Autore Topic: La matta  (Letto 835 volte)

dorotychecorre

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La matta
« il: Ottobre 05, 2011, 16:44:59 »
Glauco


Lo aveva pregato il padrone di casa, la sera prima al telefono:
 - Albino per favore puoi dare una sistemata all’appartamento del terzo piano? Si, quello vuoto. No, l’ho solo fittato, per sei mesi, forse un anno, poi si vedrà. Arrivano fra cinque o sei  giorni, da Milano. Le chiavi ce le hai. Fammi questa gentilezza, poi passo io per ripagare  il tuo disturbo. D’accordo. Ciao.
Lo accolse l’odore di polvere. Non avrebbe saputo spiegare che odore ha la polvere, ma la riconosceva. Gli venne da pensare la polvere è l’inquilina delle case vuote.
Aveva ragione, la polvere si distende nelle assenze, è un’assenza scandita, contrappunto di aria e tempo, abbandono punteggiato dai minuscoli granelli dei pensieri, dalle attese.
Albino rimuoveva quel manto pesante come un incantesimo; liberava il pavimento, lavava i lampadari a gocce ora lucide, come foglie dopo la pioggia, rianimava qualche vecchio mobile spaiato e cadente.
Albino pulendo creava. Non aveva avuto figli,  non sono venuti diceva, come se veramente li avesse attesi sull’uscio di casa. Lustrando generava; dopo che lui aveva pulito, sembrava tutto nuovo, appena nato. Albino generava freschezza.
Quando ebbe finito si fermò un momento a guardare quella casa, ad immaginare i suoi nuovi inquilini: come potevano essere fisicamente? Di cosa avrebbero potuto avere bisogno?
Albino era un uomo gentile e a suo modo ambizioso. I suoi condomini erano persone importanti: un avvocato, un’archeologa, due dottori, un professore, insomma, gente al servizio di grandi cause. Servire loro o a loro, significava entrare a far parte di quella grandezza. Lui era un uomo che dal suo minuscolo punto di osservazione percepiva la vastità e complessità della vita: aveva uno sguardo pieno di meraviglia.
Cercava di spiegare tutto questo ad Elena, sua moglie, ma nei suoi occhi leggeva il limite, era disposta ad aiutarlo ma non ad emularlo.
Elena svolgeva i suoi compiti alacremente, allegramente, tutta la sua vita era una strada dritta come i suoi capelli lunghi raccolti nella crocchia perpetua.
Solo una volta aveva alzato la voce con la vita: per quell’aborto. Suo figlio era venuto nella sua pancia e lei si era sentita piena, da dentro, completa. Poi una notte il dolore, il sangue, tanto sangue, la corsa in ospedale, tutte quelle luci, poi più nulla. Il suo ventre al risveglio era una casa abbandonata.
Un giorno se ne andò al paese, doveva aiutare una cugina a pulire casa perché si sposava.
Arrivò presto, trovò le chiavi nella buca delle lettere come d’accordo con la parente.
Entrò. Le venne incontro una casa completamente vuota, imbiancata da poco, nemmeno un chiodo, l’orma di un quadro, un batuffolo di polvere in un angolo. Niente. Non era pulita era vuota. Elena fu sopraffatta da quel nulla. Quando si accorse che stava piangendo stava già singhiozzando, forse urlando.
Seduta a terra, con il suo bagaglio enormemente piccolo in quello spazio smisurato: la cugina la trovò così.
 Fece finta di nulla, era troppo complicato quello che vedeva in lei in quel momento.
Si salutarono e si misero a pulire.
Albino sentì una fitta alla schiena. Era stanco. Decise che poteva bastare.
Chiuse la porta e se ne tornò a casa. Il pranzo doveva già essere pronto a quell’ora.


