LA CAMPAGNA
Il primo piano della casa era destinato all’abitazione di mio nonno e della sua famiglia. Tutte le stanze erano grandi almeno cinque metri per cinque o anche di più. La “cucina grande” (in contrapposizione a quella “piccola” che si trovava a piano terra) era il cuore pulsante di tutta la casa ed era grandissima comprendeva la superficie di due vani ed aveva un balcone e due finestre. Tutta la vita della famiglia si svolgeva in questa stanza. La scala di servizio sboccava in un piccolo vano di disimpegno, da qui una porta sul lato destro, che stava sempre aperta, immetteva nella cucina e di fronte un’altra porta, che stava sempre chiusa, immetteva in un salottino in cui, di giorno, mio nonno riceveva le persone che lo venivano a trovare per motivi di lavoro, e la sera si ricevevano eventuali parenti che venivano a fare visita. Dietro questo salottino stava un grande salone che dava ingresso a quasi tutte le stanze. C’era il salotto con il divano, le poltrone e il pianoforte, che veniva aperto solo quando venivano persone di riguardo, e tutta una serie di stanze, utilizzate come deposito che stavano sempre chiuse e nelle quali sono entrato solo poche volte. Poi c’erano le stanze da letto, alcune utilizzate da mio nonno e da mia zia, altre chiuse, che venivano aperte solo quando veniva la mia famiglia o quella dell’altra zia sposata. C’era anche una stanza particolare, grande quanto le altre, con scrittoio e libreria, con un divano e grandi armadi guardaroba, una specie di studiolo. Era una stanza che utilizzava mia zia. Io avevo il permesso di andarmi a rinchiudere in questa stanza quando avevo voglia di leggere qualche libro che prendevo dalla libreria, oppure volevo stare solo. Mi chiudevo lì e nessuno mi veniva a disturbare (in genere io non disturbavo nessuno e nessuno disturbava me).
Accanto alla cucina, dal lato opposto all’ingresso di servizio c’era la sala da pranzo che comunicava anche con la scala grande e con il salone. Una cosa che sempre mi ha meravigliato è stato il contrasto tra la stanza da pranzo e la cucina. A casa mia, la cucina era relativamente piccola, mentre la sala da pranzo era un salone in cui si viveva tutto il giorno. In casa di mio nonno era tutto l’opposto. La sala da pranzo veniva aperta solo quando venivano dei parenti oppure degli ospiti e, pur essendo una stanza molto grande, rispetto alla cucina, sembrava piccola. Ricostruendo mentalmente tutta la casa, al primo piano c’erano ben sedici camere. C’era anche un ammezzato, dove dormiva la servitù e da dove si accedeva al sottotetto, sopra le volte delle stanze.
Mio nonno amministrava tutto quello che riguardava l’esterno della casa ed ovviamente anche il patrimonio di famiglia, mia zia che era la piccola ed era rimasta nubile, amministrava la casa ed era la regina incontrastata di tutto quello che vi avveniva all’interno. Mio nonno mi voleva molto bene, ma non me lo dimostrava con effusioni particolarmente visibili. Mi portava con se quando andava in campagna a cavallo e quando girava per i terreni di sua proprietà (erano diversi e molto estesi). Quando andavo in campagna con mio nonno la preparazione iniziava la sera precedente. La sveglia veniva anticipata di un quarto d’ora e i miei vestiti erano quelli “per andare in campagna”. Facevo colazione senza aspettare il suo arrivo per non fargli perdere tempo. Lui tornava dalla chiesa un quarto d’ora prima, forse rinunziava a recitare qualche posta di rosario. Mangiava subito e scendevamo immediatamente nella stalla. Lì c’era don Filippo che lo aspettava. Appena mio nonno arrivava don Filippo cominciava a sellare il cavallo. Ma era mio nonno che controllava tutto e stringeva i finimenti della sella nella giusta tensione. Il primo anno, quando avevo otto anni, mi teneva davanti a lui. Poi gli anni successivi montavo dietro sulla groppa. Quando montavo dietro, prima di mettere la sella, veniva aggiunta una coperta sul dorso del cavallo, su cui stavo io.
Quando giungevamo in campagna mi spiegava tutto. Questo è il vigneto del “Ciaramitaro”. Guarda come sono belle le viti, come sono cariche d’uva. Qui è pianeggiante e produce molta uva, lo vedi? lì in fondo invece è collinare e ne produce molto meno, ma la qualità è di gran lunga superiore. Mischiando insieme l’uva dei due terreni si ottiene contemporaneamente vino in quantità ed anche di ottima qualità. Questo è il mandorleto di “Donna Nunzia”. Le mandorle sono della varietà “nostrale” e sono buone, anche se non sono grosse come quelle della “Pizzuta di Avola”. Questo è un piccolo appezzamento di pistacchi. Non produce molto, ma la produzione basta per la famiglia, lo tengo solo per questo. Questo è il noccioleto di “Gaetanello”, peccato che quest’anno la produzione è scarsa come quantità, infatti i prezzi sono molto buoni. Don Salvatore mi ha detto che il noccioleto di “Pizzolio” quest’anno non ha prodotto nocciole, ma la settimana prossima vado a controllare, tu ci vieni? “Sissignore”, rispondevo. Bene, giusto, bisogna sempre controllare di persona!
