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Letteratura che passione / "Chimere"
« il: Novembre 19, 2024, 20:05:31 »
Cosa distingue un ricordo da un sogno ?

Perché alcuni sogni si ricordano e altri no ?

Comunque sia il ricordo sia il sogno si possono raccontare. Ma cosa accade quando i ricordi cominciano a sbiadire fino a cancellarsi ? Tale problema è il soggetto di film memorabili, come “Eternal sunshine of the spotless mind”, “Le pagine della nostra vita” o “Still Alice”, che raccontano ciò che si ostina a sfuggire alla perdita di sé.

Ne parla anche lo scrittore e poeta olandese Hendrik Jan Marsman (1937 – 2012), meglio conosciuto con il suo pseudonimo: J. Bernlef, nel libro titolato “Chimere”, romanzo pubblicato in Olanda nel 1984 col titolo: “Hersenschimmen”, in inglese: “Out of mind”. Il libro esplora il tema della memoria e della sua dissolvenza, offre una rappresentazione realistica della discesa della mente nella demenza dal punto di vista del malato.

Protagonista è Maarten Klein, un settantenne che vive con la moglie Vera a Gloucester, sulla costa a nord di Boston. Le giornate dei due, emigrati da tempo in America, si ripetono, scandite da abitudini rassicuranti: la pizza la domenica, le passeggiate col cane Robert, brevi conversazioni con i vicini. I figli, ormai adulti, non si fanno né vedere né sentire.

In quel “quadro” di vita tranquilla s’insinua la malattia. La mente di Maarten non è più pronta e lucida,  comincia a dimenticare, a perdersi anche nei gesti quotidiani.

Come in tanti casi di demenza, sono più vivi i ricordi di un passato lontano, di decenni prima vissuti in Olanda.

Finché un giorno d’inverno  tutto cambia. Accade quando Maarten guarda fuori dalla finestra  e non vede quello che si aspettava di vedere: i bambini che tutte le mattine salgono sul pullmino per andare a scuola, con i loro zaini colorati e gli schiamazzi che danno allegria. Non li vede perché quel giorno è domenica e non è mattina, gli dice Vera, porgendogli una tazza del loro tè pomeridiano.

Marteen rimane perplesso, non ricorda nulla delle ore precedenti. Pensa che non ha mai avuto una buona memoria, e si domanda come ha fatto a dimenticare un’intera mattina. Come se non ci fosse mai stata.

E’ un episodio da cui l’uomo non tornerà più indietro. Lui stesso racconta le vicende di quell’inverno che è anche la sua ultima stagione, quella in cui tutto s’addormenta, quella in cui il ciclo vitale naturale ha fine.

Il giorno dopo porta fuori casa il cane per la passeggiata quotidiana e torna a casa da solo, perdendo di vista il cane e ignorando il motivo per cui era uscito.

Una mattina si alza dal letto, si veste per andare al lavoro, ma è in pensione da anni.

A volte è convinto di essersi appena svegliato e di dover bere il caffè, invece è l’ora di cena.

La malattia si incunea piuttosto velocemente nella mente di Maarten: l’uomo dapprima si scorda di prendere la legna, poi va alla ricerca di qualcosa che, nel frattempo, non ricorda più cosa fosse.

“Provo a leggere il libro che ho in mano ma le parole non si decidono a fare una frase. È come se all’improvviso non padroneggiassi più l’inglese malgrado negli ultimi anni sia diventato praticamente bilingue”.

L’uomo è angosciato. Capisce che c’è qualcosa che non va.

La moglie è sempre  accanto  al marito; sfogliano l’album di fotografie che raccontano decenni di vita insieme per recuperare ciò che si sta dissolvendo nella mente di Maarten, spesso confuso e irritato.

Vera durante una telefonata così si confida: “Comincio a preoccuparmi sul serio. A vederlo non ha niente di strano ma è proprio questo che fa tanta paura. Certe volte racconta cose di noi che io non ho mai vissuto. Come se ai suoi occhi fossi un’altra [...] Mi sento inerme, non so come aiutarlo. È diventato così, praticamente dall’oggi al domani”.

Intorno a questa anziana coppia ci sono altre persone che rispondono ai richiami d’aiuto di Vera: sono il dottor Eardly,   la giovane badante Phil Taylor, che il protagonista scambia per un’amica dei figli e che, giorno dopo giorno, continua a non riconoscere nonostante lei ora faccia parte della famiglia. Maarten smarrisce i tanti frammenti del suo vissuto: non riconosce più i luoghi e poi perde anche la dimensione del tempo.

Vien voglia di abbracciarlo quando non riesce a compiere i gesti più ordinari, come vestirsi da solo, quando crede che i suoi genitori siano ancora vivi. Di confortarlo quando si sente in colpa per le lacrime di Vera, che dalla rabbia iniziale è passata alla disperazione perché ha capito che l’uomo che ama sta dimenticando tutta la sua vita e la loro vita.

“La gente della nostra età vive dei propri ricordi. Persi i ricordi, non rimane nulla”, dice Vera tenendosi la testa tra le mani.

"Chimere" è una storia commovente e toccante. J. Bernlef descrive la malattia in maniera accurata e pertinente racconta di essa con  espressioni coinvolgenti, emozionanti.

L’avvicinarsi della fine è triste ma anche questo fa parte della vita.

L’autore delinea quel doloroso tratto che ognuno di noi dovrà percorrere e che forse ha vissuto accanto a qualche familiare o amico.

L’argomento su cui la narrazione ruota è quello della transitorietà: la consapevolezza che per tutti il tempo passa, tutto cambia e nulla resta uguale.

Il nostro orologio interno va con quello delle stagioni. Ma, proprio alla fine, nella più fredda delle stagioni, l’inverno, quando la mente non è più lucida e non comprende neanche più la sofferenza, s’insinua la speranza.

“Ascolti solo la voce che sussurra [...] si può guardare, guardare fuori… il bosco e la primavera imminente... la primavera che sta per cominciare”.

 
p. s. leggo che la demenza senile è una  malattia neurodegenerativa dell’encefalo.

Colpisce molte persone anziane e determina una riduzione graduale e irreversibile delle facoltà cognitive.

La perdita della memoria (o amnesia) consiste nell'impossibilità, parziale o totale, di ricordare esperienze passate, recenti o più remote. In casi gravi, il soggetto affetto da amnesia può anche non riuscire ad acquisire stabilmente nuovi ricordi.

Esistono vari tipi di demenza senile, uno è il morbo di Alzheimer.

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Letteratura che passione / Santa Marcia
« il: Novembre 16, 2024, 15:19:52 »

Santa Marcia, si guarda allo specchio e dipinge l’autoritratto, miniatura  dal “De claris mulieribus” di Giovanni Boccaccio.

