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Arte / Re:"Apocalisse, ieri e domani"
« il: Marzo 24, 2025, 22:02:27 »
“Apocalisse”: questa parola composta  deriva dal lemma di origine greca “ apokálypsis”: disvelamento, rivelazione. 

In ambito religioso la rivelazione è quella escatologica, che profetizza il destino ultimo dell’umanità, invece a molti evoca la catastrofe, voluta dalla divinità oppure naturale, perciò suscita paure e interrogativi, che si possono vedere rappresentati nell’arte anche  nella predetta mostra parigina, titolata “Apocalisse, ieri e domani”.

Nella prima parte della rassegna  vengono affrontati alcuni dei passi dell’Apocalisse, ricchi di simboli, metafore e allegorie che impressionano i lettori: il settimo sigillo e le sette trombe, i quattro cavalieri, la battaglia contro il dragone, la caduta di Babilonia, il giudizio universale, ecc..

Nel Medioevo  quei passi vennero utilizzati per tentare, tramite immagini, di rendere comprensibile all’incolta plebe devota il  misterioso messaggio giovanneo.

La più antica rappresentazione conosciuta  del giudizio universale è su una tavoletta d’avorio dell’VIII secolo.

Nel percorso espositivo ci sono circa 300 opere, comincia con un codice miniato del IX secolo, l’Apocalypse de Valenciennes, poi le belle miniature del “Beatus di Saint-Sever” dell’XI secolo; dello stesso periodo alcuni manoscritti.

E’ esposto un frammento del XIV secolo del cosiddetto “Arazzo dell’Apocalisse” che comprende  un ciclo di arazzi, commissionato fra il 1373 e il 1377 per il duca Luigi d’Angiò.


 Il ciclo dell’Apocalisse
 
L'arazzo fu collocato nell'arcivescovado di Arles all’inizio del XV secolo e, dal 1474 in seguito alla donazione fatta da  Renato d’Angiò, nella cattedrale di Saint-Maurice d'Angers.

Durante la Rivoluzione francese l'arazzo fu fatto a pezzi per realizzare coperte, stuoini, riparazioni domestiche: scomparso nel 1782, fu recuperato nel 1848 e restaurato fino al  1870,  dopodiché l'opera venne restituita alla cattedrale, ma non adatta  per la conservazione dell'arazzo, perciò questo venne trasferito nel vicino castello di Angers  in una sala le cui dimensioni permettono di ammirare l'opera,  composta inizialmente di sette pezzi per un totale di 140 m, ne sono giunti a noi solamente sei, lunghi ciascuno 23 m. Misura complessivamente 103 m di lunghezza per 6,1 m di altezza. Era composto da 90 scene, ne sono rimaste 71.
   

La cosiddetta  “fine del mondo”  è stata ispirazione per molti artisti, ed hanno creato alcune delle opere più belle della storia dell’arte: da Albrecht Dürer a Brassaï, passando per l’Espressionismo tedesco, William Blake, Vassilji Kandinskji, Anne Imhof e Kiki Smith.

Albrecht Dürer  all’inizio del XVI secolo fece 15 xilografie dedicate all’Apocalisse, che contribuirono a definire e strutturare l’immaginario occidentale sul tema.
Infatti le iconografie nate dalla fantasia dell’artista tedesco sono ancora diffuse, giunte fino a noi anche tramite vari film.

Gli artisti degli ultimi tre secoli sono nella seconda parte della mostra,  titolata “Il tempo delle catastrofi, che documenta la tematica apocalittica

Sono esposte le  tavole dei «Disastri della guerra» di Francisco Goya,  le opere di Vassillij Kandinskij, Odilon Redon, Ludwig Meidner, Natalia Gontcharova,  Judit Reigl, Otto Dix, Antonin Artaud, Unica Zürn, Tacita Dean con il suo struggente “The book end of  time”.

Sul tema del «Giorno dopo» è esposto «Infinito» di Luciano Fabro (1989), «Earth» di Kiki Smith (2012) e lavori di Miriam Cahn e Otobong Nkanga.

L’esposizione parigina dedicata alla “Apocalisse, ieri e domani”  prova a dare la dimensione più profonda del testo di Giovanni, la rivelazione della fine del mondo come passaggio verso una nuova era, come è scritto nell’incipit del XXI capitolo: “[COLOR="#FF0000"]E vidi un cielo nuovo e una terra nuova”[/COLOR]. Questo annuncio biblico è una sorta di viatico che accompagna il visitatore dell’esposizione verso l’uscita con l’inestinguibile bisogno di speranza.


