Sono sola. Seduta sul pavimento freddo, la testa appoggiata al muro. La mia disperazione è talmente forte che non so che cosa fare, vorrei morire, qui, adesso. Non ho voglia di muovermi, di reagire; tutto quello in cui avevo creduto è finito, scomparso, dissolto. La casa mi sembra vuota e impersonale; Marco ha portato via tutto quello che gli apparteneva: i soprammobili, i mobili, le lampade, i libri, gli album di fotografie. È rimasto quel poco di me che era stato risparmiato dalla sua personalità: le riviste, i libri, i gioielli, pochi e preziosi. Fa freddo. Ma forse quel freddo è dentro di me; vorrei annientarmi, dimenticare. Apro il frigo; contiene frutta, verdura, formaggio e una bottiglia di vino; la apro e bevo un bicchiere, poi un altro e un altro ancora. Che cosa farò adesso? La mia vita era sempre stata piena dei suoi problemi, difficoltà, inviti, cene, amici, conoscenti; ora mi sentivo come se mi avessero amputato la mano destra; passo da una camera all’altra, mi guardo in giro e la disperazione mi travolge nuovamente, violenta, irriducibile: sono sola, vuota come un tamburo. Torno al frigorifero, mi verso un altro bicchiere, la mia testa è pesante; meglio, mi piacerebbe perdere conoscenza. Non ho un’amica, un lavoro, un passatempo; mi ero dedicata al mio compagno con una dedizione quasi religiosa sperando che mi sposasse, di avere una famiglia e dei figli. Lui è ricco e brillante; io sono bella, ma senza particolari attitudini, mediocre. Sembravamo una coppia perfetta: lui attivissimo, in carriera, spalleggiato da una compagna bella ed elegante che lo seguiva come un’ombra. La mattina, gli portavo la colazione a letto e lo ammiravo mentre si stirava pigramente e mi sorrideva con gli occhi scuri velati di sonno. In inverno, gli stiravo la camicia poco prima che la mettesse in modo che la sentisse calda sulla pelle. Poi usciva e io rimanevo in casa con un elenco di commissioni da fare – spesa, tintoria, posta e tutte le incombenze più noiose. Tra i miei doveri, c’era quello di essere in forma; quindi, mi aveva iscritto ad una palestra dove andavo tutti i giorni; poi mi recavo in un centro estetico per fare i massaggi una volta la settimana. Lui sceglieva i miei vestiti e le persone che dovevo frequentare, di solito mogli e fidanzate di colleghi e conoscenti che gli interessavano per formare un cerchio di amicizie mirato. La sera, quando tornava, dovevo fargli il resoconto della mia giornata, poi mangiavamo quanto mi aveva ordinato al telefono nel pomeriggio e, infine, guardavamo la televisione. Spesso, però, eravamo fuori a cena, al ristorante o a casa di amici. Una volta alla settimana, facevamo l’amore; era dolce, affettuoso, metodico; esaminava il mio corpo con attenzione prima di salire sopra di me o di coccolarmi. Dieci anni di questa vita ai suoi ordini. Il risultato? Si è innamorato della sorella di un suo amico. L’ho vista: magrissima, con i capelli neri corti, gli occhi chiari molto truccati; veste abiti dalla forma geometrica o tailleur dalla linea rigorosa, sulle dita lunghe e affusolate porta sempre anelli in oro e pietre preziose. Lavora come designer e il suo appartamento in Corso Venezia è sempre pieno di amici; cucina meravigliosi soufflé al formaggio e verdure gratinate mentre racconta con la sua voce pastosa aneddoti divertenti. Non posso competere con lei, io sono sempre stata l’ombra del mio uomo, lei è una luce vivida e intensa. Una sera, mentre ammiravo il giardino affacciata al balcone, me l’ero ritrovata accanto, vibrante come sempre. “Bello il tuo uomo, dove l’hai trovato? A Milano, ne sono rimasti pochi come lui.” Avevo riso. “Ci siamo incontrati in casa di amici ai tempi dell’università; sono passati dieci anni.” Mi aveva guardato spalancando gli occhi dalle ciglia lunghissime:”Dieci anni! Io al massimo sono stata fidanzata sei mesi, figurati; non sei stufa?” Avevo scosso la testa ridendo. “Che cosa fai nella vita? Lavori?” “No, sono una casalinga; mi sono laureata in lettere moderne e pensavo di insegnare; ma Marco mi assorbe completamente e così … leggo molto, però.” Lei mi aveva guardato in uno strano modo e io mi ero sentita un animaletto preistorico. Più tardi, in macchina, Marco aveva tessuto le lodi di Rebecca, questo il suo nome.