De mulieribus claris o De claris mulieribus (= Le donne famose) è un testo in lingua latina elaborato tra il 1361 e il 1362 per descrivere le biografie di 106 donne famose e le loro azioni malvage o virtuose.

Per scrivere questo libro Boccaccio fu motivato dal “De viris illustribus” di Francesco Petrarca, contenente le biografie di vari uomini.

In precedenza lo scrittore toscano compose un testo titolato “De casibus virorum  illustrium” con le biografie di 56 uomini e donne, poi elaborò il De mulieribus claris, dedicato soltanto a personaggi femminili.

Le biografie cominciano con quella di Eva, la prima donna secondo la Genesi, e concluse con quella della regina Giovanna I d’Angiò, di Napoli,  donna famosa  al tempo di Boccaccio.


Nell'elenco ci sono molte donne leggendarie, come Elena di Troia o le Amazzoni, che al tempo di Boccaccio si pensava fossero reali personaggi storici.

Ma chi era santa Marcia ?  Questo nome è di origine latina, e secondo alcuni deriva da Mars (Marte), il dio della guerra.

Martia e Marcia sono  le forme femminili  dei nomi latini  Martius e Marcius.

“Marcia” significa “appartenente a Marte”. In epoca romana era diffuso tra le figlie dei soldati.

Nel Rinascimento il nome “Márcia” fu di “moda” nelle famiglie aristocratiche.

Sinonimi di Marcia sono Marzia, Mara e Marta.

Marta è  un nome semitico e in aramaico  significa “signora” o “padrona”.

Marta è la figura biblica descritta nei vangeli di Luca e Giovanni come sorella di Maria e Lazzaro. I tre abitavano a Betania, vicino Gerusalemme.

Nel Vangelo di Luca (10, 38 – 42) le due sorelle accolgono Gesù in casa. Mentre Marta si occupa delle faccende domestiche, Maria si siede  per ascoltare ciò che dice Gesù. Marta se ne lamenta, ma Gesù  le risponde: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”.

Invece nel Vangelo di Giovanni (11, 1–45) le due sorelle mandano a chiamare Gesù perché venga a guarire Lazzaro che si è ammalato, ma Gesù si attarda e quando giunge Lazzaro è già morto. Gesù dialoga con Marta e ottiene da lei una professione di fede: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Quindi  Gesù si reca al sepolcro e resuscita Lazzaro.

Ancora il Vangelo di Giovanni (12, 1–3): “Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento”.

Questo episodio c’è anche nel Vangelo di Matteo (26, 6–13) e in quello di Marco (14, 3–9), ma non nominano le due sorelle e situano la cena in casa di Simone il lebbroso.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Inferi, inferno
« il: Novembre 15, 2024, 08:45:19 »
Oggi per colazione vi offro questo post.  :)

La mitologia greca narra  che  l’entrata negli inferi è in una caverna  a capo Matapan (detto anche capo Tenaro il punto più a sud della  penisola della Maina, in Laconia (Grecia).



La spelonca è la dimora del dio Hádēs (= Ade, significa invisibile, ed anche oscuro), nome che identifica sia la divinità sia il  sotterraneo regno dei morti e delle ombre, denominato Plutone dai Romani.

Sul promontorio  di Capo Matapan gli Spartani costruirono alcuni templi, uno dei quali dedicato a Poseidone. Lo costruirono sopra la caverna d’entrata nell’Ade, di cui oggi restano alcune antiche rovine, inglobate in una successiva chiesa cristiana dai Bizantini, ed è ancora in uso.

Anche Hádēs aveva una moglie, Persefone, detta anche Kore (figlia di Demetra, patrona della fertilità, dell’agricoltura e delle stagioni), da lui rapita e portata negli inferi per sposarla contro la volontà della ragazza, poi costretta a diventare  la regina dell’oltretomba.

Demetra, disperata,  reagì al rapimento della figlia provocando un lungo inverno e la carestia.

Intervenne Zeus e si giunse ad un accordo: Persefone poteva trascorrere sei mesi con il marito nelle stagioni autunno e inverno  e sei mesi sulla Terra con la madre, in primavera e in estate, facendo rifiorire la natura. Poi Persefone, entrò a far parte anche della mitologia romana col nome di Proserpina.

Per la mitologia romana, invece,  l’entrata nell’Ade  era vicino  il lago di Averno, presso Cuma, nei Campi Flegrei.
Virgilio nel VI libro dell’Eneide narra il viaggio dell’eroe Enea insieme alla Sibilla Cumana:  "C'era una grotta grande e profonda, protetta da un nero lago e dalle tenebre dei boschi, sulla quale nessun volatile impunemente poteva dirigere il proprio volo con le ali, tali erano le esalazioni che, effondendosi dalla nera apertura, si levavano alla volta del cielo”.

Approdato a Cuma, l’eroe troiano consulta la sibilla nell’antro vicino il tempio di Apollo e la prega di guidarlo negli Inferi. La sibilla accetta, ma l’eroe deve prima procurarsi il ramo d’oro da offrire in dono a Proserpina.

Enea, con l’aiuto di Venere, trova in un bosco il ramo d’oro e lo dà alla sibilla. Giunta la notte, e compiuto il sacrificio propiziatorio alle divinità infernali,  l’eroe e la sibilla entrano nell’Averno  ed iniziano il viaggio verso gli Inferi.  Incontrano mostri e simulacri di mali e malattie,  arrivano  sulla sponda del fiume Acheronte e attendono Caronte, il traghettatore infernale.

Ma gli inferi del cristianesimo dove sono ubicati ?

La discesa di Gesù agli Inferi è affermato nel Credo degli apostoli: “Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte”.

"Come  Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il  Figlio dell’Uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt 12, 40).

Secondo il  “Catechismo della Chiesa Cattolica” (n. 632), “Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come salvatore, proclamando la buona novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri”. Questo è un altro esempio di mitologia cristiana.

Come già detto, gli inferi sono distinti e diversi dall’Inferno: questo esiste da quando Satana si ribellò con gli altri angeli ribelli a Dio. Sono loro che hanno 'costruito' l'inferno, separandosi da Dio.

Come concetto l'inferno si espanse  col  cristianesimo,  ma la concezione di 'dannazione' era  già conosciuta dagli Ebrei, in modo diverso.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Inferi, inferno
« il: Novembre 13, 2024, 09:18:41 »
Inferi o inferno ? sono due luoghi distinti e separati.

Il sostantivo plurale Inferi deriva dall’aggettivo latino  infĕrus  (=  infero, che sta sotto). 