A mio nonno, tutti gli estranei davamo del “voscenza” (vostra eccellenza) mentre quelli più intimi, me compreso, del “vossia” (vostra signoria). Per cui la mia risposta non poteva essere che “sissignore”.
Mio nonno era alto, magro, segaligno. Quando mi portava con sé era già anziano, ma era un camminatore instancabile. Mi raccontavano che quando era giovane era molto forte ed era in grado di sollevare un sacco di grano di trenta chili e lanciarlo in cima al carro a due metri e mezzo d’altezza. Talvolta, quando dovevamo girare molto per la campagna si portava dietro il cavallo, tenendolo per le briglie, ma lui camminava sempre a piedi, lo portava per farmi montare a cavallo nel caso mi fossi stancato. Camminava sempre con un bastone in mano. Era un legno di castagno, alto fino alla sua spalla, l’aveva ripulito e intagliato da sé. Era quasi un suo segno distintivo. Faceva finta di appoggiarsi, ma in realtà lo usava solo per scansare le pietre o i rami che incontrava lungo i viottoli. In pratica la strada, dopo il suo passaggio era completamente ripulita. “Perché lo fa?” Chiedevo io. Perché qualcuno che passa può inciampare e farsi male. Perché non lo fa fare agli operai, ribattevo io. Loro devono badare al lavoro, invece a me non costa niente. Qualche anno più tardi scoprii, frequentando gli scout, che mio nonno con il suo esempio mi aveva già insegnato (senza essere mai stato scout) il motto di Baden Powell “lascia il mondo migliore di come l’hai trovato”.
Con quel bastone, lungo il percorso, mi mostrava le tracce dei conigli, oppure quelle delle volpi, e mi faceva notare le differenze. Mi indicava la pelle di una serpe oppure un nido di formiche o un gruppo di scarafaggi stercorari che rotolava palline di letame. Una volta nella campagna di “Torrazze” mi mostrò la pelle di una vipera e notando la mia espressione di paura mi spiegò che se ne incontravo qualcuna non dovevo spaventarmi. Le vipere aggredivano gli uomini solo quando venivano molestate. Pertanto se ne avessi incontrata qualcuna non dovevo molestarla, ma stare fermo e, se non scappava via, dovevo essere io ad allontanarmi, indietreggiando lentamente senza fare movimenti bruschi. Però, da quella volta in avanti, tutte le volte che accompagnavo mio nonno in quella campagna, mia zia mi metteva un paio di calzettoni di lana spessi, alti fino al ginocchio. Solo in seguito capii il perché.
Quando si trebbiava il grano ci fermavamo tutto il giorno in campagna, sull’aia assieme ai contadini. Dapprima i muli con i loro zoccoli frantumavano i covoni e la paglia. Era un lavoro lungo, meticoloso, sfibrante, per me era noioso. Poi i contadini, con i forconi, toglievano la paglia frantumata e lasciavano le spighe al centro dell’aia. Dopo di che passavano nuovamente i muli trainando un grosso masso che sbriciolava le spighe in maniera che il grano venisse fuori. Appena si levava un po’ di vento, i contadini con le pale lanciavano in aria questa poltiglia in maniera che la pula (quel velo sottile che ricopre i chicchi del grano) fosse portata via dal vento e il grano, più pesante, ricadesse al centro dello spiazzo. E così via finché il grano non era perfettamente pulito. Dopo che il grano era stato trebbiato ed i sacchi di grano erano stati riposti nel magazzino montavamo a cavallo e tornavamo a casa.
Quando la trebbiatura avveniva nel terreno vicino la casa di mio nonno, noi tutti, ragazzi e ragazze, assistevamo a questa operazione che si ripeteva ogni anno quasi come una festa o un rito sacro. Alla fine, quando tutti i covoni erano stati trebbiati ed il grano era stato riposto nel granaio e restavano sull’aia soltanto i cumuli di paglia, noi ragazzi avevamo il permesso di rotolarci e giocare su di essa, tutti insieme in un gioco festoso. Era una specie di finta battaglia, ognuno di noi lottava contro tutti gli altri, ragazzi e ragazze tutti insieme, quasi un’orgia profana e non priva di malizia. Ricordo una volta che Maria si azzuffò violentemente con un’altra ragazza e le tirò le trecce con forza, perché questa nel gioco si era lanciata in effusioni piuttosto aperte nei miei confronti. Non nego che quell’episodio mi procurò parecchio piacere, quella ragazzina era bellina ed a me le sue effusioni ed i suoi giochi non erano affatto dispiaciuti, inoltre mi inorgogliva essere l’oggetto della loro contesa, e infine mi provocava piacere scoprire che Maria era gelosa di me.
