Autore Topic: La partitella  (Letto 884 volte)

otrebla

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La partitella
« il: Maggio 01, 2011, 09:50:09 »
Glielo avevo detto poco prima di andarci più piano. Doveva avere una leggera forma asmatica perché passandogli accanto, ogni volta, sentivo un respiro affannato, difficoltoso, ma non era simpatico e questo teneva lontano il pericolo di una pur vaga preoccupazione dettata dall’affetto o solo dall’amicizia.

La palla era stata calciata verso di me con una parabola molto alta e mentre si abbassava passò davanti al sole. Sentii i suoi passi pesanti, da dietro e quel suo inconfondibile ansimare.

A dire il vero, ebbi in un attimo la sensazione che mi stesse capitando qualcosa di doloroso e che il sole ci mettesse del suo, inframmettendosi tra me ed il pallone.

Chiusi gli occhi quasi completamente, un po’ per il bagliore, un po’ per attutire il colpo.

Arrivò puntuale. Un calcione, con la punta di quel piedone scoordinato, lasciato partire da quel bisonte che quanto si presentava al campetto, metteva inquietudine.

Un urlo, un’imprecazione masticata in chissà quale lingua ed il lasciarsi cadere ai bordi del campo cercando di capire quanto sarebbe durata quella fitta fortissima.

Nessuno si preoccupò più di tanto. La partita continuava sui livelli goliardici, cialtroneschi, così com’era stata impostata.

Il campetto dietro la chiesa, d’altronde, raccoglieva tutti per partitelle verso sera; chi perché così fan tutti, panettieri a fine lavoro, promesse del calcio ufficialmente impegnati, con una gran passione, tanto da rincorrere una palla assieme a chi avrebbe potuto compromettergli le chimere di carriera,  bravi ragazzi o ribelli in potenza, tutti insomma, purchè non al di sotto dei dodici e non sopra i sedici anni.
 
Mi trascinai per un paio di metri, appena fuori dal campo per non essere travolto, premendomi forte una mano sul tendine dolorante, con una smorfia che solo per dignità non lasciava spazio al pianto.

L’erba fresca mi dava sollievo sulla schiena sudata e cominciavo a sentire il dolore diminuire d’intensità.

Immobile, supino, per evitare gli intriganti raggi del sole, girai il capo il capo da un lato, chiusi gli occhi completamente per ascoltare più concentrato quel dolore che si stava attenuando, poi li riaprii.

Mi misi sui gomiti per alzarmi, per tornare a casa, poi mi lasciai nuovamente andare, coccolato da un nuovo improvviso benessere.

Con gli occhi spalancati, sentivo il vociare, gli insulti, le incitazioni dei miei occasionali compagni di gioco, sempre più attutite, sempre più lontane, pur essendo le distanze inalterate.

Non c’era vento, eppure le nuvole bianche nel cielo si muovevano grandi, lentamente, ma si muovevano. Pensai che lassù l’aria, più rarefatta, doveva avere più consistenza per spostare quelle masse, disseminate qua e la in quel cielo azzurro, facendo loro cambiare forma in continuazione.

Mi soffermai su una di loro; con un po’ d’immaginazione poteva essere un cavallo. Sorrisi, poi diventai subito serio perché non avevo più bisogno dell’immaginario. Quasi il mio pensiero avesse dato forza per plasmare quel soggetto, la nuvola prese proprio la forma di un cavallo, distintamente.

La sagoma slanciata, snella, potente ed elegante al tempo stesso, mi affascinò, mi rapì e mi porto lontano, indietro nel tempo, a quell’attimo di terrore che, se anche dell’infanzia ci si porta sicuramente fino al crepuscolo.

Forse non avevo compiuto cinque anni e non so perché fossimo tornati in quel paese della Bassa Mantovana, dov’ero nato e portato poi a vivere in città, a Mantova, quando ne avevo tre.

Contadini, gente povera e rozza erano il contesto del paesino, Bonizzo, che mi ha dato i natali, ma altrettanto schietta, gente semplice, lavoratori con i tratti profondamente segnati dalla fatica e l’espressione di stupore al sentir raccontare delle cose di città.

La famiglia, la mia famiglia, risiedeva in una corte recintata da solide mura che raccoglieva tutto ciò che si può stimare in una casa rurale. L’aia ampia, la stalla, il portico per gli attrezzi, gli animali, la legnaia, le cantine e quant’altro, ma ciò che più contava era la considerazione dei compaesani. Dal nonno di mio nonno, più in la non so, i capi famiglia li ho sempre sentiti descrivere con i termini del rispetto, in virtù della morale e della giustizia.

Poco prima che nascessi, mio nonno e i suoi fratelli, che rappresentavano la famiglia con un gruppo di trentadue persone, si divisero ed in quella grande corte abitarono solo i miei nonni con i loro quattro figli.