In ambito cristiano i biblici inferi simboleggiano il luogo del soggiorno dei morti. Vi discese anche Gesù dopo la sua morte sulla croce. La sua catàbasi (= discesa) prima della risurrezione.

Pietro, nel giorno di Pentecoste, durante  un suo  discorso agli “uomini di Israele”  cita il Salmo 16 per proclamare la risurrezione di Cristo: “Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi, né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione” (Atti 2,27; Salmo 16,10).

Gli inferi non vanno confusi con l’inferno, che è sede della dannazione eterna. Coloro che ci si trovano sono privi della visione di Dio.

Sinonimi di Inferi sono l’ebraico She’ol, il greco Ade e l’Aralla mesopotamico:  luoghi  dei morti e delle ombre, soggiorno indifferenziato di tutta l’umanità, di giusti e peccatori.

La mitologia greca narra che il dio Hádēs (= Plutone)  ricevette la sovranità dell’Ade quando l'universo fu diviso con i suoi due fratelli Zeus e Poseidone, che ottennero rispettivamente il regno del cielo e del mare.


Ade e Cerbero,  il cane con tre teste

L'inferno, invece, è un luogo di sofferenza e di punizione per le anime dei peccatori. Ci sono gli individui reprobi dopo il giudizio finale  di Dio. Questo luogo è una allegoria per descrivere lo stato di isolamento e desolazione che viene dalla separazione del peccatore da Dio.

Lo scrittore francese Georges Bernanos (1888 – 1948) nel suo romanzo “Monsieur Ouine”, pubblicato nel 1943, scrisse: “Si parla sempre del fuoco dell’inferno, ma nessuno l’ha visto. L’inferno è freddo”.

Ancora Bernanos, nel suo capolavoro “Diario di un curato di campagna” spiega il  perché  di quel freddo infernale tramite la voce del protagonista: “L’inferno è non amare più”.

Lucrezio, scrittore di epoca romana (98 a. C. circa – 50 a. C. circa), nel suo “De rerum natura”  scetticamente osservava: “I supplizi che dicono ci siano nel profondo Acheronte sono già tutti nella vita” (III, 978-9).

Altri autori e testi sono citati  nel libro titolato “Fuoco e fiamme”, scritto da Matteo Al Kalak, docente di “Storia del cristianesimo e delle Chiese nell’università di Modena e Reggio Emilia.

L’autore descrive le scene infernali con tutte le spezie stilistiche del racconto, ricostruisce  “storia e geografia dell’Inferno”, iniziando con la biblica Genesi e la frase “In principio …”.

Il realismo descrittivo si miscela con la metafora spirituale.

Come simbolo teologico dell’Inferno Gesù cita la Geenna, una valle scavata dal torrente Hinnom sul lato meridionale del monte Sion, usata nell’antichità a Gerusalemme come inceneritore dei rifiuti.

Un capitolo del citato libro di Al Kalak è dedicato alle “porte degli inferi”, che la tradizione fa varcare al Cristo risorto. Tale “immagine” è collegata al passo evangelico riguardante il “primato di Pietro”: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi (in greco “dell’Ade) non prevarranno su di essa” (Matteo 16, 18).

Varcare quelle soglie alla maniera dantesca come monito ai viventi.

Nel  citato libro il capitolo finale è titolato “Quel che resta dell’inferno”… nel nostro tempo.

Nel Catechismo della Chiesa cattolica, emanato nel 1992, c’è l’appello alla conversione, essendo “la pena principale dell’inferno la separazione eterna da Dio” (n. 1035).

Ovviamente nell’apparato immaginifico ci sono presenze e istanze molteplici: la figura di Satana, la misericordia divina, l’apparente eccesso della pena infernale in eterno.

Fin dall’antichità  cristiana si scontrano due tesi opposte:

quella “infernalista”, sostenuta da Agostino vescovo di Ippona, dal teologo Tommaso d’Aquino, secoli dopo dal teologo francese Jehan Cauvin (in Italia conosciuto come Giovanni Calvino), che fu con Lutero il riformatore religioso del cristianesimo protestante nella prima metà del ‘500. Dal suo nome deriva il termine “calvinismo”. Essi affermavano la certezza di un inferno popolato da dannati.

L’altra tesi, detta dell’apocatastasi, parola polisemica derivata dal  sostantivo greco apokatástasis. In ambito religioso e filosofico vuol significare “ritorno allo stato originario”, in senso salvifico: “riconciliazione finale universale”, nel linguaggio teologico “il  ristabilimento di ogni cosa nell’ordine voluto da Dio, alla fine dei tempi,   per cui l’inferno potrebbe essere vuoto, senza peccatori.

Nel cristianesimo il concetto è presente in un versetto degli “Atti degli apostoli” (3, 21): “Egli dev'esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione (apokatastàseos) di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti”.

Giustizia e misericordia divina sono, quindi, in contrappunto col tentativo di proporre almeno “il dovere di sperare per tutti”.

Concludo citando lo scrittore cristiano inglese Clive Staples Lewis e il suo libro titolato: “Lettere di Berlicche”, pubblicato nel 1942. L’autore ammoniva “che la via più sicura per l’inferno è quella graduale: la discesa dolce, morbida sotto i piedi, senza svolte improvvise, senza cartelli indicatori”, in pratica senza l’incubo del fuoco e delle fiamme. :pentitevi:

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Pensieri, riflessioni, saggi / Endofasia
« il: Novembre 08, 2024, 08:54:55 »
Il sostantivo endofasia in ambito psichiatrico indica l’illusoria percezione di voci interiori, nei casi più gravi la percezione patologica di voci nella schizofrenia. Invece nel settore linguistico e letterario l’endofasia allude al monologo interiore, e il mio pensiero vola alla nota commedia di Eduardo De Filippo titolata “Le voci di dentro”, nella quale la dimensione del sogno si confonde con quella della realtà: “Miche’, io me l’aggio sugnato! Ma così naturale! […]. Un sogno così inciso, preciso!”.

Avete fatto caso a quella voce dentro di noi che a volte  ci parla ?

Le voci interiori hanno relazione con gli stati d’animo e possono essere coinvolte in disturbi ansiosi e depressivi.  Possono assumere la forma di monologhi o dialoghi  a due. Ad ascoltare siamo sempre e soltanto noi stessi. 

A queste voci sono stati attribuiti diversi nomi. Esse sono un parlare a sé stessi in segreto (verbalizzazione interiore). Talvolta possono affiorare  e superare la soglia della verbalizzazione, e allora sembra che si parli da soli.

“Quando siamo impegnati nella verbalizzazione mentale contribuiamo a dare forma alla nostra esperienza interiore e agiamo per il mantenimento di una narrativa coerente del nostro Sé”, dice Helene Loevenbruck del “Laboratoire de psychologie et neurocognitions Cnrs” di Grenoble, autrice del libro: “Le mystère des voix intérieures”.