Scuola fiamminga, “Retablo (= pala d’altare) con Giudizio Universale”, fine del XV secolo, Parigi, Musée des Arts décoratifs

the end

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Arte / "Apocalisse, ieri e domani"
« il: Marzo 24, 2025, 18:50:40 »
A Parigi fino all’8 giugno,  nella Bibliothèque nationale de France, c’è la mostra denominata “Apocalisse, ieri e domani”.
 
In questa rassegna  tematica ci sono dipinti, sculture, arazzi,  vengono proiettati anche vecchi film sull’Apocalisse, testo  attribuito all’evangelista  Giovanni e  ultimo libro dell’Antico Testamento.

Fra i vari dipinti, c’è questo dedicato alla guerra, lo realizzò Henri Rousseau, detto “il doganiere”.


Henri Rousseau, La Guerre Vers, olio su tela, 1894, Musée d’Orsay, Parigi.

L’artista lo dipinse dopo  oltre vent’anni dalla fine del conflitto franco-prussiano del 1870, nel quale l’artista partecipò.

Quest’opera  allegorica vuole esprimere il rifiuto di ogni forma di violenza (compresa l’apocalisse divina :D).

Al centro  della tela è raffigurata  una donna  selvaggia e armata, ha il viso contratto in una smorfia,  indossa un abito bianco; mentre galoppa sorregge una fiaccola nella mano sinistra e una spada in quella destra.

Sembra una dea della guerra che cavalca un cavallo nero col pelo irto, somigliante ad un mostro ibrido; l’animale rappresenta la forza bruta della guerra.

Nella parte inferiore del dipinto sono rappresentati gli effetti della guerra: gli alberi bruciati, i rami spezzati,  sul campo di battaglia ci sono feriti e cadaveri, preda di corvi voraci. E’ un panorama desolante.

L’artista ha messo in scena il dramma con la scelta dei colori dominanti: il nero, il grigio e il rosso: scelse il colore rosa per le nuvole e l’azzurro per il cielo per attenuare  la drammaticità, non c’è  il verde, colore simbolo della speranza.

Henri Rousseau era un pacifista. Per il catalogo del “Salone degli Indipendenti”, in cui questa tela fu esposta, il pittore scrisse questo commento: “La guerra passa spaventosa, lasciando dappertutto la disperazione, i pianti e la rovina”.

Come contrasto propongo alla vostra visione questo bel  dipinto dello stesso pittore (ovviamente non esposto nella mostra parigina):  mi fa pensare ad una gita domenicale della famiglia sul calesse.



Henri Rousseau, La carriole du père Junier (il calesse di papà Junier), olio su tela, 1908, Musée de l’Orangerie, Parigi

L'uomo che tiene le redini è Claude Junier con la famiglia: la moglie Anna, una nipote e la figlia di quest'ultima, più i suoi animali (tre cani, la cavalla di nome Rosa). L'altro uomo, che porta in testa il cappello di paglia, è lo stesso Rousseau.

Il gruppo dei personaggi è immobile e silenzioso come in una posa fotografica, sullo sfondo il paesaggio: un viale stranamente deserto.

segue

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Letteratura che passione / L'animale uomo
« il: Marzo 23, 2025, 12:12:46 »


 
Guardo questa foto e penso al saggio dell’etologo e zoologo inglese Desmond Morris “ La scimmia nuda – Studio zoologico sull’animale uomo”, titolo originale “The Naked Ape”, pubblicato nel 1967, in lingua italiana nel 1968. 

La tesi principale del libro è che la pelle sia l’organo che distingue di più gli esseri umani dagli altri primati. La relativa assenza di peli (esclusa la testa, le ascelle, il petto maschile e la zona inguinale)  è legata, secondo l’autore, alla necessità del contatto fisico tra la madre  e il suo  bambino.

Non sono d’accordo con quanto scrisse Morris, perché nei filmati sul mondo animale si vedono gli abbracci tra madri e figli.
 
Il biologo e naturalista Charles Robert Darwin, celebre per aver formulato la teoria dell’evoluzione delle specie vegetali e animali per selezione naturale, pubblicata nel 1859 nel suo libro titolato “L’origine delle specie”, afferma che la selezione naturale  agisce sulla variabilità dei caratteri ereditari e della loro diversificazione  e moltiplicazione per discendenza da un antenato comune.

Torno a Desmond Morris. E’ ancora vivente: ha 97 anni, ed ha riscritto per i bambini una versione del suo noto libro. L’ha titolato “La scimmietta nuda. Breve storia degli animali” edito da Bompiani.

