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Post - crisca

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Introspettivo / Genova
« il: Febbraio 02, 2014, 01:06:22 »
Genova è una città che intriga. Visitarla ricorda “Le città invisibili” raccontate da Calvino: ti senti pronta ad entrare in una dimensione diversa da quella consueta. Qui è la verticalità che sposta il punto di vista con cui osservare le cose. Ogni situazione deve tener conto di questo. Le abitazioni sembrano alberi altissimi in cerca del sole, le percepisci come un unico grattacielo anche quando ce ne sono due o tre addossate una dietro l’altra. I giardini pensili diventano piccole realtà pianeggianti che ignorano ciò che c’è sotto, ovvero un’altra parte di città che a sua volta nasconde l’area portuale più in basso. Sembra di vivere in una torta a strati dove assapori il gusto di ogni piano e solo quando li hai visitati tutti riesci a cogliere la bontà della fetta che hai assaggiato.
Dall’alto Genova offre il panorama ampio e aperto del mare. Con le spalle ti senti appoggiato alla roccia e non sai se il senso di vertigine che provi è dato dalle pendenze che vedi guardando la collina o lo strapiombo davanti a te. 
Come molte città di mare, ti invita a partire. Senti crescere dentro la malinconia del viaggiare, con l’inquietudine per ciò che lasci e l’apprensione per ciò che troverai. Una sensazione che, una volta provata, diventa desiderabile al solo pensiero di partire. Le navi al porto rinnovano questo stato d’animo con i loro lenti e ritmati movimenti; le vedi allontanarsi dal molo e poi lentamente farsi piccole all’orizzonte e ti chiedi in quali dimensioni si potranno perdere nel loro isolamento acquatico, come piccoli pianeti nell’universo.
Il porto si presenta come un’unica grande officina; gru e grandi macchinari, ossidati dalla salsedine, sembrano giganti manovratori a lavoro, ora tranquillo, ora brioso. All’inizio tutto sembra caotico, poi ti accorgi dei ritmi e dei sincronismi misteriosi delle diverse operazioni di carico e scarico. La lanterna diventa la guardiana di tutta l’attività; immobile, gigantesca, ha visto le onde che prima le bagnavano i piedi farsi più in là e poi sempre più in là, ha visto alle sue spalle sparire la linea delle colline e comparire nuove spianate dove si sono subito ammucchiate costruzioni moderne. Ma lei sta là col suo occhio luminoso, potente e rassicurante.
Genova si estende e lievita lungo la costa inglobando paesi un tempo a sé ed ora divenuti quartieri. Un organismo che riconosce le sue differenze e peculiarità, ma cerca di vivere tenendosi stretto a fronteggiare il mare davanti e i monti dietro.
Il cuore di Genova pulsa nei vicoli stretti dell’antico castrum, nelle pendenze verso il porto, nei marmi bianchi e nell’ardesia scura che dipingono le strisce del duomo. Qui ogni palazzo è un gioiello prezioso per la bellezza e la ricchezza antica. Qui una chiesetta romanica racchiude un concentrato di arte che nel tempo si modifica e rende ogni particolare sempre più elegante. Tutto stretto e vicino l’uno all’altro. Tutto condensato fino ad aprirsi verso strade più larghe e “nove”. Via Garibaldi sottolinea la dignità della Genova che si presenta. Le corti nascondono meraviglie e all’interno la preziosità del violino di Paganini fa palpitare il cuore; vi si riconosce il contatto d’amore verso lo strumento che, accarezzato dal Maestro con la guancia, sembra, solo a guardarlo, liberare i suoi suoni passionali.
Guardare Genova dal tetto di un palazzo del centro è un privilegio. I tetti di ardesia bagnati dalla pioggia luccicano alla luce del giorno, asciugati al sole sembrano una distesa di sabbia scura. Qui si vede l’unicità di questo centro: ogni elemento è collegato all’altro, da un tetto si passa attraverso scalette e sottili ringhiere, al palazzo accanto e, in modo ancor più straordinario, dal tetto si esce direttamente sulla collina che in più punti avanza sopra le case con le sue strade e, di nuovo, i suoi palazzi. Qui ogni riferimento spaziale è relativo: ciò che è tetto diventa piano terra poco sopra, il giardino con i suoi alberi è anche la copertura del palazzo più a valle. E’ un gioco continuo dove smonti e rimonti la città. Via via che sali con l’ascensore la città si compone e si scompone nei suoi pezzi, lasciandosi dominare solo sulla parte alta.
Genova ha avuto bisogno di dare spazio alla sua opulenza, alla sua rilevanza economica della fine dell’Ottocento e, come città del Regno dei Savoia, magnifica se stessa con gli edifici del palazzo ducale e del corso, che ricordano la regalità di Torino. Così, fuori dai vicoli, ti appresti ad allargare lo sguardo sulla piazza con la fontana rotonda, ad attraversare il corso che si allunga diritto davanti a te, ad ammirare la grandiosità del teatro.
Tanti contrasti, tanti opposti: alto e basso, stretto e largo, antico e moderno, mare e monti. Ogni cosa sembra trovare il suo posto, forse solo in attesa di una partenza verso nuovi mondi.