La voce interiore o il discorso interiore ci parla della nostra vita passata, esaminandola e giudicandola.

Tramite i dialoghi intrecciati con noi stessi possiamo continuare a immaginarci come un’unica persona nel corso degli anni.

Queste voci hanno un ruolo determinante in diverse funzioni psicologiche: per l’autoconsapevolezza e per la costruzione della memoria episodica, quella che raccoglie il filo degli eventi della nostra vita; ma anche per la possibilità che offrono di comprendere l’ambiente circostante, di immaginare e pianificare il futuro, di prepararsi a un incontro o a un confronto, a fare congetture e a risolvere problemi. Sono utilizzate per l’auto-incoraggiamento, quando si devono affrontare sfide e difficoltà, servono come forma di auto-conforto e come voce auto-critica.

Alcuni non percepiscono in modo evidente di avere  un monologo o un dialogo interiore.

C’è chi sviluppa idee e vita interiore con altre forme di pensiero: intuitivo in vari casi, in altri, la persona può affermare che al momento in cui  deve esprimersi verbalmente si accorge di dover effettuare una specie di traduzione in parole di quello che è il suo pensiero originario. Questo fenomeno può apparire visibile agli interlocutori, perché talora si manifesta con lunghe pause nei discorsi.

Leggere in silenzio un libro è forse la più semplice modalità per rendersi conto della propria voce interiore, in particolare se si legge un testo di narrativa con dei dialoghi. Senza rendercene conto tendiamo ad attribuire sfumature diverse di voce ai vari personaggi della storia. Alcuni studi hanno dimostrato che queste voci hanno l’accento regionale di chi legge.

Senza rendersene conto, chi legge un testo difficile da comprendere, utilizza il sistema della sub-vocalizzazione: è quel mormorio tipico di chi sta imparando a leggere e che è di aiuto per passare dalla parola scritta alla parola compresa.

Interessante anche il caso delle voci interiori delle persone che parlano più lingue: alcune ricerche hanno mostrato come la voce interiore possa modificarsi a seconda  del tipo di discorso che si sta facendo.

Ad esempio, chi emigra in un’altra nazione e ha tardivamente appreso  una seconda lingua, può parlare a sé stesso con la lingua materna quando tratta argomenti legati al suo luogo di nascita e con la seconda lingua quando tratta invece argomenti che hanno a che fare con l’attualità della nazione che lo ospita.

Alcuni ricercatori sono andati anche a esplorare  quella particolare esperienza  di voce interiore rappresentata dai dialoghi presenti nei sogni.

I sogni sono il prodotto della mente del sognatore, perciò tutti i dialoghi e le voci che al loro interno si manifestano potrebbero anche essere considerate una forma particolare di voce interiore.

Uno studio pubblicato sulla rivista “Cognitive science”, mostra come esperienze uditive  siano presenti in più della metà dei sogni fatti nelle varie fasi di sonno “rem” (= rapid eye movements”, caratterizzato da rapidi movimenti oculari sotto le palpebre chiuse) i sogni presentano spesso persone che parlano e il sognatore percepisce  frammenti di quelle voci, tra le quali quasi mai c’è la sua. Sono voci spesso antipatiche o minacciose.

La voce interiore può diventare incessante e fuori controllo, difficile da fermare, fastidiosa e disturbante, anche quando ci si impegna in tutti i modi a tentare di “spegnerla”. E’ la cosiddetta “ruminazione psicologica” una forma di pensiero ripetitivo, solitamente attivato da eventi sfavorevoli della vita. E’ considerata una strategia di regolazione delle emozioni negative.

Le persone usano varie strategie per la regolazione delle emozioni al fine di migliorare la propria esperienza emotiva nel caso di eventi stressanti.

La ruminazione rappresenta una forma di regolazione delle emozioni più dannosa di altre strategie, quali l’accettazione, la risoluzione dei problemi, la rivalutazione dell’accaduto o la soppressione dei pensieri.

Chi resta intrappolato nel pensiero ruminativo lo fa perché  forse sta tentando di comprendere  cause e conseguenze di tali eventi, al fine di mitigarne gli effetti. Ma questo tipo di pensiero, invece di aiutare a cercare soluzioni costruttive, finisce per focalizzare l’attenzione eccessivamente su di sé, sulle emozioni e sui problemi irrisolti, producendo così effetti negativi.

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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 18, 2024, 11:30:21 »
Il noto filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788 – 1860) nel primo tomo di "Parerga e paralipomena" scrisse anche un breve saggio titolato: "Aforismi sulla saggezza della vita", fatto diventare un testo autonomo col titolo “L’arte di ignorare il giudizio degli altri”.

Schopenhauer dice che diamo troppa importanza alle opinioni degli altri su di noi e che i loro giudizi condizionano i nostri comportamenti. Consiglia di imparare a vivere pensando al nostro benessere e alla nostra serenità.
"Chi è consapevole di non meritarsi un’accusa può tranquillamente ignorarla”.

L’economista ed imprenditore  statunitense Warren Edward Buffett scrisse: “Ci vogliono vent’anni per costruirsi una buona reputazione e cinque minuti per rovinarla. Se pensi a questo, farai le cose in modo diverso”.

La reputazione è condizionata dal gruppo di riferimento, il quale usa valori e criteri di giudizio propri, che possono essere differenti da quelli di altri gruppi. Per esempio, in un gruppo di delinquenti un criminale può avere un’ottima reputazione, il rispetto, l’ammirazione, e continuamente giudicato degno di apprezzamento.

Da questo punto di vista la reputazione è uno strumento di controllo sociale. Esprime il valore che un gruppo attribuisce ai comportamenti desiderabili.

Nell’ambito lavorativo le persone desiderano essere considerate  competenti, attive, però è impossibile  sapere veramente cosa gli altri pensano di noi o come ci descrivono.



Tra auto-percezione e reputazione (che può essere positiva o negativa) c’è un necessario rapporto che coinvolge l’autostima e l’identità personale da un lato, e l’opinione degli altri su di noi, dall’altro.

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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 13, 2024, 15:10:11 »
L’immaginazione è una funzione cognitiva indispensabile in ogni ambito delle nostre attività mentali, per esempio quando attraversiamo la strada è utile capire  (immaginare)  la velocità delle automobili in arrivo.

Nell’interazione interpersonale usiamo l’immaginazione per comprendere meglio i comportamenti degli altri ma anche per usare migliori strategie nel rapportarci con loro. Questa abilità è denominata “perspective taking”.