“Che donna! Ha delle mani d’oro, non ho mai mangiato così bene. È divertente e poi lavora in un settore molto difficile. Ha arredato il suo appartamento senza architetto; ha un gusto fantastico, un senso del colore …”
“Sì, ha buon gusto ma l’azzurro dei divani non c’entra nulla con il verde pino delle pareti. E quanto al cibo, non mi sembrava così meraviglioso, era un soufflé e basta. Se penso alle torte salate, alle focacce e alle tartine che preparo con le mie mani! Mi sorprende la tua reazione.”
“Sei gelosa e basta.”
“Sarà. È un bel tipo, ma non mi sembra così meravigliosa. Non ti sembra di esagerare?”
Aveva scrollato le spalle. Con una stretta allo stomaco, avevo realizzato che vivevamo come due estranei da mesi. In quel periodo, avevo colto degli indizi che mi ero sforzata di ignorare; non mi cercava più nel letto, non mi telefonava per dirmi che cosa voleva mangiare la sera. Quando glielo avevo chiesto, mi aveva risposto che non aveva importanza, di cucinare quello che volevo. Era distante, indifferente. Spesso tornava alle due del mattino e litigavamo ferocemente; lo accusavo di tradirmi, mi rispondeva che ero pazza, che aveva avuto una cena di lavoro. Poi ieri mattina ha detto:
“E’ finita, mi dispiace. Succede a volte, tu sei perfetta, il torto è mio. Sono troppo impegnato con il mio lavoro, non ho tempo da dedicarti; ti voglio bene come a un’amica.”
“Hai un’altra.”
“No. Vado a vivere in quell’appartamento che i miei hanno in Corso Buenos Aires, è piccolo e brutto, ma per ora andrà benissimo.”
L’ho scongiurato di restare con me, ho giurato che non gli avrei dato fastidio, ho pianto, gridato, l’ho insultato, gli ho chiesto perdono. Se ne è andato.
Mi verso l’ultimo bicchiere di vino e lo bevo. Barcollo un po’. Mi butto sul letto e mi addormento di colpo.
Piove. Una pioggia fortissima, fredda inonda la città senza mai smettere. Ho un mal di testa feroce e rimango sdraiata sul letto per ore. Perché dovrei alzarmi? Sono sola, non devo cucinare, fare la spesa, tenermi in forma. Non mi aspetto nulla dalla vita. Ho trenta anni e sono morta. Ricordo un libro che avevo letto, “Una donna spezzata”; raccontava la crisi di una donna come me, lasciata dal suo compagno; aveva superato il dolore con l’aiuto dell’amica psicologa, ma non era più stata la stessa. Una voce dentro di me dice: ma aveva quaranta anni forse cinquanta, io ne ho trenta. E allora? Che differenza c’è? Suona il telefono. È la moglie di un collega di Marco.
“Ho saputo quello che è successo e mi è dispiaciuto molto. So quanto amavi Marco; stai tranquilla, tornerà. Certo non subito, deve avere il tempo di vivere le sue esperienze per rendersi conto di quello che ha perso. E tu che cosa fai?”
“Niente, che cosa devo fare? Sono sola, non lavoro, non ho amicizie e non ho voglia di niente. Grazie per la telefonata, sto bene.”
Riattacco. Riferirà a suo marito e a Marco quello che ho detto? Il telefono squilla. È ancora lei. La visualizzo: piccola, castana, occhiali da vista rossi, sguardo diretto, naso importante.
“Senti, lo so come ci si sente, è capitato anche a me; per me, anzi, è stato peggio: mio marito è uscito per andare in ufficio e non è più tornato. Travolto da un pirata della strada, è morto sul colpo. Mi hanno ricoverato per farmi le flebo perché non mangiavo più.”