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Introspettivo / Re:L'odore dell'orzo
« il: Giugno 08, 2012, 00:23:24 »
mi è sembrato di sentire...il profumo del caffellatte....
grazie

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Sentimentale / Re:Isabela
« il: Giugno 06, 2012, 23:46:19 »
Qui tutta la gioia, la passione, il dolore, la malinconia che tingono inevitabilmente la nostra vita; ma per poter assaporarne ogni pezzo occorre gustarli... anche attraverso una scrittura così.... deliziosa!

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Introspettivo / Re:L'angelo
« il: Maggio 27, 2012, 00:04:46 »
Grazie per sostenere la mia fatica: non nello scrivere, ma nel trovarsi....
Vado a leggere la poesia.

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Introspettivo / L'angelo
« il: Maggio 23, 2012, 00:22:46 »
Finalmente l’angelo si svegliò. Aveva dormito a lungo, di un sonno profondo. Secoli o giorni poco importava: non c’era un passato, non c’era un futuro, solo un lungo nastro di eternità. Nonostante questo, l’angelo sapeva che esisteva un prima, il suo lungo sonno, e un dopo, il suo risveglio. Adesso era il momento e solo quell’”adesso” splendeva di luce piena.
Prese il suo abito e la sua corazza, scrollò la polvere e si mise a lucidare la superficie ramata dell'armatura. Un fremito risvegliò le sue ali. Dimentico di quella sua singolare caratteristica, volse lo sguardo all’indietro, cercando di distendere ogni penna ed ogni piuma di quella strana attrezzatura. Sentì le scapole aprirsi e tutta la sua schiena fu attraversata da un fresco fruscio. Come gabbiano pronto a spiccare il volo, sbatté le ali e ne provò la forza d’impatto sull’aria. Tutto era a posto.
Si vestì con estrema cura, lasciando per ultima la spada di fuoco. La maestosità della sua figura lo rendevano ancora più affascinante: mistero sacro e divino.
In realtà l’angelo era solo.
Si era ritrovato investito da quel ruolo senza nessun contatto con altre entità. Eppure già sapeva quale fosse il suo compito. Con passo deciso attraversò lo spazio dilatato che lo separava dalla realtà parallela in cui era immerso. Si lanciò nel cielo dove nessuno poteva vederlo. Le sue ali si distesero completamente al sole e la sensazione che lo attraversò fu intensa ed inebriante. Volava per la prima volta. Volava concedendosi alla massa d’aria che lo sosteneva. Volava sopra tutto e sopra tutti.
Volava con la pienezza della sua scelta di lanciarsi nel vuoto, con la fiducia di chi sa che può superare la paura del nulla sotto di lui, nonostante il peso ingombrante della sua divisa.
Dove andava?
Non era importante. Il suo compito era solo quello di essere. Essere l’angelo che distende le sue ali. Essere l’angelo che si affida al mondo. Essere l’angelo che nella sua maestosità diventa l’immagine della forza suprema dello spirito umano. Colui che osa perché si affida.
L’angelo volò e vola ancora nella sua realtà parallela sopra mari e monti, sopra città e spazi inesplorati, ricordando a tutti che ognuno può, senza bisogno d’altro che del proprio concedersi; a se stesso prima di tutto.