Per quanto riguarda l’immagine corporea,  la rappresentazione che ci formiamo nella mente del nostro aspetto fisico deriva dalle informazioni provenienti dai diversi tipi di recettori sensoriali che dalla periferia del corpo raggiungono la corteccia cerebrale e vengono sintetizzati dal sistema nervoso centrale. Ma le  informazioni sensoriali non bastano. Vengono integrate da altre: i fattori socio-ambientali, le esperienze, l’autostima ecc..

La costruzione mentale della propria immagine corporea comincia fin dai primi mesi di vita. Poi, negli  anni dell’adolescenza l’immagine viene modificata dai cambiamenti fisici.

L'adolescente costruisce una sua immagine ideale osservando il proprio corpo con quello dei pari, confrontandosi con persone che egli fisicamente ammira, segue le indicazioni che il suo ambiente culturale dà sulla bellezza e la prestanza fisica.

Anche l’influenza di amici e conoscenti ha un peso importante, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, quando essere considerati attraenti significa maggiore accettazione dagli altri.

Le crisi adolescenziali sono fisiologiche e spesso basate sull’insoddisfazione del proprio aspetto fisico, da cui scaturisce la conflittualità tra l'immagine corporea e quella ideale, connessa con i valori sociali e le influenze culturali.



E’ notevole l’influenza dei mass media sullo sviluppo  dei disturbi dell’immagine corporea. I mezzi di comunicazione di massa  mostrano ideali di bellezza che si discostano dalla media della popolazione e generano l’insoddisfazione di sé. La consideriamo inadeguata rispetto ai modelli  socialmente proposti. Ci vediamo con dei difetti e, se si può, tentiamo di eliminarli o nasconderli tramite diete, esercizi ginnici, la cosmesi od interventi di chirurgia estetica.
Nella maggior parte dei casi questa conflittualità termina quando l'adolescente accetta la sua identità, anche sessuale,  e c'è la fusione dei due tipi di immagine.

Se  il contrasto tra immagine corporea e l’immagine ideale persiste il conflitto diventa problematico.

Tutti, giovani e meno giovani, vorrebbero essere belli, fisicamente perfetti, ma la natura è indifferente ai nostri desideri.

L’immagine corporea femminile subisce modifiche anche durante la gravidanza. Per nove mesi l’organismo si adatta alla gestazione, e di solito c’è l’accettazione del cambiamento nella forma fisica.

La non accettazione della propria immagine corporea può creare conseguenze psicosomatiche e gravi problemi con l’alimentazione, come la bulimia  e l’anoressia. L’anoressica usa il corpo come campo di battaglia tra psiche e soma, considera il suo corpo o una parte di esso come un persecutore da controllare.

I disturbi dell’immagine corporea  coinvolgono la percezione, le emozioni, la parte cognitiva, il comportamento, possono assumere forme differenti.

Dal punto di vista cognitivo i disturbi dell’immagine di sé compaiono quando si hanno aspettative irrealistiche. La difficoltà ad accettare la propria immagine può generare sfiducia, vergogna, tristezza, ansia, sottovalutazione delle proprie potenzialità e progressivo isolamento sociale per evitare l’evitamento delle situazioni in cui il proprio aspetto  può essere sottoposto allo sguardo ed al giudizio altrui.


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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 12, 2024, 17:41:08 »

Di solito siamo convinti che ciò che noi percepiamo corrisponda esattamente alla realtà, non è così.

Le altre persone non ci vedono nello stesso modo in cui ci vediamo noi.

La teoria dell'Io riflesso, elaborata nei primi anni del ‘900 dal sociologo Charles Cooley ed esposta nel libro titolato: “Human Nature and the Social Order”, evidenzia che la nostra identità oggettiva  e soggettiva si fondono per creare l’immagine  di come ci percepiamo. Simbolicamente, tale fusione può essere rappresentata con l’immagine riflessa in uno specchio, che ci permette di guardare il nostro viso, il nostro corpo ed è l’immagine  che ognuno ha di sé stesso: ci vediamo sempre come siamo abituati a vederci, ma  la nostra immagine riflessa nello specchio non corrisponde esattamente a come gli altri ci vedono.

Spesso ci sorprendiamo quando ci vediamo in una foto: quella è l’immagine che gli altri vedono di noi, però il giudizio estetico può variare da persona a persona.

Non è possibile avere accesso diretto ai pensieri degli altri, ma possiamo fare affidamento sul feedback che riceviamo. Le reazioni delle persone, i loro sguardi, i loro commenti possono darci un’idea di come veniamo percepiti.

Di solito è basso il livello di concordanza tra il giudizio che diamo del nostro aspetto estetico e quello che ne danno gli altri. Non ci vediamo come gli altri ci vedono.

La nostra immagine corporea viene elaborata nel cervello: è un processo di integrazione fra percezioni,  cognizioni,  emozioni e sentimenti.

La rappresentazione mentale sia della forma e dimensione del nostro corpo  sia i sentimenti che proviamo per tali caratteristiche o per le singole parti può influire sull’autostima e causare problemi psicologici anche gravi, come l’anoressia e  la bulimia, innescate dall’eccessiva preoccupazione  per la propria esteriorità.



In particolare fra le donne è  diffusa la tendenza di guardarsi allo specchio e vedersi brutte, grasse e fuori forma.  Spesso  sono severe con sé stesse nel giudicarsi  e vedono difetti nel proprio corpo anche dove non ci sono.

Vari sondaggi tra le donne tra i 18 ed i 55 anni hanno rilevato che il 93 per cento di esse si considera brutta.

Non considerarsi bella/o viene definita: “Body Image Disturbing” (= disturbo dell’immagine corporea), che può causare problemi psicologici.

L’importanza che l’individuo attribuisce alla propria apparenza fisica e la discrepanza tra corpo percepito e corpo reale o ideale può creare problemi di autostima e, come sopra detto,  disturbi collegati all’alimentazione, come la bulimia e l’anoressia.

La distorsione della visione di sé, frequente nei casi di anoressia, è spesso il risultato della ricerca di magrezza, come indicata dalla moda e dai mass media per valorizzare la propria bellezza e l’aspetto esteriore.

Le persone affette da anoressia sono di solito insoddisfatte del proprio peso e aspetto fisico, in particolare sovrastimano alcune parti del loro corpo (seni, pancia, addome, glutei, gambe). La perdita di peso, nel tentativo di raggiungere l’immagine corporea ideale, le aiuta nell’autocontrollo, invece l’aumento ponderale determina in loro frustrazione e disistima.

Tra le adolescenti è diffusa l’insoddisfazione per il proprio corpo.