“Mi dispiace.” Un brivido mi percorre e mi fa tremare.
“Perciò ti capisco. Ma il tuo uomo è vivo e vegeto. Che cosa farai quando tornerà? Ti fari trovare sporca, grassa e depressa?”
“Perché dovrebbe tornare?”
“Perché no? Potrebbe essere, anzi è probabile; dopo dieci anni felici, ha avuto una sbandata. Non so chi sia l’altra …”
“Rebecca.”
“Chi?! Oh, poveretto! Rebecca sa fare solo il soufflé con le verdure, parla sempre delle stesse cose, i suoi soli interessi sono i vestiti, i gioielli e gli uomini, in quest’ordine. Quando non lavora, è dal parrucchiere o nei negozi; quando lavora, è insopportabile perché è isterica. Anche perché mangia pochissimo. Perché non ci vediamo?”
Mi trascino in bagno e faccio una doccia. Lavo i capelli, mi guardo allo specchio: ho un riflesso grigio sulla faccia, un brufolo sul mento, gli occhi spenti. Mi pettino, indosso dei jeans e un golf, metto il piumino. Dimenticavo gli occhiali scuri. Mi guardo allo specchio e, per associazione di idee, penso alla poesia di Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Cerco di sorridere, è peggio, mi viene una smorfia. Scendo e la vedo, piccolina, con un paltò, gli occhiali, un sorriso. Mi abbraccia. Andiamo in un bar. Le racconto tutto e piango.
“Quindi, eri felice di essere un’ombra. Un uomo si stanca di una donna così; gli uomini rispettano le donne esigenti, che si fanno valere. Guardati intorno: come sono le compagne di amici e conoscenti?”
Ricordo quante volte gli amici hanno detto a Marco quanto era fortunato ad avere una compagna così dolce, arrendevole, disponibile. Le mie qualità sono in realtà i miei difetti?
“Vedi, io sono mediocre. Non ho inclinazioni, anche a scuola avevo dei voti medi. Marco ha una personalità molto forte e allora…”
“E allora, ti sei appoggiata a lui come se fosse stato un sasso. E la tua immensa pigrizia ha trionfato.”
“Pigra? Non sai che cosa ho sempre fatto: palestra, pranzi e cene …” e parlo di tutto quanto ho fatto durante la mia lunga convivenza.
Torno a casa stravolta. Mi butto sul letto e guardo il soffitto finché non mi addormento.
La mia nuova amica mi telefona tutti i giorni e ogni tanto ci vediamo. Le ore passano lente e piove sempre; il mio umore è condizionato dal tempo e non è giusto che continui a piovere, diventerò pazza. Un giorno, mi apposto vicino alla nuova casa di Marco; lo vedo rientrare, o meglio vedo il suo impermeabile, l’ombrello e, per un breve momento, il suo viso quando chiude l’ombrello; è sereno e penso che se avessi un petardo glielo tirerei volentieri. Dopo un’ora esce. Lo seguo. Cammina spedito lungo Corso Buenos Aires, poi lungo Corso Venezia ed entra in un piccolo bar; dentro lo aspetta Rebecca. Lui si abbassa per baciarla, lei sporge il viso verso di lui con un sorriso. Indossa una camicia deliziosa che le lascia scoperte le braccia che sono sottilissime, piene di vene azzurrine. Siedono a un tavolino; lui ordina e dopo qualche minuto, un cameriere porta due panini e un’insalata. Rebecca racconta qualcosa e Marco ride. Come li odio! Sono felici quanto io sono disperata. Voglio vendicarmi. Ma come? Buco le gomme della macchina come nei film? Gli faccio una scenata davanti a tutti? Gli rovescio il contenuto del bicchiere che ha davanti sulla testa? Lo faccio. Entro decisa, afferro il bicchiere e butto il contenuto sulla faccia stralunata di Marco mentre Rebecca urla isterica: “E’ pazza, fermatela!”; le rovescio l’acqua sulla bellissima camicetta, è di seta, può buttarla via adesso. Me ne vado, sento che qualche avventore comincia a ridere.
Cammino sotto la pioggia, placata. Gli ho rovinato la giornata, sono contenta. Il cellulare suona; la voce di Marco è di ghiaccio:
“Non farlo più. Sono stato chiaro?” Lo ripete finché non gli rispondo. Torno a casa, telefono alla mia amica e le racconto tutto. Ride.