Il libro aiuta a capire da dove veniamo e cosa siamo.  Morris dice che “Se comprendiamo la nostra natura biologica, allora abbiamo gli strumenti per affrontare la vita. Siamo ancora influenzati dai nostri antichi impulsi animali, e li ignoriamo a nostro rischio e pericolo. Abbiamo trascorso un milione di anni evolvendoci come animali tribali e siamo ancora tribali oggi, anche se viviamo in grandi città. Oggi la tua tribù è nella tua rubrica telefonica, ma il significato resta lo stesso”.

Ed ancora: “Uno dei vantaggi di passare  il tempo al cellulare o al computer è che si evitano gravidanze indesiderate ! Lo svantaggio è che si perde il contatto con le gioie del cinema, della tv, dei libri, delle riviste e dei giornali,. E il divertimento di stare con altre persone…”.


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Arte / Re:Art Dèco
« il: Marzo 17, 2025, 17:51:50 »
I mitici "roaring twenties", i ruggenti anni ’20, furono caratterizzati dall’espansione industriale, il successo della musica jazz, dell'art dèco e le suffragette che chiedevano il diritto al voto delle donne. Volevano più libertà. Il loro desiderio di indipendenza lo manifestarono indossando abiti più corti, il trucco per il viso più marcato. Cominciò il periodo delle “flapper girls”.

A Milano, nella mostra dedicata all’art dèco sono esposti alcuni abiti per donna, di moda negli anni ’20



Questi abiti con lustrini, glitter e paillettes mi sono piaciuti perché mi suscitano i ricordi di alcuni vecchi film in bianco e nero, con ragazze che ballano il “charleston”: questo nome al ballo deriva dalla città statunitense di Charleston, nella Carolina del Sud.

Divenne popolare come ballo dopo essere apparso insieme alla canzone "The Charleston", di James P. Johnson, nel musical di Broadway "Runnin' Wild" nel 1923.

Quelle ragazze che ballano il charleston hanno l’acconciatura dei capelli corta, alla “garçonne”, resa celebre dallo stilista francese Coco Chanel. Quel taglio corto voleva essere manifesto e uguaglianza tra i sessi.

Molta risonanza ebbe pure la frangetta, come quella che aveva Louise Brooks iconica attrice e cantante jazz, ma pure lo chignon, la cuffia, la retina, il foulard erano espressione della moda in quegli anni.


 

Negli anni ’20 fu ideato per le signore il tubicino girevole col rossetto, pratico da portare con sé assieme alla cipria. E cominciò la moda della pelle femminile leggermente abbronzata, non più espressione di appartenenza ad una classe sociale inferiore, ma segno di salute e benessere fisico: Coco Chanel motivò le donne ad abbandonare l’ombrellino che proteggeva la pelle dai raggi solari, ad eliminare i guanti e ad accorciare le gonne.

Gli abiti femminili diventano più corti, frangiati, con lustrini e accessori in madreperla.

Le scarpe, col tacco a rocchetto non troppo alto e il cinturino alla caviglia.


 

Un esempio del look anni 20/30 si può vedere nel film “The Great Gatsby” diretto da Baz Luhrmann, che ripercorre la trama del libro di Francis Scott Fitzgerald

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Arte / Re:Art Dèco
« il: Marzo 17, 2025, 17:13:29 »
“Invochiamo il dono di un po' di bellezza per addolcire […] l’aspra vita quotidiana con il sorriso del divino, del solo indispensabile superfluo”.

Questa la frase di Margherita Sarfatti, con la quale si apre la mostra dedicata all'Art Dèco, a Milano.

Nella prima sala c'è questo bel dipinto



Alberto Martini, Ritratto di Wally Toscanini, 1925. Il pittore ritrae la figlia del famoso direttore d'orchestra mentre lei indossa un abito da ballo giallo, sdraiata su un divano, come se fosse una dea della bellezza. Collezione privata

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Arte / Re:Art Dèco
« il: Marzo 16, 2025, 23:56:45 »
Art Dèco: questo movimento artistico  dello scorso secolo ebbe successo negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale. 

Fu descritto anche da Margherita Grassini,  la prima donna che si dedicò con competenza alla critica d’arte e nota  sia per essere stata una delle amanti di Benito Mussolini  sia per la sua importanza nell’ambito culturale internazionale. 


 
Margherita Grassini, ebbe una vita avventurosa e anche drammatica per i lutti subìti.