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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 11, 2024, 08:45:22 »
Oggi per colazione vi offro "self image e reputazione". Vi garba ? Pensate che al mattino è difficile da digerire? 

Nel precedente post ho citato le frasi  “sé sociale” e “giudizio altrui”: quando quest’ultimo è negativo può essere deleterio per l’individuo con bassa autostima.

La reputazione è la considerazione che gli altri hanno di una persona: il giudizio sociale, incentrato sull’immagine sociale dell’individuo; questa è  basata sull’esteriorità e sul comportamento.  Mostrarsi è il punto cardine di raccontare sé stesso.

La lesione della reputazione può avvenire in molteplici modi: non solo attraverso pettegolezzi o maldicenze, ma anche mediante l’insinuazione.

La diffamazione offende la reputazione altrui ed è un reato che prevede la punibilità dal Codice penale. Idem per l’ingiuria.

L’ingiuria tende ad offendere l’onore o il decoro di una persona, invece la diffamazione lede la reputazione.

Nell’ambiente sociale in cui viviamo, in particolare in quello lavorativo, gli altri osservano continuamente i nostri comportamenti ed esprimono opinioni sulle nostre competenze, la personalità, l’impegno, ed esprimono il loro giudizio. Il processo di costruzione della propria reputazione necessita di tempo.

L’antico filosofo greco Socrate diceva che “il modo per ottenere una buona reputazione sta nell’agire per essere ciò che desideri apparire”.

La buona reputazione è il capitale sociale di un individuo o di un’organizzazione, ed assicura credibilità e affidabilità.

Per evitare di restare paralizzati dal giudizio degli altri riguardo la propria reputazione, è importante verificare, se è possibile, sulla base di quali parametri si forma la loro opinione. Quante vite spezzate, quanti sogni e progetti naufragati a causa della malvagia reputazione da parte di altri e ritenuta insopportabile!

Charlie Chaplin, a questo proposito, raccomandava: “Preoccupati più della tua coscienza che della reputazione. Perché la tua coscienza è quello che tu sei, la tua reputazione è ciò che gli altri pensano di te. E quello che gli altri pensano di te è problema loro”.

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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 10, 2024, 09:33:21 »
L’immagine di sé, o self image, è la rappresentazione mentale che un individuo ha di sé stesso, con i propri tratti caratteriali, i sentimenti e i comportamenti. Si giudica da solo  basandosi sulle proprie esperienze. Se prevalgono quelle negative cala l’autostima.



Il modo in cui l’individuo considera sé stesso non dipende solo dalle riflessioni personali sulle proprie caratteristiche,  ma anche da come è percepito dagli altri, il “Sé sociale”: egli immagina come gli altri  lo valutano.

Il timore del giudizio altrui  nei propri confronti è frequente e normale, in particolare quando l’autostima è bassa  e subentra il disturbo di “ansia sociale”.

Temiamo di essere giudicati per l’aspetto, l’atteggiamento, la personalità, le nostre scelte. Temiamo l’umiliazione, il rifiuto, il disprezzo.

Vogliamo essere ben valutati e lodati. In caso contrario ci sentiamo frustrati. Ma In questo modo rischiamo di anteporre le critiche altrui avanti i nostri bisogni pur di farci accettare.

Ci sono individui che sono  “specializzati” nel criticare gli altri. Feriscono l’orgoglio di una persona e la inducono a mettersi sulla difensiva, a giustificarsi per ciò che ha fatto, a sentirsi inferiore, a chiudersi in sé stessa.

Il giudizio critico spesso si basa sulle apparenze, non conoscendo il vissuto di un individuo, i suoi sentimenti. A questo proposito c’è una “parabola”.

Un conoscente disse a Socrate:  “Ho saputo delle cose sul tuo amico, vuoi saperle ?”.

“Un momento“, rispose Socrate.  “Prima di raccontarmele  vorrei informarti della “regola dei tre setacci”.
 
”I tre setacci ?, rispose il pettegolo”.

Sì,  continuò Socrate. “Prima di raccontare  maldicenze verso gli altri  è necessario riflettere riguardo a ciò che si vuol dire.

Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero?”.  “No…,  ne ho solo sentito parlare.” “Perciò non sai se è la verità !. 

Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono ?” “Ah no, al contrario!”. “Dunque”, continuò Socrate, “vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere”.

Il terzo setaccio, quello dell’utilità. È utile che io sappia cosa avrebbe fatto questo amico?”. “No, davvero", rispose il conoscente. “Allora“, concluse Socrate, “se ciò che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile, io preferisco non saperlo, e ti consiglio di non dimenticarlo.“

La “regola dei tre setacci”, in realtà, non è riconducibile a Socrate, l'antico filosofo greco. E’ tratta dal libro “La via del guerriero di pace”, dello scrittore statunitense  Dan Millman, che racconta il suo incontro e la sua esperienza con un  saggio maestro  da lui chiamato Socrate.

Comunque la “parabola” invita a  domandarci se ciò che si vuol dire nei confronti di un’altra persona sia la verità, se è una cattiveria e se è utile farla sapere ad altri.

Charlie Chaplin diceva:  “Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei! Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un’opera di teatro, ma non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca priva di applausi.” Questa opinione fa riflettere.

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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 08, 2024, 10:57:33 »
Oggi vi “offro” il  potere dell’immaginazione, in lingua greca antica: “eikasia” =  rappresentazione mentale tramite immagine.   

Il filosofo e scrittore francese Michel de Montaigne nel saggio “Della forza dell’immaginazione” scrisse:  “Fortis imaginatio generat casum” (= Una forte immaginazione genera l’evento).

L’immaginario è un prodotto dell’immaginazione, che a sua volta produce l’immagine.

L’immaginazione è indipendente dalla vista ed è fondamentale per l’attività creativa. Inoltre, ci permette di intuire, di elaborare nuove idee, rappresentare con la fantasia cose, persone, e avvenimenti in forma di immagini. Per esempio lo scrittore Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso immagina il duca Astolfo a cavallo dell’Ippogrifo  che vola verso la Luna  per recuperare la ragione di Orlando. Là ci sono tutte le cose che si perdono sulla Terra.



I bambini immaginano partecipare ad avventure, le considerano vere.

Se immagino il mare e il golfo che ho frequentato nell’infanzia e nell’adolescenza, mi sembra di vedere  quel mare, e all’orizzonte  il sole che pare emergere durante l’alba, oppure immergere al tramonto.  Oltre a ciò, mi piace immaginare  anche il mormorio delle onde, la brezza marina. Sono illusioni tramite l’immaginazione.


Tutti immaginiamo chi vorremmo essere o cosa vorremmo avere, immaginiamo  per cercare una momentanea fuga dalla realtà  in altri mondi e scenari.