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Introspettivo / Lucilla
« il: Aprile 10, 2012, 00:00:06 »
La nascita di Lucilla fu un evento eccezionale: nacque da una conchiglia rosea e madreperlata. Fu raccolta da un anziano pescatore che subito l’adottò.
Lucilla crebbe serena tra il sale del mare e gli odori del rosmarino e del mirto che circondavano la sua casa vicino alla spiaggia. I suoi capelli erano lunghi, neri e lucenti e la sua pelle bronzea emanava profumo di mare.
Aveva vent'anni quando il pescatore morì, ma prima di spirare le disse:”Ti lascio la mia rete da pesca: anche se non ti ho mai insegnato ad usarla, so che può esserti utile nella vita!” Lucilla non capì cosa avesse voluto dire il pescatore, ma prese la rete con sé e partì.
Non sapeva cosa fare, non sapeva dove andare, ma sentiva che doveva, doveva mettersi in viaggio.
Girò strade di città e strade di montagna lavorando qua e là per sopravvivere. Con sé portava sempre la rete, senza sapere cosa farne. Una sera, una sera d’estate, la luna splendeva nel cielo in tutta la sua rotondità. Lucilla la guardava persa nei suoi pensieri fatti di sogni lontani, di ricordi del cuore e problemi del domani. Lucilla guardava la luna e la luna guardava Lucilla. I loro grandi occhi sembravano parlarsi appassionatamente come due teneri amanti che ancora non hanno scoperto il loro cuore l’uno all’altro. Rimasero così per lungo tempo fino a quando Lucilla si decise: prese la rete da pesca, la distese davanti a lei, poi, fatta roteare, la lanciò con quanta più forza poteva verso la luna.
Così Lucilla riuscì ad imbrigliarla nella rete e la tirò giù. La luna cadde e si spaccò in due parti come un grande uovo. Vi uscì un giovane, vestito come un principe, dallo sguardo innamorato che si perse in quello di Lucilla.
I due innamorati passarono insieme la notte, poi, al mattino, il principe entrò nella luna e Lucilla liberò la grande sfera che salì subito in cielo.
Tutto ciò si ripeté per diverse notti dove Lucilla viveva la sua felicità notturna. Ma il suo carattere lentamente cambiava: gli amici ed i conoscenti non riuscivano più ad attraversare i suoi pensieri.
Di giorno in giorno, di notte in notte, i suoi capelli, neri e lucenti, si ammantavano di una leggera polvere argentata. Era come se Lucilla non ritrovasse più, alla luce del giorno, la strada verso i suoi desideri, le sue aspirazioni, i suoi progetti.
Un mattino, mentre stava lavorando vicino al mare, sulla superficie dell’acqua le increspature delle onde disegnarono il volto del vecchio pescatore. Lucilla lo vide e lo sentì parlare al suo cuore:”Che ti succede? Quale rotta del mare ha preso la barca della tua anima? E questa polvere argentata che tutta ti ricopre ti concede la felicità?” Lucilla non riuscì a rispondere ma le lacrime cominciarono a  rigarle il viso. Le onde del mare erano tornate tranquille, ma Lucilla era rimasta turbata e si chiedeva se davvero fosse felice di quell’amore immerso nel buio della notte. Decise di non pescare più la luna per qualche notte. Riuscì a sentire anche le voci preoccupate dei suoi amici, ma tutto le appariva lontano, come di un altro mondo.
Provò a cercare un lavoro fisso in cui potersi immergere.
Cambiò città.
Prese a cavalcare alla sera lungo i campi arati.
Ma tutto ciò sembrava solo far ribollire la sua ansia. Finché una sera, ormai delusa, prese la rete ed imbrigliò la luna. Quando il grande uovo si ruppe, uscì di nuovo il principe che le sorrise. Lucilla sentì l’angoscia pressarle la gola: doveva prendere una decisione. Si alzò, prese per mano il principe e andò con lui al centro dell’uovo. Poi con un gesto fulmineo liberò la luna dalla rete. L’astro celeste salì al cielo e lì per terra non rimase che una vecchia rete da pesca con un po’ di polvere argentata. Di Lucilla non se ne seppe più niente, ma nelle notti di luna piena il mare da cui era nata sembra alzarsi nel tentativo di imbrigliarla e lei, la luna, lo guarda con una strana espressione di pace, dove la gioia e la tristezza si mischiano nel pallore argentato.