È passata una settimana. Ho perso due chili e le mie illusioni, ho buttato via fotografie di Marco o di noi due insieme e tutto quanto me lo può ricordare. Adesso, si pone il problema di guadagnare il necessario per fare la spesa e pagare le spese condominiali; appiccico sulla vetrina dei negozi foglietti in cui mi offro come baby sitter; ma la crisi ha indotto i genitori ad affidare la prole ai nonni. Mi offro per dare ripetizioni di greco e latino, come segretaria, ma senza risultato. Infine, grazie alla mia amica, trovo un posto come cameriera in un bar. Terribile, ma vero, meno male che i miei genitori non ci sono più: laureata diventa cameriera. Comunque, il posto è carino, si trova in Corso Magenta e quindi lontano dal centro e da Marco e Rebecca; i clienti sono educati, molto snob, il proprietario è burbero e il mio collega odioso; è un ragazzo di venticinque anni, si chiama Casimiro, ha i capelli a spazzola biondi e una serie di bracciali di metallo sul braccio. So che mi chiama lumaca e mi deride; lo ignoro quanto posso. Un giorno, vedo arrivare una coppia che mi sembra famigliare; avvampo, li conosco, li frequentavo con Marco. Che cosa faccio? Mi chiudo in bagno? Ma Casimiro mi guarda beffardo e si prepara a divertirsi.
“Che ti succede? Un colpo di fulmine? O il colpo della strega?”
Esco con il vassoio e cerco di restare calma. Mi dirigo verso un tavolino occupato da un uomo che sta leggendo il giornale. Ascolto l’ordinazione sperando che il mio esimio collega si sia avvicinato alla coppia; poi lo guardo e vedo che è fermo al bancone e mi guarda sorridendo. Allora, mi accosto al tavolino e con aria molto professionale ascolto la loro ordinazione. Mentre mi allontano, sento la donna bisbigliare: “Mi sembra un viso noto.” Quando torno al tavolino, con il vassoio pieno di tazze, tazzine e bicchieri d’acqua, mi ringraziano senza guardarmi. Capisco che mi hanno riconosciuto e decido di affrontare la situazione.
“Sono contenta di vedervi; il mio ruolo non è cambiato, prima lavoravo in casa e adesso al bar.”
“Abbiamo saputo quello che è successo, Marco è stato proprio stupido; adesso è solo, disperato. E tu? Come stai?”
“Sto bene. Mi sono sentita meglio quando ho rovesciato un bicchiere di vino sulla testa di Marco.” Ridono quando racconto l’episodio.
“Certo che è un tipo strano. Sempre azzimato, impettito; dà l’idea di vivere per l’apparenza. Ha frequentato qualche mese un’anoressica isterica che lo prendeva a sberle davanti a tutti; ne parlava con ammirazione perché è una designer ed è ricca sfondata, con conoscenze altolocate ”
Infine, ci salutiamo, promettono di tornare; il proprietario del bar è contento che i miei amici diventino nuovi clienti e Casimiro mastica uno stuzzicadenti guardando altrove. E Marco è solo e disperato! È proprio una bella giornata.
Passano i mesi. Il ragazzo che si occupa di preparare i panini dà le dimissioni e io chiedo al titolare se posso sostituirlo. Cucinare è sempre stata la mia passione, l’unica mia attitudine; lui acconsente e mi mette alla prova. Preparo panini piccoli e grandi, al latte, alle noci, focaccine e stuzzichini, polpettine di frutta secca, paprika e formaggio, torte salate e dolci; preparo la maionese e la crema pasticcera, decoro i miei capolavori con spezie e frutta, marzapane e panna montata. I clienti si moltiplicano, il mio stipendio raddoppia, sono contenta di me stessa.
Passano gli anni. Adesso, sono socia del bar in cui lavoro e sono piena di ammiratori e non solo per le mie capacità culinarie. Marco viene spesso a mangiare e mi ha chiesto di sposarlo; ma non posso più essere un’ombra, sono troppo abituata a brillare; la città è piena di luci e di promesse e chiuderle fuori sarebbe impossibile.