La parola “immaginazione” viene spesso usata come sinonimo di “fantasia”, dal latino  phantasia  (= “mostrare”, “apparire”), ma la  psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno introdotto una significativa differenziazione tra i due processi mentali, denominati in inglese imagery e imagination.


Imagery è il processo di produzione di immagini mentali, generate  all'interno della mente senza una fonte esterna di stimolazione (che dà luogo invece a 'ciò che è percepito' o percetto).

L'aggettivo “mentale” viene usato per evidenziare  l'origine interna dell'immagine, consentendo di indicare prodotti che non hanno alcun riferimento a oggetti o stimoli della realtà esterna.

Imagination è invece il processo di combinazione creativa delle immagini, che spesso viene indicato in italiano con fantasia: un insieme di operazioni mentali implicate nella produzione artistica, ma anche in forme di attività mentale, come le fantasie infantili,  oppure le fantasie sessuali: sono immagini mentali sessualmente eccitanti.  Queste sono presenti anche nelle coppie che tendono alla monogamia. Capita che la loro mente vaghi alla ricerca di qualcosa di nuovo, di eccitante, anche con altri partner.


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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 06, 2024, 18:21:44 »
Nell’antica filosofia cosiddetta “classica” il Sé corrispondeva all’anima.

In ambito psicologico l’immagine di sé si riferisce alla percezione che una persona ha di sé stessa e  su cui poggia il suo “senso di identità”.

Tutti noi abbiamo un'immagine del tipo di persona che crediamo di essere. Ciò, in parte, riflette il modo in cui gli altri ci vedono. Ma il sé rappresenta una nostra creazione, frutto di pensiero riflessivo e capacità rappresentativa.

Il neuro-scienziato italiano Giorgio Vallortigara in un suo articolo titolato “Viaggio in una mente senza immaginazione”, pubblicato  sul quotidiano Il Sole 24 Ore, del 22 settembre scorso, evidenzia che la mente umana è capace di  generare un insieme di dimensioni identitarie: immagina continuamente la realtà: è come se, sullo sfondo di quel che vede e comprende, essa immaginasse diverse versioni di realtà e le comparasse continuamente con la realtà vera, facendo aggiustamenti e percependo, in fondo, solo gli scostamenti. Questa capacità di immaginazione ha conseguenze importanti sul modo in cui viviamo. Infatti l’immagine di sé ha un ruolo determinante  nella vita di un individuo,  perché influisce sulle sue scelte e sulle relazioni interpersonali.

Nelle nostre interazioni quotidiane con gli altri quasi mai c’è la  consapevolezza di quanto la percezione di noi stessi vari nello spazio e nel tempo, risultando spesso in un compromesso tra visioni, aspettative e percezioni differenti.
Siamo diversi a seconda del ruolo e questo è spesso condizionato  dall’ambiente in cui ci troviamo.



Possiamo cambiare atteggiamento, capacità e persino mentalità quando siamo in circostanze diverse. Non si tratta di fingere o di mentire:  avere diverse identità secondo l’occasione è comune e “normale”.

Lo spostamento tra i sé diventa più visibile nei momenti di passaggio: dal sé in vacanza al sé al lavoro, per esempio.
Siamo sempre la stessa persona ma la prospettiva lo  cambia, con conseguente cambiamento del nostro modo di comportarci e le sue conseguenze.
L’elaborazione avviene nella nostra mente, mentre le conseguenze in termini di scelte e comportamenti danno forma all’interazione con gli altri. 

Nel corso della nostra vita, abbiamo dovuto abbandonare delle idee di noi: di quel che avremmo voluto o potuto essere e non siamo diventati.

Sono i nostri possibili sé passati, che restano con noi sotto forma di rimpianto, desiderio, nostalgia di quel che avrebbe potuto essere, apparendoci a volte anche più vividi dei ricordi, perché nella nostra immaginazione non hanno dovuto confrontarsi con la realtà.

I nostri possibili sé passati sono compagni di viaggio che abbiamo frequentato solo nella nostra immaginazione: che abbiamo amato nel loro potenziale e poi, col senno di poi, abbiamo scoperto di aver perso.

Come ci fanno sentire, che cosa proviamo per quella parte di noi che “non è stata”?  Secondo Vallortigara fa differenza per il modo in cui vediamo noi stessi nel presente, se siamo in pace con quella parte della nostra identità, se vi dialoghiamo e se lo facciamo con una forma di tenerezza, se ci perdoniamo insomma per quel che abbiamo perso o mai raggiunto.

I possibili sé futuri. Forse non li abbiamo sempre in mente, ma sono una proiezione tipica dei momenti di transizione. Succede qualcosa nella nostra vita  e la nostra mente reagisce proiettando diverse possibilità di sé, della nostra identità in evoluzione che difficilmente diventeranno reali, ma che sono comunque importanti nel dare una direzione alla nostra vita.

Nei momenti difficili non riusciamo a immaginare chi diventeremo. Pensiamo che farlo sia una perdita di tempo, che tanto sarà il destino a decidere per noi.

I possibili sé futuri sono l’espressione della nostra percezione di libertà e auto determinazione: quando il contesto le riduce, anch’essi si riducono a delle ombre che riusciamo ad intuire.

I nostri possibili sé futuri sono dei compagni di viaggio con cui dialogare, pur sapendo che quelli di loro che diventeranno reali saranno ben diversi dal nostro immaginario: se abbiamo fatto pace con i possibili sé passati che non siamo stati, anche fallire i sé futuri ci farà meno paura e saremo più liberi di immaginarli.

Sono dimensioni identitarie di noi che convivono nella nostra mente, rendendo la nostra identità più ampia: alternandosi, scontrandosi, rigenerandosi a vicenda e influenzando il modo in cui vediamo, comprendiamo e diamo forma al nostro mondo. Possiamo ignorarle, rifuggirne la complessità, provare a ridurle a elementi monodimensionali apparentemente più facili da gestire e da inserire nei contenitori “semplici” di cui il mondo ci circonda, oppure possiamo riconoscerle e farcele amiche, e così facendo scoprire l’universo di possibilità che ci appartiene già… perché fa già parte della nostra vita.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Penelope
« il: Ottobre 04, 2024, 19:24:01 »
Ulisse tornò ad Itaca dopo venti anni solo perché amava Penelope ed era re dell’isola ? 

Allora perché decise, ancora una volta, di lasciare  il suo regno e con i suoi compagni intraprendere un altro viaggio, quello nefasto, secondo Dante Alighieri ?(Inferno, canto XXVI).
 
Forse l’eroe fece credere a Penelope  di essere  caratterialmente rimasto quel che era vent’anni prima e che  per lui nulla era cambiato ? 