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Introspettivo / Marie Rose
« il: Marzo 18, 2012, 15:57:49 »
Marie Rose

Marie Rose era una donna fragile nonostante la sua mole. Non c’erano argini alla sua inadeguatezza rispetto alla vita. In ogni luogo sentiva di essere troppo o troppo poco, presenza dirompente o assenza triste di se stessa.
Famiglia, lavoro, vicinato: tutto sembrava farla sentire irritante.
Eppure faceva di tutto per rispondere a quello che gli altri volevano da lei.
Si era sposata con un brav’uomo, un meccanico che lei ogni giorno lavava dal grasso dei motori sia negli abiti che sulla pelle. Gli preparava un bagno caldo, metteva i panni in ammollo con il sapone di Marsiglia, preparava la pasta lavamani con una ricetta fatta in casa a base di sale e limone, stirava e metteva sul letto gli abiti puliti, profumandoli con la lavanda che raccoglieva nelle aiuole dei giardinetti pubblici vicino casa. Niente: per suo marito queste attenzioni erano “superflue”, quel troppo che non serviva, quel troppo che lei voleva fare ma non era richiesto.
Se Marie Rose avesse fatto tutto questo solo per il piacere di fare, per il piacere di donare, per il piacere di prendersi cura di chi amava, non avrebbe sofferto nell’attesa di una carezza o di un grazie mai arrivato.
Ma Marie Rose non era tipo da guardare a se stessa.
Anche i figli prendevano avidamente quello che lei porgeva: le torte profumate di crema e marmellata, le merende con gli amici preparate in giardino tra tramezzini, schiacciate e pizze, le lenzuola fresche cambiate ogni settimana che odoravano di sapone e della sua pelle morbida e delicata, l’ordine che permetteva loro di ritrovare tutto ciò che perdevano, dal trenino al libro di scuola. Avrebbe voluto che gli sguardi dei suoi figli fossero rivolti a lei invece che a ciò che faceva.
Se Marie Rose avesse spazzato e pulito di meno ed avesse provato il piacere del gioco, forse altri sguardi sarebbero caduti su di lei.
Ma Marie Rose non era tipo da guardare a se stessa.
I vicini poi la consideravano una donna un po’ “dozzinale”. Soprabito sbiadito in cui nascondersi, capelli acconciati senza pretese e senza colore, con il suo borsone della spesa di fintapelle che ciondolava vuoto sopra le scarpe molto chiuse e molto serie, Marie Rose ogni mattina faceva il suo percorso casa- negozio -casa sempre uguale, sempre con il  solito passo pesante. Il suo peso non indifferente e la sua altezza evidente la portavano ad un leggero e ritmato dondolamento del corpo. Nel tragitto i saluti ai vicini che si affacciavano erano educati, ma solo accennati, per alcuni; per altri concedevano lunghe storie di vita parentale. Troppo o troppo poco ed ogni volta Marie Rose si rimproverava di aver parlato o non aver detto questo o quello.
Se avesse accettato di essere ogni giorno ciò che era, avrebbe camminato con passo leggero.
Ma Marie Rose non era tipo da guardare a se stessa.
Il tempo costruiva su di lei una strana corazza: rivestiva il suo corpo di diversi strati di pelle, di abiti, di polvere che lo rendevano simile ad una montagna sotto la coltre di neve. Irriconoscibile. Nella sua corazza Marie Rose affondava il collo e la testa, ritirava le sue braccia e le sue gambe, proprio come una tartaruga. Là dentro, al sicuro, ricordava se stessa da giovane: alta, snella, leggera sulle gambe quando ballava con i suoi amici, come se tutto potesse continuare a quel ritmo. Veniva scelta per la sua risata fragorosa, per le belle gambe in mostra, per i suoi sguardi generosi. Fino a quando tutta la sua speranza verso una vita ricca di felicità si era dissolta come nebbia al sole, senza un perché. Aveva alimentato la speranza della felicità con tutta se stessa, aveva continuato ad essere ciò che volevano gli altri, sicura che il gioco dell’essere scelta potesse durare a lungo. Come una bambola ben costruita, aspettava di venir acquistata. Non si era mai chiesta niente. “Le domande sono parole inutili se non sono accompagnate da risposte”, diceva sua nonna, quando era piccola. Lei non capiva bene cosa volesse dire, le sembrava solo un modo di scoraggiare sua sorella che ossessivamente chiedeva il perché di ogni cosa senza ascoltare le risposte. Al contrario di lei, preferiva tacere e aspettare; sarebbe passata una carrozza tutta d’oro, sarebbe arrivato un principe azzurro, avrebbe abitato in una reggia. Bastava aspettare.
Se avesse fatto più domande, avrebbe cercato più risposte.
Ma Marie Rose non era tipo da guardare a se stessa.
Così, adesso, nascosta nel suo stesso corpo, sentiva di sprofondare. La scelta era tra lasciarsi andare o aggrapparsi alle fondamenta della sua casa. I giorni passavano in bilico tra questi due possibili eventi, mantenendo all’esterno della sua corazza la monotonia della sua quotidianità. Passavano i giorni, passavano i mesi, passavano gli anni. Lei non si decideva. Sospesa nel vuoto della vita, tratteneva il respiro, incapace di prendere una direzione.
Un giorno Marie Rose scomparve. Nessuno la trovò più. Marito e figli cercarono sotto le sue vesti e tra le pieghe della sua pelle. Marie Rose non c’era più. Come un guscio vuoto.
Se avesse trovato il coraggio di scegliere, il grande meccanismo della vita si sarebbe messo in moto con sorprendente velocità.
Ma Marie Rose non era tipo da guardare a se stessa.