Una volta, non so come fu, nell’euforia del gioco caddi a faccia in aria dentro una siepe di rovi. Cercavo di stare immobile, ad ogni movimento che facevo le spine si conficcavano nelle mie carni. Anche restando immobile le spine foravano le mie carni, ma il dolore era minore. Tutti si fermarono. Tutte le ragazzine e i bambini piccoli si fermarono allibiti attorno alla siepe e guardavano me (l’ho detto in altra parte dei miei scritti: i ragazzi della mie età erano tutti a lavorare, per compagnia avevo solo ragazzine e bambini più piccoli). Nessuno sapeva cosa fare. Non c’erano contadini nei dintorni. Ad un tratto Maria ebbe un’idea. Prese una grossa fune che si trovava sull’aia, una di quelle che servivano per legare i sacchi di frumento sul carro oppure sulla sella dei muli, e me ne tirò una cima. L’afferrai mentre loro dall’altra parte tutti insieme si misero a tirare. Erano in tanti e poco alla volta riuscirono a tirarmi fuori. Non vi dico quello che provai. I miei vestiti erano tutti stracciati, ma quel che è peggio anche le mie carni si erano lacerate. Sanguinavo dappertutto. I bambini mi guardavano in silenzio con il dito in bocca e quasi senza fiatare. Le ragazzine mi carezzavano quasi per consolarmi ed attutire la mia sofferenza. Mogi mogi, tutti in gruppo ci dirigemmo verso casa. Maria mi teneva per mano. Mi accompagnarono fino al portone di casa e poi, ciascuno si allontanò per tornare in silenzio e lentamente a casa propria. Con Maria salimmo lentamente e in silenzio le scale di casa. “Figlio del Signore! Cosa hai fatto?” esclamò mia zia quando mi vide. Spiegai che ero caduto in una siepe. Maria stava rintanata in un angolo della cucina in silenzio, in quanto si sentiva responsabile, ma non aveva nessuna colpa. Le donne di casa mi guardavano in silenzio senza fiatare, mentre si sentivano i passi di mio nonno che stava per arrivare dalla sua stanza. Lui mi guardò e disse solo questo “lavatelo e disinfettatelo” e si allontanò.
Mi portarono nel bagno. Mi spogliarono nudo e mi misero dentro la vasca da bagno. Dopo di che mia zia prese la bottiglia dell’alcol denaturato (quello rosso) e con il cotone idrofilo disinfettò tutto il mio corpo. Stringevo i denti al bruciore dell’alcol, ma non fiatavo. La regola era questa per evitare i rimproveri e i castighi dovevo lasciarmi pulire e disinfettare senza fiatare. Ed anche quella volta la regola fu rispettata: non una parola, non un lamento uscì dalla mia bocca e non ebbi rimproveri.
Mio nonno e mia zia mi hanno insegnato a vivere una vita naturale in mezzo alla natura. Mio nonno mi insegnava a conoscere le piante, a distinguere gli alberi di quercia da quelli di olmo o di castagno, gli abeti dai faggi oppure dai pini, e mi spiegava le caratteristiche proprie di ciascuna pianta, i suoi frutti e l’utilizzo che se ne poteva fare. Mi mostrava le piante coltivate, i noccioli, i pistacchi, i mandorli, i peri, l’albicocco, e mi insegnava a riconoscerli anche se erano privi del frutto. Mi faceva notare la forma delle foglie di ogni tipo di pianta, mi spiegava il colore dei fiori durante la fioritura, mi insegnava a riconoscere i frutti quando ancora erano piccolini e cominciavano a formarsi. Mi insegnava a capire se quell’anno la produzione di quel determinato frutto sarebbe stata abbondante o scarsa osservando la fioritura. Mi spiegava come tutto in natura aveva regole precise che venivano determinate dalle fasi lunari e dall’andamento del clima. Guardava i germogli del mandorlo ancora prima di fiorire e poi alzava gli occhi al cielo per controllare il clima e mi spiegava che la fioritura quell’anno sarebbe avvenuta troppo presto, in quanto le fasi lunari erano in anticipo e pertanto era probabile che il gelo avrebbe distrutto la produzione. Mi spiegava che le abbondanti piogge dell’autunno, subito dopo la semina del grano, avevano portato via i chicchi prima che avessero avuto il tempo di attecchire mettendo le radici nel terreno per cui la produzione sarebbe stata scarsa. Mentre l’abbondante neve che era caduta durante l’inverno precedente aveva coperto e protetto le piantine di grano e la produzione sarebbe stata abbondante. Mi spiegava che nel terreno le colture dovevano essere alternate: se un anno si seminava il grano era opportuno l’anno successivo lasciare il terreno a pascolo, poi l’anno dopo seminare legumi, quali lenticchie o fave o ceci. La coltura del grano aveva molto bisogno di azoto e di sostanze organiche che assorbiva dal terreno per cui lo impoveriva, le pecore e le capre durante il pascolo avrebbero depositato le sostanze organiche necessarie, mentre la coltivazione delle leguminacee avrebbe trasformato nel terreno quelle sostanze organiche in azoto rendendolo assorbibile da parte del grano. Non so se la scienza conferma queste regole che mio nonno mi insegnava, ma io le riporto così come lui me le ha spiegate.