Nata a Venezia nel 1880 in una ricca famiglia ebraica. Il padre, Amedeo Grassini, era avvocato (amico del patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, in seguito scelto come pontefice: papa Pio X) e imprenditore: fondò  la prima società di vaporetti della città di cui era anche consigliere comunale. La madre, Emma Levi, era cugina di Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg.

Nel 1898 Margherita, nonostante il divieto dei genitori, sposò l’avvocato Cesare Sarfatti, militante socialista, e lei  ne assunse il cognome, con il quale firmò i suoi scritti.

Nel 1902 col marito si trasferì a Milano e cominciò a collaborare con il quotidiano “L’Avanti”, giornale del partito socialista italiano.  Nel 1909, nello stesso giornale, divenne responsabile della rubrica dedicata alla critica d’arte.

Nel 1912 Margherita incontra  Benito Mussolini, allora dirigente del Partito Socialista Italiano e in procinto di di divenire direttore de "L'Avanti".  Vicina alle sue idee politiche,  diventa redattrice de “Il Popolo d’Italia”, quotidiano fondato e diretto dal futuro dittatore. Nel contempo collabora con il quotidiano  “La Stampa” di Torino e la rivista di teoria politica “Gerarchia” che dirige dopo il 1922, anno in cui fonda anche il “Gruppo del Novecento” che, a causa della sua adesione al fascismo, vede allontanarsi da lei alcuni artisti,  contrari alla nascita di un’arte fascista.

Nel 1913 Benito e Margherita  erano già amanti. E lei rimase nell’immaginario collettivo come “l’amante ebrea” di Mussolini.

In quell'anno Margherita aveva 33 anni, era ricca, colta, poliglotta, cosmopolita.
 

 
Dopo  circa 20 anni, nel 1932, fu lui a imprimere una brusca svolta alla loro relazione, allontanandola dal quotidiano “Popolo d’Italia”. 

Un mese dopo  avvenne il fatale incontro di Mussolini con Claretta Petacci, e la Sarfatti lentamente uscì sia dalla vita sentimentale del duce sia da quella politica.

La legislazione antisemita costrinse Margherita a fuggire prima a Parigi e poi  in Sud America.

Nel 1947 tornò in Italia e visse in una località vicino Como.  Morì il 30 ottobre 1961. Aveva 81 anni



 
Margherita all’età di 80 anni

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Arte / Art Dèco
« il: Marzo 09, 2025, 07:23:19 »
A Milano, nel  “Palazzo Reale” (è sul lato destro guardando il duomo), fino al 29 giugno c’è la mostra titolata: “Art Déco. Il trionfo della modernità”, visitabile fino al 29 giugno.

L’Art Déco venne ideata nel 1910 dallo stilista francese Paul Poiret e sviluppata come risposta all’Art Nouveau, caratterizzata da forme sinuose e ispirazione naturalistica.

Lo stile Liberty Italiano (variante dell’Art Nouveau) è noto anche come stile floreale, ha forme  sinuose e dettagli decorativi ispirati alla flora e alla fauna.

Lo stile Déco è caratterizzato da  forme lineari, simmetriche,  geometriche e da motivi esotici. I colori prevalenti: bianco, nero, rosso, oro.

Ognuno di questi stili ha lasciato un'impronta significativa nell'arte, l'architettura e il design, contribuendo a definire l'estetica di diverse epoche e territori.

Nella fase iniziale l’Art Déco ebbe successo nelle arti decorative con l’aiuto del design di oggetti e arredi, l’utilizzo di nuovi materiali come l’alluminio, l’ottone l’acciaio inossidabile, la lacca, il vetro colorato,  il legno intarsiato usato nei mobili. 

Nell’ambito dell’architettura, molti cinema, edifici pubblici, stazioni ferroviarie e residenze private vengono realizzati in quegli anni con caratteristiche tipiche di questo  linguaggio artistico.

Ma la parabola creativa dello stile Déco  si concluse in pochi anni in Europa. Continuò negli Stati Uniti fino agli anni ’30 dello scorso secolo.

Cento anni fa, nella primavera del 1925, a Parigi ci fu la “Exposition des arts décoratifs et industriels modernes”:  dall’abbreviazione delle parole “arts décoratifs” deriva “Art Dèco”, detto anche “decò”.

La mostra milanese racconta le origini, gli sviluppi e i trionfi del Dèco italiano, confrontato con esempi francesi, austriaci e germanici.


