IL GRANAIO
Il grano e tutti i legumi riposti nel granaio non servivano solo per l’alimentazione della famiglia, ma buona parte di quel grano e di quei cereali di tanto in tanto veniva dati alle persone che lavoravano per mio nonno. Ritengo che una parte del loro lavoro fosse pagato in natura. Il grano era accatastato in alti cumuli. Le persone che venivano a prenderlo portavano uno o più sacchi molto robusti e spessi. Anche se nel granaio c’era una bascula il grano e i legumi non venivano pesati, ma misurati con dei recipienti cilindrici e con un legno perfettamente liscio e cilindrico il contenuto dei recipienti veniva rasato. Il mio ricordo sulla vera entità di queste unità di misura è molto vago. Ricordo che quello più piccolo si chiamava “garoza”, poi ce n’era uno un po’ più grande che era chiamato mezzo monzello” e infine uno ancora più grande che era il “due monzelli”. Quattro monzelli facevano un tumulo, che era circa 16 chili di grano e sedici tumuli facevano una salma. Mio nonno spesso regalava del grano alle famiglie più bisognose. In genere erano le donne che venivano a prenderlo. Portavano dei sacchi e dopo averlo misurato prima di andare via sentivo che dicevano a mio nonno “il Signore glie ne renda merito” e gli baciavano la mano.
Come ho detto, nel granaio, in mucchi più piccoli, erano tenuti anche dei legumi (fave, lenticchie, ceci, fagioli). Anche questi venivano utilizzati per l’alimentazione della famiglia e venivano anche dati ad altre persone. I legumi, più volte la settimana, facevano parte dell’alimentazione giornaliera della casa. Inoltre, c’era l’avena per il cavallo e le fave secche per le capre ed il maiale, il gran turco per le galline. In casse apposite veniva tenuta la farina e la crusca. C’era di tutto ed era una sensazione meravigliosa poter immergere la mano e talvolta tutto il braccio in profondità nel cumulo del grano e negli altri prodotti che dava la terra.
Periodicamente una parte del grano veniva portato al mulino per essere macinato e per ricavare la farina sia per il pane che per la pasta. Mentre oggi la pasta è l’alimento principale del pasto, a quell’epoca era quasi il contorno. La pasta non veniva usata quasi mai da sola, tranne nei giorni di festa. Veniva fatta in casa. Era mia zia che periodicamente la impastava. Veniva fatto scivolare un poco il marmo posto sul tavolo della cucina, in modo che sporgesse da un lato e lì si avvitava la macchina per stendere e tagliare la pasta. Poi sul tavolo veniva posta la farina di grano duro o la semola, dopo averla misurata. Si dava alla farina una forma a cratere e all’interno si versavano le uova, alcune intere, altre solo il tuorlo. L’albume veniva conservato per utilizzarlo diversamente (per fare frittate o altri cibi). Mia zia prima di iniziare ad impastare la farina si rimboccava le maniche quasi fino all’ascella e si lavava le mani e le braccia abbondantemente e a lungo con il sapone fatto in casa, poi metteva un ampio grembiule bianco e di bucato. Anche la donna che l’aiutava nell’operazione si preparava con la stessa procedura. Nessun’altra persona della famiglia, quando si impastava la pasta, poteva avvicinarsi al tavolo tranne me. Io godevo sempre di tutti i privilegi e di tutte le eccezioni. Potevo aiutare mia zia a impastare la pasta con le mani nude, ma solo dopo aver rimboccato le maniche fino all’ascella e averle lavate nella stessa maniera. Potevo prendere pezzetti di pasta fresca appena impastata e mangiarli. Potevo girare la manovella della macchina che tagliava la pasta. Potevo aiutare a stenderla negli ampi canestri di vimini in cui veniva deposta ad asciugare dopo averci steso dei tovaglioli di lino, freschi di bucato. Mia zia impastava anche la semola per fare i maccheroni. La procedura era la stessa di quella per fare la pasta. Poi venivano presi pezzetti di pasta e, messi attorno ad uno spiedo di ferro e fatti rotolare sul marmo del tavolo, indi veniva sfilato lo spiedo e i maccheroni posti ad asciugare nei soliti canestri di vimini sopra la tovaglia di lino. Credo che gli spiedi fossero ricavati dalle aste degli ombrelli rotti.