Arrivarono il giorno dopo di buon’ora.
A quell’uomo tutti i pacchi sparsi sul pavimento fecero una strana impressione: gli sembrarono treni deragliati i cui vagoni, divelti da qualche brutale forza sconosciuta, nascondevano chissà quali inenarrabili resti. Si addentrò nel labirinto scomposto di custodie di cartone abbottonatissime, nelle loro sciarpe integrali di scotch: pudori incomprensibili di carta gommata. Sospirò, erano troppe. Venne a salvarlo l’armata Brancaleone della Ditta Traslochi. Gli sembrarono uomini primitivi con le carcasse delle loro enormi prede gettate sulle spalle. Non capiva niente di quello che a gran voce non la smettevano di urlarsi: grugniti, urla di guerra, fischi forse di segnalazione, per l’avvistamento di pericoli o di prede succulente.
Un milanese a Salerno, via Porto 106, nel giorno del suo trasloco. Era un uomo piuttosto magro, alto, che riusciva a portare con una disinvoltura ammirevole quel nome che lo sovrastava come un enorme cappello: Glauco, omaggio della mamma a Glauco Mari e alla sua delirante passione giovanile per il teatro.
Nel pomeriggio del giorno dopo aveva già appeso l’ultimo abito. L’efficienza milanese imparata e il gusto minimalista naturale del suo carattere, avevano avuto rapidamente ragione del caos primigenio del giorno prima. Le sue due stanzette più servizi erano sistemate: camera da letto, studio, accessori. Lineare e sufficiente per realizzare la sua missione in quel luogo.
Lo squillo del cellulare lo sorprese:
“Allora, ti sei sistemato?”
“Si, tu a che ora arrivi?”
“Domani mattina, 10\10.30”
“D’accordo.”
“Stai bene?”
“Credo di si. Tu?”
“Sto bene, sto bene.  A domani allora.”
“Ti aspetto.”


Riccardo era il giorno, Glauco la notte, Riccardo il proscenio, Glauco le quinte, Riccardo il fuori, Glauco il dentro di quelle loro vite simbiotiche. Il fatto che fossero fratelli e gemelli era un dettaglio che da solo non poteva spiegare tanto leale attaccamento. Era stato qualcos’altro ad instillare nelle loro anime quel sentimento da commilitoni in trincea.
Lo squillo del cellulare lo irritò, stava guardando il mare ora, non aveva mai avuto un orizzonte di acqua e scaglie di luce, aveva vissuto sempre a Milano a differenza del suo fratello vagabondo.
“Ciao nonna, come stai?”
“Sono un po’ preoccupata per voi”
“Sto bene nonna non ti preoccupare”
“Il nonno parte stasera, arriverà domattina”
“Anche Riccardo”
“Quando andrete lì?”
“Domani”
“Fammi sapere, poi.”
“Si nonna, d’accordo. Ti bacio, ciao.”
Tornò al suo nuovo orizzonte, come a riprendere un dialogo interrotto, come in attesa di qualche rivelazione. Si ricordò del motivo per cui era lì.
Sua madre era matta. Così gli gridavano a scuola quand’era piccolo:  Tu sei matto, come tua madre. Matto! Matto!
Riccardo li prendeva a calci e pugni. Lui niente, rimaneva muto, piangeva solo quando Riccardo le prendeva e lui non sapeva aiutarlo.
Il padre era morto giovanissimo, Glauco se lo ricordava appena, come una parola di un’altra lingua, poco usata, sempre un po’ estranea.
La madre matta era ricca. Ricca e matta.
Tanto matta da svegliarli nel cuore della notte e trascinarli fino all’alba per strada, per sfuggire a chissà quale spettrale creazione della sua mente. Tanto matta da lavarli di continuo, da buttare via il cibo cucinato dalla governante o le buste della spesa se per caso sfioravano il pavimento. Tanto matta. Da convincerli a non raccontare niente delle loro vite: erano vittime di un complotto, i loro nemici volevano dividerli, portargli via la loro bella casa e per fare questo non avrebbero esitato ad ucciderli. Tanto matta.
La realtà per lei era un mondo abitato da forme gelatinose, pronte alla minima pressione a cambiare forma e a rivelare le maschere grottesche dell’orrore, del disfacimento delle loro umane sembianze.
Avevano otto anni Glauco e Riccardo quando la madre fu ricoverata perchè urlava qualcosa per strada. Non la videro più.
Furono estratti dalle sue viscere un’altra volta ma vennero al mondo senza la fiducia. Erano stati addestrati a vivere in un mondo di ombre, di agguati, di nemici invisibili e potenti. Vissero con i nonni, consacratisi al compito di rimetterli al mondo.
Qualche giorno prima il nonno aveva convocato lui e il fratello e all’improvviso la madre era ritornata nelle loro vite.
Glauco guardava il mare ora e le parole del nonno gli tornavano alla mente come quelle scaglie di luce sull’acqua, una pioggerella di luci sparse:

Adesso
          Salerno
                risposata
                                lì
                                  vive

Curata
           sconsigliavano
                                 i medici
                                           d’accordo




Adesso
           vostra madre
                                 lì
                                    una casa



Prendiamo
                  pensateci
                                  lì
                                  una vacanza




Qualche mese
                     vedervi
                                chiesto
                                        vostra madre

Adesso.