Giovanni Ponti (detto Gio Ponti), architetto e designer: “Domitilla sulle corde”, suo il  disegno preparatorio  per decorare questo piatto di porcellana. Museo Richard Ginori della manifattura di Doccia: è una zona nel Comune di Sesto Fiorentino (prov. di Firenze).

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Individualismo
« il: Marzo 08, 2025, 15:52:47 »


Come fenomeno sociale l’individualismo induce all’autorealizzazione ma indebolisce il senso di appartenenza alla comunità e la necessaria solidarietà. Permette di raggiungere un maggior livello di libertà personale ma contribuisce a favorire la frammentazione della società nel suo complesso.

L'individualismo è una caratteristica dominante di molte società contemporanee ed è spesso associato alla perdita dei legami sociali cosiddetti “tradizionali”. Ognuno è responsabile della propria vita. L’individuo è al centro della propria esistenza e la collettività ha un ruolo secondario.

Nelle società occidentali l’individuo è certamente valorizzato ma sono presenti anche i valori collettivi, che vediamo in comportamenti individuali e istituzioni di tipo solidarista.

In passato nelle nazioni come Russia e Cina l’ideologia “collettivista” esaltava (ancora esalta ?) i valori di tipo collettivista, ma il modello istituzionale collettivista genera la solidarietà ?

Per quanto riguarda i nativi americani riuniti in tribù, sono gruppi sociali poco numerosi, sono comunità poco complesse e poco sviluppate. E forse per loro andava (va) bene l’economia collettivista.

Sbaglio se anziché accusare in astratto l’individualismo occidentale punto il dito accusatore contro il capitalismo come fautore ?

Il messaggio dell'individuo superiore alla collettività è un mantra che segue come una colpa la società occidentale. Mi sembra però che in Asia e Africa stanno recuperando in fretta il gap e le culture tradizionali non hanno alcuna possibilità di condizionare le attuali dinamiche sociali.

L'individualismo è il valore che ha reso l'Occidente quello che è. Senza individualismo non sarebbe possibile il forte sentimento di libertà che possediamo e che ci spingerebbe ad usare le armi se qualcuno ce la togliesse.

Ma come insegnavano gli antichi, bisogna perseguire la “via di mezzo”, il compromesso tra valori individuali e valori collettivi, senza precipitare da una parte o dall'altra.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Individualismo
« il: Marzo 07, 2025, 15:47:42 »
Guardate questa immagine realizzata dallo statunitense Joel Meyerowitz, noto per la “fotografia di strada, i ritratti e i paesaggi.


 
Ci sono persone in attesa (dell’autobus urbano ?): 6 sedute ed una in piedi vicina lo porta; evocano 6 monadi, indifferenti l’un l’altro. Evocano il detto: “Ognuno per sé, Dio per tutti”.

(p. s. la fotografia è grande è due bambini seduti sulla destra non si vedono. Se l'amministratore vuol essere così gentile di stringerla gli sarei grato.)

Questa fotografia fa riflettere: l'individuo è al centro della propria esistenza e la collettività assume un ruolo secondario.

Invece nelle cosiddette “società collettiviste”, al contrario di quelle individualiste,  come quelle occidentali, sono importanti i valori e le norme che privilegiano il benessere del gruppo e l'identità personale è legata alle relazioni sociali, ai ruoli comunitari e agli obblighi verso gli altri membri della società.

Un esempio, i nativi americani appartenenti alla tribù dei Navajo, a me nota perché da adolescente leggevo i “giornaletti a fumetti” dedicati al ranger del Texas  Tex Willer, noto anche col nome indiano “Aquila della notte”: era pure capo supremo delle tribù Navajos.

La moglie di Tex si chiamava Lilyth, era una principessa indiana, figlia di Freccia Rossa. Morta in giovane età, Tex rimase fedele alla sua memoria e non volle più sposarsi.

Dall’unione di Tex con Lilyth nacque Kit. Sempre insieme al padre. Con loro due il ranger Kit Carson e Tiger Jack, l’indiano navajo, abile a sparare, a seguire le tracce e a usare il tomahawk. 


Tex e i pards

In quella tribù (e in altre di quell’ambiente sociale) l’identità personale non era separabile dal contesto sociale e ambientale. I valori di reciprocità, condivisione e responsabilità verso il gruppo erano alla base dell’organizzazione sociale. I beni, le risorse e le responsabilità erano distribuiti e condivisi in modo tale da mantenere l’equilibrio e la coesione all'interno del gruppo.

Nel nostro tempo quei nativi americani non hanno più quell’organizzazione sociale e quei valori.

