1947 – 11 anni – il cane
Era estate e passavo le vacanze da mio nonno. Gironzolavo per la strada e vidi dei ragazzi che prendevano a sassate un cane. Li dissuasi. Fu facile allontanarli, erano più piccoli di me. I ragazzi della mia età e quelli più grandi andavano a imparare un mestiere, oppure in campagna a lavorare con il loro padre.
Guardai il cane, era un bastardo di colore scuro, era pelle ed ossa. Frugava lungo i bordi della strada in cerca di cibo, ma non ce n'era. I maiali e le galline che di giorno dimoravano nella strada avevano ripulito tutto. Cercai di avvicinarlo, ma lui si allontanava con la coda tra le gambe e la paura negli occhi.
Tornai a casa e chiesi a mia zia un pezzo di pane. “Hai fame?” mi chiese. “No, è per un cane”. Prese il pane più duro e ne tagliò un pezzo e me lo diede. Tornai in strada e cercai di avvicinarmi al cane. Aveva riconosciuto il pane che gli mostravo e lo guardava, ma, malgrado la fame gli mordesse lo stomaco, non si lasciava avvicinare. Immagino che la paura fosse più forte della fame. Quando io mi avvicinavo lui si allontanava. Quando io mi fermavo anche lui si fermava. Resomi conto che non si sarebbe lasciato avvicinare gli tirai il pane che cadde a metà strada tra me e lui perché fui maldestro.
Il cane guardava il pane, ma non osava avvicinarsi ad esso. Lo guardava e tremava. La fame era forte, ma la paura era molto più forte. Mi allontanai un poco e lui si avvicinò un poco al pane. Mi allontanai di più e lui si avvicinò di più. Poi, d'un tratto, fece un balzo afferrò il pane e fuggì via di corsa lontano dal mio sguardo.
Qualche giorno dopo lo rividi più o meno allo stesso posto. Corsi a casa e mi feci dare un altro pezzo di pane. Lui mi vide, mi riconobbe e guardava il pezzo di pane che era nelle mie mani. Glie lo tirai e neanche questa volta con il mio tiro riuscii a coprire la distanza tra me e lui. Si ripeté la stessa scena della prima volta. Solo quando io mi allontanai lui prese il pane con un salto e fuggì via nuovamente.
L'indomani, più o meno alla stessa ora tornai in strada. Lui era là, mi aspettava e mi guardava. Tornai a casa, presi il pane e per la terza volta la scena si ripeté nella identica maniera. E così più volte di seguito fino a quando non mi feci tagliare il solito pezzo di pane in due metà uguali. Li mostrai tutti e due al cane, ma ne tirai solo un pezzo. Lo addentò e si allontanò un poco. Questa volta non fuggì via, ma mi guardava tenendo il pane in bocca. Poi, vedendo che io non facevo alcun movimento lo mangiò. Poi fece alcuni passi per avvicinarsi di nuovo, ma sempre restando molto distante da me.
Mi guardava, o meglio guardava l'altro pezzo di pane che avevo in mano. Io lo invitavo a venire a prenderlo, ma lui non si muoveva. Lo tirai appositamente a metà distanza tra me e lui, per vedere se si fosse avvicinato, ma non si mosse. Solo quando io mi allontanai si avvicinò al pane, lo prese e fuggì via.
Questo gioco si ripeteva tutti i pomeriggi. Facevo tagliare il pane in pezzetti sempre più piccoli e man mano riuscivo a farlo avvicinare sempre di più. Tentavo di fargli prendere il pane dalla mia mano, ma lui non si avvicinò mai ad una distanza inferiore a due metri circa.
La mia vacanza stava per finire. Sapevo che il giorno dopo mio padre e mia madre sarebbero venuti a prendermi per riportarmi in città perché la scuola stava per ricominciare. Mi rodeva il fatto che non ero riuscito a fargli prendere il pane dalla mia mano.
Quel giorno il pane lo feci lasciare intero. Scesi in strada, lui era là ad aspettarmi. Mi sedetti su un sasso e gli mostrai il pezzo di pane sul palmo della mia mano. Mi guardava senza muoversi. Ogni tanto gli mostravo il pezzo di pane e poi facevo l'indifferente. Lui si agitava. Anziché tenere la coda in mezzo alle gambe scodinzolava. Non sapeva cosa fare. La fame lo spingeva ad avvicinarsi, ma la paura lo tratteneva.
Fece dei passi, si avvicinò un poco, ma poi si fermò. Tremava, vibrava tutto. Guardava il pane nella mia mano e si avvicinava un passo alla volta. Poi faceva una pausa. Io stavo fermo e indifferente. A poco, a poco arrivò a poca distanza da me che stavo sempre seduto immobile sul sasso. Tesi il braccio porgendogli il pane. Si avvicinò ancora un poco, addentò il pane dalla mia mano e fuggì via.
Ma fatti pochi metri si fermò e si voltò. Io ero ancora seduto immobile sul sasso. Mi guardò. Forse ci sorridemmo l'uno con l'altro. Poi mangiò il pane. Ci guardammo ancora. Infine lentamente si girò e si allontanò per la sua strada.
Tornai a casa. Ero felice perché finalmente mi ero conquistato la sua fiducia. Aveva preso il pane dalla mia mano. Ma contemporaneamente ero triste perché il giorno dopo sarei partito.
L'anno successivo, quando tornai per le vacanze da mio nonno lo cercai. Girai per tutte le strade, per tutto il quartiere, per tutte le campagne vicine, lo cercai a lungo, ma non l'ho più rivisto...
Sicuramente per molti giorni ancora, dopo la mia partenza, tornò a cercare quel ragazzo che ogni giorno gli portava un pezzo di pane...
Dopo più di sessant'anni ho ancora negli occhi l'immagine di quella povera bestiola impaurita e con la coda in mezzo alle gambe... Vedo ancora quegli occhi impauriti che mi guardavano e si chiedevano “è un nemico, oppure un amico...” e solo alla fine capirono che quel ragazzo dalla pelle chiara, dagli occhi azzurri e dai capelli castani e sempre scarmigliati era un amico...