle. E attraverso quel buco naturale tirava fuori, una ad una, anche tutte le ossa, lasciando solo la carne ricoperta dalla pelle intatta. Poi la gallina veniva riempita di riso assieme ad altra carne di vitello e di maiale. Questo piatto veniva preparato in occasione di particolari ricorrenze o quando venivano ospiti particolari, ma, una volta l’anno, mia zia lo preparava solo per me al di fuori di queste ricorrenze.
Mia zia era molto esperta in cucina! Cucinava una infinità di piatti prelibati ed anche di dolci! E poiché le uova in casa abbondavano (in verità tutti i cibi naturali e genuini in casa abbondavano), con esse faceva dolci di tutti i generi. Mi preparava con latte e uova una crema gialla da leccarsi i baffi … Preparava anche il pan di Spagna che a me piaceva sia da solo che farcito con la crema sotto forma di torta … col bianco dell’uovo preparava le meringhe … e poi faceva dei biscotti secchi chiamate “nuvolette” che io la mattina inzuppavo regolarmente nel latte …