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Arte / Re:"Amor vincit omnia"
« il: Marzo 04, 2025, 10:57:53 »
Nel precedente post ho citato la parola ècloga (va bene anche ègloga) con riferimento alla poesia “bucolica” che celebra la vita pastorale e agreste. Adesso su tale tema vi offro in visione un dipinto allegorico.


 
Questo dipinto ad olio su tela fu realizzato  nel 1890 dal pittore statunitense Kenyon Cox (1856 – 1919). L’opera è titolata “An ecloque” (= Una egloga), Smithsonian American Art Museum.

E’ una scena agreste con  quattro donne in ozio: due sono sedute e  raffigurate nude, altre due sono in piedi, affettuosamente vicine, una indossa un bianco  “accappatoio” plissettato cinto alla vita, l’altra,  ha un abito rosso, disceso fin sotto la zona pubica. 

Sulla sinistra  si vede un uomo parzialmente nudo che torna dalla caccia insieme al cane. Sorregge una lancia sulle spalle,  un panno bianco  lo copre in modo trasversale dalla spalla sinistra  alla gamba destra.

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Arte / "Amor vincit omnia"
« il: Marzo 02, 2025, 18:10:57 »
Il poeta di epoca romana Publio Virgilio Marone, più noto come “Virgilio”,  nelle  “Bucoliche” (silloge di dieci carmi, detti “eclogae” = poesie scelte, caratterizzati dall’ambientazione agricola e pastorale),  dedica la decima  ecloga all’amico Cornelio Gallo per consolarlo del suo amore infelice per Licoride, e fra l’altro gli dice: "Omnia vincit amor et nos cedamus amori" = “Tutto vince l'Amore, e noi cediamo all'Amore" (verso 69).

La locuzione latina ispirò Michelangelo Merisi, detto Caravaggio,  per realizzare il dipinto titolato: “Amor vincit omnia”, commissionato dal marchese Vincenzo Giustiniani, che lo pagò 300 scudi.


Caravaggio, “Amor vincit omnia”, olio su tela, 1602 – 1603, Gemäldegalerie (= Galleria dei dipinti), Berlino.

Quest’opera raffigura “Amore vincitore” che sorride e guarda verso di noi.  E’ nudo, con le gambe aperte, alato. Nella mano destra ha una freccia.

In terra ci sono una partitura musicale, strumenti musicali, il compasso, la squadra, lo scettro che rimanda alla sovranità del marchese Giustiniani sull’isola di Chio, ceduta dopo l'assedio turco nel 1566; altri oggetti che forse alludono all’interesse del committente per l'astronomia,  l'astrologia, ed altro. 


Guardando da vicino lo spartito musicale si vede una lettera V maiuscola. È un’allusione al nome del committente: Vincenzo !



Come modello per questo dipinto  posò il garzone Francesco Boneri, detto “Cecco” che poi si dedicò alla pittura. Fu allievo e, secondo molti, anche amante del Merisi.

Dal suo maestro apprese, oltre che le tecniche pittoriche, anche l'uso delle armi, ed ebbe denunce per ferimenti vari. Anche Cecco era frequentatore di taverne e sovente usava il pugnale.

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Pensieri, riflessioni, saggi / "Ateismo cristiano"
« il: Marzo 01, 2025, 21:56:51 »
Il  filosofo marxista e sociologo sloveno Slavoj Žižek,  teorico dell’ateismo cristiano, al quale ha dedicato quattro libri, l’ultimo  dei quali l’ha pubblicato recentemente ed è titolato: “Ateismo cristiano. Come diventare veri materialisti” (edit. Ponte alle Grazie), dice he per il cristianesimo ciò che muore sulla croce non è soltanto un messia, un rappresentate di Dio. “Non è come se Dio se ne fosse stato lassù, mentre noi siamo qui, e avesse detto, duemila anni fa, va bene, cerchiamo di redimere l’umanità, e poi, visto che non ha funzionato, disse a Gesù, figlio mio torna da me, magari proverò ancora più avanti”. 

Ed ancora: Cosa significa servire Dio ? Se dico “Sto servendo Dio, presumo di sapere che cosa Dio vuole ! Significa che sono in diretto contatto con Dio. Secondo lo scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton un vero cristiano non può mai pretendere di sapere cosa vuole Dio”. 

“Dio lo sa che se l’umanità scompare, muore anche lui”. 

Gesù sulla croce gridò: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni” (= Dio mio, perché mi hai abbandonato ?). Žižek dice: “Solo nel cristianesimo Dio stesso, abbandonato da Dio, per un momento è ateo”. 