Dal sentito dire, all’aver toccato con mano, francamente, mi ha sempre fatto pensare che la considerazione dei paesani non sia venuta a meno, ma che tutto sommato di normale rispetto si trattasse.

E’ un ricordo chiaro ma, onestamente, sono un po’ confuso nell’attribuire al ricordo stesso l’immagine, l’emozione provata, i suoni sentiti, mischiati ai dettagli del racconto tante volte sentito di quegli attimi miracolati.

Saranno state le sei di sera. Una sera d’estate come tante altre, in cui alcuni contadini attraversavano l’aia per portare, in pesanti barili di metallo, il latte appena munto al caseificio attiguo alla corte.

Potevo stare sull’aia, non c’era pericolo. Chi portava il latte, lo faceva con biciclette arrugginite che trainavano dei ridicoli carriolini sui quali erano caricati i bidoni..  Di automobili neanche l’ombra e se, raramente, fosse arrivata una motocicletta, avrebbe anzitempo turbato solo quanto si dicevano gli uccelli, le galline, i grilli e di tanto in tanto una mucca o un cane.

Dall’Afghanistan, per le tristi vicende di guerra, arrivano oggi dei servizi televisivi che mostrano atroci sequenze di soldati e di povera gente e vedendo quei bambini, vestiti da non supporre ricambi per la domenica, mi fa pensare che dovevo essere conciato pressappoco così.

Per l’età che avevo, non lo posso ricordare, ma alcune rare, sbiadite fotografie, me lo confermano. Ancora di più, il racconto più volte sentito nel descrivere le miserie di allora, della merenda fatta con la Ida, quando ero ancora più piccolo.

Seduto per terra, con la schiena appoggiata al cavallo di un paio di braghe sdrucite e bisunte, che erano diventate indignitose anche per la stalla o la concimazione, imbottite di paglia.

Ero al sicuro. Pur perdendo l’equilibrio, la paglia mi salvaguardava da traumi facciali.

La Ida accanto, seduta su uno scannetto, faceva merenda a sua volta, intingendo del pane con la mano tremante, molto tremante, in una scodella quasi colma di vino annacquato e molto zuccherato.

Ne inghiottiva un po’, con la bocca completamente sdentata e un po’ ne dava a me;
in bocca con una buona percentuale, il resto, per la mano malferma, sulle guance, nelle narici con gocce sparse a scendere lungo il collo.

Si era sull’uscio della cucina ed era una gran festa…..per le mosche. Appiccicate al viso, non le mangiavo solo grazie ai loro riflessi pronti nel muoversi prima di essere inghiottite. Grazie a Dio, non ho mai avuto malattie serie, forse dovuto alla gran quantità di anticorpi sviluppati in questi frangenti.

Tutto andava bene. Ognuno poteva occuparsi delle proprie faccende, senza preoccuparsi del bambino. C’era la Ida, mia grande protettrice.

Me la ricordo bene la Ida, come non potrei. All’epoca, si diceva, poteva avere circa ottant’anni, ma dall’aspetto, potevano essere ben più di cento.

Vagava da sola per la campagna, molti anni prima, quando la trovarono. Sordomuta, esile e dimessa, impaurita e incapace di spiegare alcunché.

Venne adottata dai Superbi, gente orgogliosa, puntigliosa al limite dello scontro, ma con un cuore. Tra tanti, una bocca in più da sfamare non avrebbe compromesso l’esistenza di nessuno.

Così fu. Presenza silenziosa e buona, non si chiese mai la sua opinione, su nulla, ma per qualsiasi cambiamento ipotizzabile, la Ida era un punto fermo, rispettabile.

Se ne andò quando avevo circa vent’anni. Non ci furono pianti, ma un comune senso di dispiacere per chi aveva convissuto per tanti anni tra le righe del tacito affetto, senza l’intrigo dei legami di parentela.


Mia madre, seduta su una sedia impagliata sull’uscio della “sala”, (il soggiorno, che dava sull’aia, lo chiamavano così) forse cuciva in quel momento o forse sbucciava “la ruvia”, necessaria al minestrone frequente.

Io, la sua vita, ero lì, al centro dell’aia a non più di dieci metri da lei, senza rischi, se non quello di calpestare escrementi di gallina o di pungermi con qualche pezzo di filo di ferro arrugginito.

In lontananza, sempre più distintamente si sentiva il rumore delle ruote di legno del carro colmo di fieno trainato dalla Gina, cavalla di casa della quale si decantavano le virtù di lavoratrice e di obbedienza.

Ciro, il mio nonno paterno, il Capo, seduto su una parte minuscola del bordo del carro, teneva le redini col piglio del generale, con l’aria sicuramente stanca ma, con la luce delle pupille accese che foravano l’ombra della falda del cappello. Sì, era un Capo nato.