***

La sua scomparsa fu celebrata con la ritualità del senso comune: si abbracciano i parenti per affrancarli dal dolore senza confini che li pervade, si lodano le virtù della defunta innalzandole nei cieli più alti della spiritualità, si mostra tutto lo stupore di fronte all’evento della morte come se avesse colpito solo lei, reclamando un’ingiustizia infinita.
In realtà nei cuori di chi la conosceva, Marie Rose era morta da tempo.
Lei lo sapeva e, quando nella sua nuova dimensione, alleggerita dal suo corpo ingombrante e dalla preoccupazione di una presenza sempre misurata, poté vedere la traccia che aveva lasciato, pensò che proprio adesso poteva cominciare a vivere.
Aveva la possibilità di guardare suo marito mentre dormiva nel letto matrimoniale, dimentico di rispettare il suo posto a destra, quello vicino alla porta: se ne stava piazzato al centro, ben rilassato tra i cuscini che erano stati anche i suoi. Dapprima ne fu dispiaciuta nel vedere quel corpo che invadeva quello che era stato il suo spazio. Poi pensò come lo aveva occupato, quello spazio: silenziosa strisciava tra le coperte, dando uno sguardo alla schiena che a mo’ di muro le porgeva suo marito. Spesso tratteneva il respiro per non ascoltare il ritmo vitale dei suoi polmoni, come se lui potesse sentire l’aria che entrava e usciva dal suo corpo. Al mattino era come un fantasma agli occhi di chi scendeva in cucina per far colazione, tanto da sentire la solitudine della sua voce nel “buongiorno” che lanciava verso i suoi familiari. Le volevano bene, ma non la vedevano. Sentivano la sua presenza nella tavola apparecchiata e nei letti rifatti.
In realtà nei cuori di chi la conosceva, Marie Rose era morta da tempo.
Adesso, da morta, entrava in quella casa come l’aria che la pervadeva e, sia nel silenzio delle stanze vuote, che nell’affollamento delle serate in casa del marito e dei figli, riconosceva ciò che aveva amato di quegli spazi: colori, odori, morbidezze e spigolature che adesso, e solo adesso, raccontavano di lei. Possibile che i suoi familiari non riconoscessero tutto questo? I soprammobili scelti e sistemati con gusto, le tendine della cucina ricamate a fatica imparando il punto croce, le tazze della colazione ordinate su catalogo per personalizzarle: tutto parlava di lei. Ma nessuno dei suoi si fermava a considerare quello che le sue mani avevano toccato. Così, con il tempo, una tazza si ruppe, i soprammobili furono spostati e le tendine vennero sostituite con delle veneziane. Capiva che le cose non potevano rimanere ferme nella vita dei suoi familiari, ma non riusciva a trovare in loro il ricordo di lei.
Era scomparsa, cancellata la sua presenza. Forse questa era la cosa più dolorosa che non riusciva a superare.
Decise che adesso doveva lasciar andare quello che era stata e, in questa dimensione, poteva vivere. Sì, vivere ora che era morta!
Da viva non aveva scelto, ora poteva farlo.
Da viva non aveva trattenuto per sé il piacere, ora poteva godere.
Da viva aveva avuto paura a mostrare ciò che era, ora poteva essere senza giudizi.
Forse era una magra consolazione perché in questa dimensione non c’è compagnia dell’altro, ma solo una solitudine eterna. Tuttavia le sembrò di avere una grande opportunità: sarebbe stata tutto quello che non aveva scelto in vita!
Così senza corpo e dimensione si mosse in ogni direzione: all’inizio intorno a casa, curiosando nelle vite degli altri, poi girovagando nei paesaggi più lontani. Si inebriò dell’odore del mare, del calore della sabbia e dello spazio infinito davanti a lei. Percorse senza fatica i sentieri montani fino alle cime rocciose. Corse nei prati sconfinati della savana. Ascoltò i mille fruscii notturni della foresta pluviale. Si immerse nel silenzio della neve artica.
Le vite degli altri le passavano accanto portandosi dietro tutte le fatiche e le difficoltà dello stare insieme, ognuno con le proprie richieste, talvolta pretese. Marie Rose li guardava e lentamente si allontanava dal ricordo di sé, della sua vita vissuta. Riusciva a vedersi come era stata come si guarda ad un’altra persona. Bonariamente accarezzava quel ricordo, pacificata rispetto a ciò che non aveva vissuto. Pacificata rispetto a chi l’aveva già dimenticata.
In realtà nei cuori di chi la conosceva, Marie Rose era morta da tempo.