A proposito di ateismo…, vi ricordate l’aneddoto , forse vero, di quando Napoleone I Bonaparte chiese al matematico e astronomo francese Pierre-Simon Laplace perché nella sua teoria sull’universo, descritta nel libro “Exposition du système du monde”, pubblicato nel 1796, non fosse accennato Dio ?  Napoleone gli disse: “Newton ha parlato di Dio nel suo Libro. Ho già sfogliato il vostro e non ho trovato questo nome una sola volta”.  L’ateo Laplace gli rispose: “Citoyen Premier Consul, je n'ai pas eu besoin de cette hypothèse” (= “Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno di questa ipotesi”). 

Napoleone, molto divertito, raccontò la risposta di Laplace al matematico e astronomo Joseph-Louis Lagrange (il suo vero nome era Giuseppe Luigi Lagrancia, nato a Torino nel 1736; un italiano naturalizzato francese), il quale esclamò: “Ah ! Questa è una bellissima ipotesi; essa spiega molte cose”.  In realtà non è chiaro, stando anche ai commentatori dell'epoca, se la risposta di Laplace a Napoleone fosse da intendersi come un proclama di ateismo oppure come il rifiuto di introdurre nella filosofia della natura un “Essere Supremo” che intervenendo in continuazione nell'universo fosse garante dell'ordine cosmico, come era ritenuto necessario ad esempio da Newton.

Quali che fossero le convinzioni di Laplace sull'esistenza di Dio, egli fu convintamente anti cristiano.

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Schola Praeconum (Scuola degli araldi)

Cliccare sul link

https://colosseo.it/area/schola-praeconum/

"In epoca imperiale, il versante meridionale del Palatino (lato Circo Massimo) fu interessato da diversi interventi, prima ad opera di Augusto, poi della dinastia dei Flavi (che vi costruì la Domus Augustana, la Domus Flavia e il Paedagogium, una sorta di collegio per gli schiavi imperiali) e infine di quella dei Severi che aggiunsero nuove costruzioni e intrapresero una ristrutturazione generale dell’area.

Proprio ai Severi, e quindi al III secolo d.C., risale l’edificio della cosiddetta Schola Praeconum, tornata parzialmente alla luce alla fine dell’Ottocento. Situata nella terrazza più bassa di questa porzione del colle e affacciata sul Circo Massimo, del cui asse segue l’orientamento, la Schola era stata costruita riutilizzando in parte ambienti di epoca precedente. Gli scavi intrapresi negli anni Trenta del Novecento permisero di chiarire meglio la planimetria dell’edificio, composto da tre ambienti principali coperti a volta, affacciati su una corte rettangolare circondata da un portico. Un pilastro angolare e una colonna in marmo cipollino sono ancora visibili in situ. Le più recenti indagini archeologiche hanno condotto al rinvenimento anche di una struttura absidata, ancora di incerta funzione.

La stratigrafia e le decorazioni pittoriche e musive conservate in uno dei tre ambienti (il vano F) testimoniano la continuità d’uso dell’edificio almeno fino al V secolo d.C., prima che i frequenti terremoti documentati fino al VI secolo determinassero una serie di crolli.

La decorazione pittorica è la più antica: un fregio dipinto con il prospetto di un edificio adorno con colonne fra le quali compaiono alcune figure maschili ad altezza naturale, vestite in abiti servili e intente a reggere in mano oggetti come un bastone o un serto di fiori e a impartire ordini, in un contesto che si riferisce forse a un banchetto.

In un periodo successivo, le pareti furono rivestite di lastre di cipollino e sul pavimento venne steso un grande mosaico su cui si stagliano 8 personaggi maschili vestiti con tuniche corte e organizzati in due gruppi di quattro, con in mano un caduceo (emblema del dio Mercurio, araldo degli dei), uno stendardo, un bastone.
Furono proprio i simboli presenti in questo straordinario mosaico in tessere bianche e nere a indurre gli archeologi, già da fine Ottocento, a identificare le figure rappresentate con gli araldi o banditori pubblici (“praecones” in latino), uomini liberi riuniti in collegi, protetti dallo Stato e utilizzati per annunciare cerimonie e processioni (religiose o genericamente pubbliche) o per proclamare i vincitori di giochi e gare.

Pur permanendo un margine di incertezza, la vicinanza al Circo Massimo e il diretto collegamento a nord con il Paedagogium convalidano l’ipotesi che l’edificio fosse la sede del collegio degli araldi degli spettacoli nel Circo, realizzata nella zona più connessa con le loro mansioni, il Palatino e il Circo Massimo.
Il pavimento è d’inizio del IV secolo d.C., quando l’imperatore Massenzio intraprese un’ulteriore ristrutturazione dell’area.