Nessuno dei figli ad aiutarlo. Clio, mio padre, da tempo aveva abbandonato la campagna, trascinando me e mia madre altrove, senza odori di stalla, di arsure padane e senza mani callose a stringersi tra di loro.

Lidio e Angelo che poi vi rimase, erano ancora nella campagna. Sarebbero arrivati da lì a poco.

Pia, la femmina dei quattro figli,  sposato Osvaldo, allora brigadiere dei Carabinieri, se n’era andata già da un po’.

Con quotidiano rituale Ciro, si apprestava a togliere con calma i bardamenti alla Gina. Nonna Zelinda, il vero perno della famiglia, uscendo dalla porta della cucina, attraversò la corte, avvicinandosi a mio nonno, forse per chiedergli di fare qualche altra piccola cosa di poco conto, ma utile per la casa. Così si faceva.

Tutto in un attimo. Un frastuono di terreno frustato da un grande peso, l’urlo all’unisono, strozzato dei miei nonni. Ero di spalle, mi giro e in una nuvola di polvere vedo Ciro e Zelinda scostarsi di scatto dal nitrito impazzito di Gina.

Folle, incontrollabile, Gina scalcia, trancia di netto l’ultima cinghia che la teneva legata al carro e con un sinistro sferragliare di catene, nitrisce in modo agghiacciante e impazzita salta per qualche secondo sulle quattro zampe.

Poi parte, prima disordinatamente, a zig zag, quindi verso una direzione precisa: la mia.

La mia bocca è spalancata, così come i miei occhi e, impietrito, osservo immobile questa montagna di muscoli che mi si avvicina veloce e percorrerà i trenta metri che ci separano in qualche istante.

Dapprima scuote la testa come la volesse staccare dal resto del corpo, poi fatto qualche balzo durante il quale urta e distrugge una struttura di legno con le foglie di tabacco ad essiccare, non è più scoordinata. Mi fissa e vola verso di me, mentre i nostri sguardi si incrociano.

Da quel momento, il ricordo cambia velocità. Tutto è più lento, quasi pacato.

La sequenza delle immagini fatte scorrere così piano, ha un sottofondo sonoro:l’urlo lacerante di mia madre. “Albeeeertoooooooo, noooooooooooooo”.

Non ho chiuso gli occhi, volevo vedere, volevo capire.

Non mi scansò, mi saltò.

Quell’animale così grosso, così grande, avvezzo al traino e non certo ad esibizioni equestri, a due metri da me spiccò un salto, con la leggerezza di un destriero.

Sopra la mia testa, sfiorandomi, passò una cosa enorme, rendendo tutto inverosimile, come inverosimile fu il gesto di pazzia della Gina. Chissà……

Terminato lo spostamento d’aria determinato dal cavallo, che nel frattempo si era fermato in un angolo dell’aia, due braccia forti mi presero e mi sollevarono.

Mia madre. Piangeva e rideva. Rideva e piangeva. Io non piansi per lo spavento. Certo non mi rendevo conto ma, più verosimilmente quando si è in due a dover piangere per lo stesso motivo, uno solo lo fa, l’altro se pur distrutto, assume la parte protettrice.

Siccome ero in piedi, siccome non era possibile che un cavallo di quella stazza mi potesse saltare, siccome era successo che in una simile circostanza, anni prima, in successione, due bimbi furono uccisi, si parlò di miracolo.

Se ne parlò nel giro di poche ore, tanto che alcune comari vennero in visita; chi per avere spiegazioni, chi per avere maggiori dettagli, chi per bere un caffè.

Successo di giovedì, per la domenica si organizzò una grande festa sull’aia che battezzarono “la festa dal putìn”.

Riuscì tanto bene, che si decise di farla tutti gli anni, se non alla stessa data, nello stesso periodo e di domenica; come la Pasqua.

Col passare degli anni, parte della gente dimenticò, o non conobbe il vero perché della festa, conoscendone però il titolo, gli venne facile pensare che per “la festa dal putìn”, si intendesse festeggiare il Bambin Gesù.

Lì, entrava in scena a tutto campo mio nonno Ciro, organizzatore senza pari, specializzato in processioni, funerali e feste dei Combattenti. A Bonizzo non succedeva nient’altro.

I lampioncini di carta colorata con la candela dentro, (mi son sempre chiesto come mai non prendessero fuoco) erano disseminati su tutto il perimetro della corte, sui muri di cinta qua e là, in due file parallele a disegnare l’ingresso dal portone principale e un po’ per terra, in modo disordinato. L’effetto era incantevole.

Sull’aia, sorretti da pali precari, i fili della corrente, sopra le teste, con lampadine bianche ad illuminare il centro della festa. Sui tavolacci, su cavalletti, le bianche tovaglie ad esaltare l’ogni ben di Dio preparato dalle donne, che nei tre giorni precedenti avevano dormito meno del solito, affinché la soddisfazione passasse attraverso una maratona culinaria.