***
Essere senza confini poneva Marie Rose nella condizione di felicità che aveva tanto cercato quando era viva. Ogni limite era stato frantumato e non c’erano preoccupazioni per trovare la misura di sé. Luce abbagliante e buio totale, infinitamente grande ed infinitamente piccolo, troppo o niente: ogni misura era azzerata.
Marie Rose fluttuava nel tempo e nello spazio divenuta puro piacere di se stessa.
La solitudine eterna di questa nuova dimensione la inebriava; tutto poteva essere scelto da lei. Si trasformava nel vento, si insinuava nei vicoli e nelle stanze più intime delle persone. Guardava, osservava, ma con distacco. Non poteva più toccare quel mondo, non poteva determinare nessun atto del proprio agire; mancando ogni senso di responsabilità si limitava a registrare il bene e il male della condizione umana, senza giudicare. Anche questo era gradevole.
Marie Rose fluttuava nel tempo e nello spazio divenuta puro piacere di se stessa.
L’unica curiosità era suscitata dai bambini, quelli molto piccoli. I gorgheggi, i sorrisetti o i pianti disperati le animavano un senso di stupore. Era questo l’unico momento in cui si fermava per capire, per decifrare questo suo scivolare così vicino alla vita. Per tutto il resto della sua eternità era immersa nella gioia.
Marie Rose fluttuava nel tempo e nello spazio divenuta puro piacere di se stessa.
Tuttavia sempre più spesso le capitava di perdersi dietro a qualche neonato, avvicinandosi così tanto al limite della sua dimensione che si sentì ben presto turbata da questa attrazione.
Allora si fermò concentrando la sua non dimensione in un punto, divenendo una massa compatta, cercando tutto quello che aveva perso della propria identità. Si ascoltò con la profondità di chi scandaglia gli abissi degli oceani, si guardò con lo sguardo lungo di chi osserva i limiti dell’universo.
Capì e in un tuffo s’immerse nel neonato di poche ore che la mamma teneva in braccio come cosa preziosa.
Fu un capitombolo dove ritrovò la fatica del respiro, il calore ed il brivido della sua pelle, le paure, le ansie e i sorrisi degli sguardi rivolti a lei.
Marie Rose non fluttuava più nel tempo e nello spazio, ma teneva stretto a sé il piacere di essere.

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