Le gocce cadevano senza rumore nella sua mente, nemmeno un tonfo, nessuna resistenza, Glauco era diventato mare ora e i suoi pensieri piccoli rilievi di onde.
Dormì poco quella notte. Disteso sul suo lettino nuovo, accanto a quello vuoto del fratello, permise al passato di rientrare in scena. Si presentarono i suoi ricordi ma gli sembrò di assistere a delle prove generali: non si capiva il senso dell’opera rappresentata. La sua, le loro vite, erano precipitate nell’inesistente di una follia, non c’era una  lingua, un tempo, un’immagine, per poterlo raccontare. C’era solo un grumo che si dipanava e riattorcigliava a comando nella sua mente, senza perdere mai la sua densità oscura, completamente incapace di una rivelazione chiarificatrice.
Esausto, si riaddormentò.

Riccardo era pallido ma guidava, chiacchierava, fumava, raccontava le sue ultime mirabolanti imprese sentimentali: tutto assieme. Glauco si lasciava invadere dalla vivace presenza del fratello, completamente sedotto dai suoi gesti e dalle sue parole infilate una dietro l’altra con la disinvolta svagatezza di sempre.
Arrivarono, infine.
Nel vialetto antistante la villetta videro parcheggiata l’auto del nonno, era già lì.
Glauco e Riccardo scesero dall’auto, camminavano vicini, lentamente, le mani in tasca, in silenzio.
Erano attesi. Li accolse un uomo di media statura, bruno, con un sorriso incerto, come di chi non conosce le usanze per quell’evento. D’altra parte i due giovani uomini che si ritrovò davanti non lo incoraggiarono a continuare nella sua cordiale condotta. D’altra parte era la prima volta che quell’uomo vedeva i figli di sua moglie.
Lei era in piedi, nell’atrio subito dopo la porta, i capelli scuri raccolti a crocchia, due piccole perle bianche ai lobi, lo sguardo liquido come reso umido dal vento, il naso dritto e sottile alla fine del quale si aprivano due piccole fosse che s’intuivano morbide al tatto, e più giù, la bocca, serrata, come un uccello con le ali raccolte. In attesa.
Furono lasciati soli.

Riccardo e il nonno partirono dopo due settimane. Glauco rimase, gli piaceva quella casetta vicino al mare, vagheggiava d’acquistarla. Avrebbe pensato il nonno a sostituirlo al lavoro, era pur sempre il suo capo. Riccardo tornò ai sui progetti umanitari: destinazione Bruxelles, poi chissà.
Glauco andava spesso a trovare quella donna, sua madre, e quando tornava a casa, scriveva lettere.

“ Caro Riccardo,
è tardi ma le luci del porto prorogano all’infinito l’illusione che la notte sia remota. Sono qui, slegato da tutto quanto fino a ieri mi sembrava indispensabile: lavoro, amici, amore. Sono qui, attaccato alla vita con un unico ormeggio, una fune rimasta nascosta tra le altre in tutti questi anni, creduta smarrita per sempre e adesso unico attracco, unico sentiero capace di ricondurmi a casa. Sono sereno.
 Bonifico questo pezzo del mio cuore con nuovi ricordi, mi lascio attraversare dall’amore di questa donna ritrovata, miracolosamente, alla fine di una irreparabile tempesta.
E tu? No, non parlare se non puoi, non mi rassicurare, non mi nutrire più della tua forza. Io sono al sicuro, in pace con me stesso, grazie a te che mi hai accompagnato fin qui. Sono la tua vittoria, il tuo omaggio alla vita, come una dedica incisa sulla prima pagina di un libro bellissimo.
Abbi cura di te. Ti aspetto. Ti aspettiamo.
Con infinito affetto. Glauco”.





















Dorotychecorre

Brunello

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Re: La matta
« Risposta #1 il: Ottobre 05, 2011, 21:00:52 »
L'ho letto con piacere. L'ho trovato bello avvincente e ben scritto.

victor

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Re: La matta
« Risposta #2 il: Ottobre 05, 2011, 21:54:52 »

Brava, Doroty, complimenti!

Victor
Il duro impegno per l'acquisizione delle competenze, la passione e le doti personali creano eccellenza ... e distinguono il professionista dal lavoratore ... Victor