La tagliatella, la margherita e lo “sfrigolà, (la sbrisolona) erano i dolci proposti, poi, il formaggio grana e salame, tanto salame, con cestini di cornetti di pane ferrarese e qualche mazzolin di fiori ad ingentilire il tutto.

L’acqua del pozzo ed il vino fresco di cantina. Non freddo di frigorifero, ma nessuno se ne lamentava. Non era ancora stato inventato.

Angelo e Lidio, avevano preparato, con malcelate diatribe, la pedana per l’orchestra. Alta una trentina di centimetri, le assi scricchiolavano un po’, ma anche questo era in tema.

Durante i preparativi, l’ospite d’onore veniva un po’ bistrattato: gli si diceva in continuazione di stare più in là e di stare fermo e di non toccare e che si sarebbe fatto male. Infatti ero sempre tra i piedi, tutto a toccare e spostare ciò che era già preparato.

Già, l’orchestra. Clio, l’orchestra.

Mio padre, per quel frangente dell’evento, serviva e credo sia stato uno dei rari casi in cui lo si tenesse in considerazione, non per la scarsa personalità, ma per il suo modo di vedere il mondo, che con le solide cose contadine aveva ben poco da spartire.

La batteria, l’orchestra, il successo, la notorietà, gli abiti eleganti, si scontrano come il diavolo e l’acqua santa con le sveglie delle cinque del mattino, il togliere il cappello per asciugare il sudore della fronte con l’avambraccio, il tendere l’orecchio al campanile per posare l’attrezzo ai dodici tocchi ed avere le unghie incorniciare di nero, quasi come un marchio.

Lui aveva scelto e sposato la cocciutaggine con la disperazione degli “stesso sangue”.

Il colpo d’occhio era straordinario. Il sole si era assopito e le persone arrivavano, di tutte le età, di un solo ceto.

Quelli dei casolari vicini si portavano le sedie, che a partire dai due lati del palco, sistemavano in semicerchio. Chi abitava un po’ più in là, appoggiava le biciclette tutt’intorno al vecchio fico, mentre i due con la motocicletta, oltrepassato il portone d’ingresso arrivavano sino ai bordi dell’aia, abbozzando una smorfia soddisfatta, per poi tornare indietro ed appoggiare il mezzo un poco più lontano, ma che si potesse vedere.

Non c’era un tema da seguire nella festa, se non il complice , silenzioso, reciproco messaggio di star bene assieme, di pausa nelle fatiche, di abbandono, nei limiti.

I bambini arrivavano accompagnati dalle raccomandazioni delle madri e da un’aria un po’ diffidente, che svaniva non appena si formavano chiassosi piccoli gruppi scorazzanti, ad esplorare gli angoli più reconditi della corte.

Le ragazze da marito, in gruppetti, lanciavano sguardi furtivi agli orchestrali, per poi girarsi di scatto e scambiarsi commenti sottovoce accompagnati da argentine risate, quindi parlare coi ragazzotti del paese, ma con la punta del naso un po’ più verso la luna.

I vecchi, con ingialliti denti di tartaro trascurato come le loro vite, per lo più cercavano mio nonno Ciro, per sapere quale fosse la sua opinione, verosimilmente sul prossimo raccolto o su quanto sarebbe nevicato nell’inverno a venire.

Alcuni, più giovani, in gruppo, bestemmiavano per il prezzo del latte, per poi interrompersi di scatto non appena vedevano con la coda dell’occhio e andavano a prendere “quella” femmina, trascinandola sull’aia per un tango che esaltava la loro virilità.

Le spose, tra uno sguardo ai bambini che correvano e una fetta di torta biascicata, si lamentavano di come non ricordassero un luglio così caldo.

Anche le zanzare erano più buone.


Brunello

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Re: La partitella
« Risposta #1 il: Maggio 19, 2011, 14:33:23 »
L'ho letto con gli occhi incollati alle pagine, complimenti!

nihil

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Re: La partitella
« Risposta #2 il: Giugno 03, 2011, 07:15:00 »
Ti voglio bene, hai raccontato la mia infanzia, Gina a parte!  Ebbene sì, a tre anni facevo colazione anch'io, seduta sulle ginocchia di Nonno Carlo, con una tazza di vino e un poco di pane. Ma quali merendini!

victor

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Re: La partitella
« Risposta #3 il: Ottobre 06, 2011, 21:57:54 »

Vivissimi complimenti Otrebla! Anche io ho scritto le mie memorie agresti, ma le mie storie non sono nulla al confronto della tua!

Bravissimo!

Il duro impegno per l'acquisizione delle competenze, la passione e le doti personali creano eccellenza ... e distinguono il professionista dal lavoratore ... Victor