Una volta la settimana si faceva anche il pane. D’estate la farina veniva impastata la mattina presto all’alba, invece d’inverno, poiché a causa del freddo, il pane aveva bisogno di maggior tempo per lievitare, veniva impastato la sera precedente. Prima di iniziare ad impastare il pane veniva acceso il forno. Questa operazione serviva per riscaldare l’ambiente e per favorire la lievitazione.
Veniva una donna che aveva proprio il compito di impastare il pane e lavorava assieme a mia zia. La preparazione delle due donne era identica a quella che ho già descritto per la preparazione della pasta, e nessun’altra persona poteva entrare nella stanza. La farina veniva messa nella “maidda” (madia) di legno dopo averla attentamente misurata (era mia zia che decideva quanta farina doveva essere impastata) e posta su un lato veniva disposta a cratere. In questo incavo veniva messa dell’acqua tiepida e in quest’acqua veniva sciolto il lievito (“cresente” conservato dalla volta precedente). Il lievito aveva un odore piuttosto acido per via dei fermenti che durante la settimana si erano moltiplicati e veniva spappolato accuratamente con le mani nell’acqua in maniera che si sciogliesse completamente e non restasse nessun grumo neanche piccolo. Quando era ben sciolto, l’operazione non era affatto breve e veniva attentamente controllata da mia zia, e l’acqua aveva acquistato un colore lattiginoso si cominciava ad impastare la farina. A poco a poco la miscela, dapprima molto liquida, cominciava ad addensarsi ed assumeva una consistenza sempre maggiore. Veniva lavorata a lungo almeno un paio di ore fino a quando diventava molto densa e pastosa. A questo punto venivano realizzate le forme del pane. Erano forme molto grosse (dopo cotte pesavano circa due Kg ciascuna) perché si conservasse morbido il più a lungo possibile. Infatti il pane veniva impastato una volta la settimana e doveva restare per tutto il periodo più morbido possibile.
Con l’ultima pasta rimasta venivano forgiate quattro forme a buccellato (cioè con il buco al centro) più piccole e talvolta, specialmente quando c’ero io una o più pagnotte più piccole. Le forme a buccellato erano per mio nonno, a lui piaceva il pane croccante con molta crosta, e le mangiava i primi giorni, infatti questa forma di pane induriva molto rapidamente. Le pagnotte più piccole, invece venivano condite con olio, origano, pepe, tuma, acciughe e olive per essere mangiate calde, appena sfornate. Queste ultime piacevano in particolare a me.
Le forme di pane impastate e formate venivano poste su delle tavole ricoperte da teli di lino, che venivano rivoltati per mantenere il pane coperto. Le tavole con le forme di pane poi venivano messe in un ripostiglio in muratura posto sotto il forno. In questo modo veniva utilizzato il calore del forno per aiutare la lievitazione.
La donna che veniva ad aiutare la zia a fare il pane era anche brava a fare dei biscotti al forno. Faceva i “biscotti della monaca”, fatti con fior di farina (era proprio la primissima farina che usciva quando il grano veniva molito, ricavata proprio dal cuore del chicco), zucchero, acqua e strutto. Questi biscotti si conservavano a lungo. Mia zia li faceva una sola volta, quando arrivavo io e duravano tutta l’estate. Venivano fatte anche le “nuvolette” altri biscotti molto buoni, fatti sempre con fior di farina, uovo, latte e zucchero. Anche questi biscotti duravano a lungo e io e mio nonno li inzuppavamo la mattina nel latte caldo. Le nuvolette venivano fatte più volte in quanto mia zia diceva che io “le divoravo”.