La permanenza ad Itaca  lo fece consapevole che la moglie non era più quel che lui pensava ?  O lui smise di amarla e desiderarla ?

Probabilmente nella sua isola si stava  annoiando,  e Ulisse preferì ripartire con i suoi compagni di avventure  per un altro viaggio conoscitivo, ma fu quello senza ritorno.


Le cosiddette  “Colonne d’Ercole” hanno rappresentato fino al Medioevo  il limite ultimo e invalicabile della Terra conosciuta. Secondo il mito, Ercole pose le “colonne” ai lati dello Stretto di Gibilterra.

Per Odisseo quest’ultimo viaggio  non fu il fato a volerlo ma una sua scelta.

Pensando alla sua decisione,  il mio pensiero corre allo psicologo statunitense Julian Bernard Rotter (1916 – 2014), conosciuto per aver sviluppato la teoria dell’apprendimento sociale elaborata da Albert Bandura  e per  il “locus of control” (= luogo di controllo).

In psicologia ci sono due “locus of control”:

il luogo di controllo interno o interiore,  è quello posseduto dagli individui che credono nella propria capacità di controllare gli eventi. Questi soggetti attribuiscono i loro successi o insuccessi a fattori direttamente collegati all'esercizio delle proprie abilità, volontà e capacità;

il luogo di controllo esterno, posseduto da coloro che credono che gli eventi della vita, come premi o punizioni, non siano il risultato dell'esercizio diretto di capacità personali, ma dall’esito di fattori esterni imprevedibili, come  la fortuna o il fato.

Nel primo caso  è Ulisse l'agente, nel bene e nel male, che decide del proprio destino; nel secondo, invece,  Odisseo  crede  che siano fattori esterni a condizionare la sua vita.

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Cogito ergo Zam / Re:Imago
« il: Ottobre 01, 2024, 16:05:05 »
I sostantivi "immaginazione" e "immagine" nell’antica lingua greca erano “eikasia” o “phantasia”, riferiti l'uno e l'altro alla facoltà dell'immaginare, senza che ci sia una differenza netta fra l'attività immaginativa e quella fantastica.

L'oggetto dell'immaginare o del fantasticare è detto eidolon, idolo o phantasma.

Il concetto di immaginazione e quello di fantasia rinviano entrambi alla capacità della mente di rappresentarsi immagini di  cose e fatti corrispondenti o no a una realtà. È il processo attraverso il quale trasformiamo pensieri astratti in immagini. La “fantasia” è determinante per il pensiero creativo, perché  consente di farci esplorare possibilità al di là dei confini della realtà tangibile.

Nel tempo, il significato dei due termini, coincidenti per molti versi, si è differenziato in quanto all'immaginazione è stato assegnato il ruolo di generare immagini,  riproduzioni mentali di oggetti della realtà, mentre alla fantasia quello dell'elaborazione estetica delle rappresentazioni o immagini mentali.

L'immaginazione o fantasia produce non solo immagini mentali visive, ma anche immagini tattili, acustiche, olfattive e motorie.

Nell'atto creativo queste immagini mentali possono esprimersi in dipinti, sculture, poesie, musica, danze, ecc.

L’antico filosofo greco Platone tratta il tema dell'immaginazione in “Repubblica”, “Teeteto”, “Timeo” e “Filebo”. Egli si domanda: "Immaginazione e fantasia sono realtà? Ma che tipo di realtà"? Sembra consapevole della difficoltà di rispondere con chiarezza.
 
Per Platone la phantasia si genera dal contatto con le cose reali per poi divenire attività creativa autonoma di cui solo l'uomo è capace. Essa esplica una funzione conoscitiva  ed è accomunata alla memoria.


Nel IV sec.a. C.  il filosofo Aristotele nel “De memoria et reminiscentia” e nel “de anima” definisce l'immagine mentale un ricordo collegato alla sensazione e al pensare.

Per capire le dinamiche del ricordo questo filosofo fa l’esempio dell’immagine di un animale dipinto che, essendo al tempo stesso l’animale e la sua rappresentazione, diventa “reale” o “presente” solo quando attiviamo i dati immagazzinati nella memoria, cioè attraverso il ricordo che si ha di lui.

Per lo  stagirita la reminiscenza rinvia alla capacità di stabilire connessioni, spesso correggendo, dirigendo e trasformando i dati conservati dalla memoria. L'immagine è sensazione, memoria, pensiero e soprattutto simbolo.

Nel nostro tempo il pittore surrealista René Magritte realizza il dipinto titolato “Il tradimento delle immagini”, nel quale, sotto la rappresentazione di una pipa su uno sfondo uniforme scrive la frase “Questa non è una pipa”.

 
E’ vero che non è un oggetto reale, ma solo la sua raffigurazione, che l’artista  belga ripropose più volte nei suoi dipinti.


René Magritte, Ceci n'est pas une pipe, dipinto a olio su tela, 1929,  Los Angeles County Museum of Art

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Cogito ergo Zam / Imago
« il: Settembre 30, 2024, 19:42:59 »
Il vocabolo latino “imago” ha attraversato i secoli e nella lingua italiana lo denominiamo “immagine”.




Il sostantivo imago conduce il mio pensiero  a quando ero adolescente e la costrizione di dover imparare a memoria le poesie, come quella titolata

“Alla sera”


Forse perchè della fatal quïete
Tu sei l’imago a me sì cara, vieni,
O sera!

E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquiete
Tenebre, e lunghe, all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure, onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

(Ugo Foscolo)

Questo sonetto fu pubblicato nel 1803.

Per Foscolo la silenziosa  sera è come se offrisse un fermo immagine, tutto tace.  E medita il poeta sulla morte, considerata come “fatal quiete”, il nulla eterno che libera l’individuo dai problemi quotidiani.

Tornando all’etimologia, dal sostantivo “immagine” deriva il verbo  immaginare,, il sostantivo immaginazione, l’aggettivo immaginario, l’aggettivo immaginifico.

Immaginare: significa “vedere”,  rappresentare con la fantasia cose, persone e avvenimenti in forma di immagini.

Immaginazione: è la facoltà del pensiero di interpretare la realtà.
Come attività dell’intelletto è  considerata facoltà creatrice. Si pensi allo straordinario potere dell’immaginazione nella lettura di un libro.

Immaginario: che è effetto dell’immaginazione, che non esiste se non nell’immaginazione. 

Imaginifico (= creatore d’immagini)  fu detto Gabriele D’annunzio, che nel suo romanzo titolato “Il fuoco” usa questo attributo per definire il giovane e geniale poeta  Stelio Effrena, personaggio della narrazione col quale lo scrittore abruzzese dissimula sé stesso.

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