Dal mese di febbraio 2025 la Schola ha aperto al pubblico. L’accessibilità al sito è garantita da una nuova rampa che termina nella sala affrescata e mosaicata, davanti a una vetrata che consente di ammirare gli apparati decorativi; ad accogliere il pubblico è anche installata una mappa tattile con la planimetria della Schola, i nuovi resti archeologici e brevi testi in italiano, inglese e braille".

Per maggiori informazioni visita il sito ufficiale del Parco archeologico del Colosseo.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Gli occhi
« il: Febbraio 20, 2025, 08:57:55 »
Gli occhi: ponte silenzioso verso gli altri e intensa via di comunicazione non verbale.



Vengono descritti  anche nella poesia e nella simbologia.

Il drammaturgo di epoca romana Publilio Siro, vissuto nel I sec. a. C. scrisse circa 700 aforismi, raccolti nelle “Sententiae” (Le sentenze), tratte dai sui lavori teatrali.  Uno di quegli aforismi riguarda gli occhi: “Oculi occulte amorem incipiunt, consuetudo perficit” = gli occhi di nascosto danno inizio all’amore, la consuetudine lo completa.

Lo sguardo  riflette le emozioni, i sentimenti, se si è allegri o tristi,  contribuisce a rendere intensa la relazione amorosa.

Alcuni movimenti oculari, come  la dilatazione o il restringimento della pupilla, non sono controllabili volontariamente, ciò permette di comprendere  se gli occhi comunicano tenerezza, timidezza, benevolenza, compassione, ecc.,  oppure intenzioni e atteggiamenti di arroganza, disprezzo, violenza, come si può vedere nello sguardo terribile e pietrificante della Medusa dipinta da Caravaggio.


Caravaggio, scudo con testa di Medusa, olio su tela montata su uno scudo convesso di legno di pioppo,  1598 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze.

La testa della Medusa o Gorgone è l’allegoria della prudenza e della sapienza.

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Arte / Madonna della melagrana
« il: Febbraio 11, 2025, 10:45:59 »
Stamane voglio “cantare” una “Madonna col Bambino e angeli”, detta  “Madonna della melagrana”, dipinta nel 1487  a tempera su tavola tonda da un pictor rinascimentale, il messere  fiorentino Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, conosciuto col nome d’arte Sandro Botticelli (1445 – 1510).

Il tondo rappresenta la solita tipologia della Madonna col Bambino, commissionata dalla magistratura fiorentina dei “Massai di Camera” per decorare la propria sala delle udienze nel Palazzo  della Signoria (Palazzo Vecchio).
La magistratura dei “Massai di Camera” era un organo amministrativo della Repubblica fiorentina. Tale magistratura fu soppressa nel 1533.
Nel XVII secolo il dipinto entrò a far parte della raccolta del cardinale Leopoldo de’ Medici, nel 1780 giunse alla Galleria degli Uffizi.



Maria è al centro della composizione, seduta in trono. Indossa il mantello blu, la tunica di colore rosso scuro,  e copre con un velo i suoi riccioli biondi. Ha il viso ovale e lo sguardo assorto.

Sul grembo tiene il Bambino, che dalla mano sinistra della madre afferra la melagrana, i suoi semi (gli arilli) simboleggiano l’abbondanza e la fecondità.


dettaglio

Attorno a loro ci sono sei angeli. Il loro sguardo è rivolto verso punti diversi.
 
Osservate i primi due ai lati, sembrano appoggiarsi su di un festone di rose rosse e bianche: l’angelo a destra è raffigurato di profilo, mentre quello a sinistra volge lo sguardo verso lo spettatore e indossa una stola sulla quale ci sono ricamate le parole “Ave Gratia Plena“. Entrambi reggono dei lunghi gigli bianchi, simbolo della purezza di Maria.

Dietro di loro si vedono altre due coppie di angeli: in quella di sinistra, uno legge un libro con la mano appoggiata sulla spalla del vicino che ha lo sguardo rivolto verso l’alto, in quella di destra l’angelo con il libro guarda lo spettatore mentre il compagno sembra sussurrare qualcosa al suo orecchio.

In alto si dirama una raggiera luminosa, emanazione della grazia divina.

La lignea cornice intagliata e dorata, nella circonferenza  è ornata con gigli su fondo blu.

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