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« il: Gennaio 15, 2013, 13:22:03 »
Non sono mai andato a puttane. Non certo per ragioni morali o religiose. Se paghiamo chi ci prepara da mangiare o ci fa un massaggio, perché non pagare anche chi ci fa l’amore? Mi sono sempre ritrovato però nel verso della canzone di Baglioni “una storia va a puttane, sapessi andarci io”. Ecco, io non ci so andare e non so bene perché.
Altrimenti non avrei fatto cenno di no alla bella ragazza dell’est che ci era avvicinata alla mia macchina ferma in una piazzola di sosta della statale della val Bormida che porta ad Alessandria. Forse con lei potevo per un attimo stordirmi e non pensare. Mi doveva aver preso per un cliente particolarmente timido, perché non la chiamavo e non mi avvicinavo. Ma appetibile a giudicare dalla BMW serie 6 sulla quale mi trovavo. Stanca di attendere aveva deciso di fare il primo passo. Ma io non mi ero fermato per lei, avevo accostato perché ero sconvolto.
“Ciao Enrico, sono Giuseppe…. Giuseppe Flascassovitti. Senti … Cazzo, te lo dico così, perché non so farlo altrimenti. Barbara ha avuto un incidente gravissimo, sta morendo, vuole vederti”. La voce gli s’incrinò, fece una pausa sforzandosi di non piangere. “Ma devi fare presto”.
Giuseppe e Barbara, un tuffo nel passato. Sembra un’altra vita, sicuramente è un’altra epoca e un’altra città. Barbara non la vedevo da più di dieci anni e Giuseppe forse da venti. Barbara la sognavo spesso e di Giuseppe leggevo su internet tutti gli articoli che pubblicava sul quotidiano locale della città dove ero nato, una marea di anni fa, dove non tornavo da venti anni o giù di lì.
1990, Facoltà di Matematica e Fisica dell’Università di Lecce, riunione del collettivo “La pantera simu nui”.
E’ sera, l’aula 5 del Fiorini è piena di studenti. Sembrano quasi tornati gli anni settanta, gli anni di quell’impegno politico di cui mio padre ogni tanto parla con nostalgia. Una pantera fuggita che vaga spaurita per i dintorni di Roma ha regalato il nome a un movimento studentesco che sta infiammando gli atenei e le scuole di tutta Italia.
Io brucio principalmente per la straordinaria visione delle gambe della ragazza che mi sta di fronte. Alzando gli occhi vedo che anche lei guarda me. Mi vergogno di essere stato colto sul fatto come se mi si potessero leggere in un fumetto i pensieri che mi frullano per il capo. Ma lei sorride e io annego in quel sorriso.
Così quando lo studente al microfono chiede chi s’intenda di computer ed informatica per contribuire alla creazione di Okkupanet una sorta di collegamento in rete dei computer delle università occupate sparse in tutta Italia e vedo la sua mano sollevata, l’alzo anch’io, sebbene stia scrivendo una tesi di teoria dei numeri, sull’ultimo teorema di Fermat e conosco solo il giusto sui computer e nulla sulle reti informatiche.
Barbara invece era un piccolo bellissimo genio. Parlava il linguaggio dei computer meglio dell’italiano. Lei era straordinaria, ma anche gli altri non scherzavano: non dimenticherò la soddisfazione che provammo quando mandammo via fax alla Cattolica di Milano il codice di programmazione che avrebbero dovuto usare per entrare in rete. Il Sud che da sempre arranca in ritardo dietro il Nord, stava insegnando a tutti come si costruisce un’autostrada digitale.
Una sera finito di lavorare, mentre stavamo per andare tutti a mangiare una pizza, un ragazzo biondo di una bellezza sconcertante venne a prendere Barbara. Lo odiai con tutte le mie forze. Se ne andarono insieme a braccetto. Il mio risentimento fu così plateale, com’era stata a tutti evidente la mia passione per Barbara, che fui oggetto di scherzi bonari e pacche sulle spalle da parte degli altri che compativano le mie pene d’amore.
Mi ricordo come fosse ieri quel che mi disse Barbara il giorno dopo mentre ci prendevamo un caffè insieme.
“Giuseppe è il mio più caro amico. Gli voglio bene come a un fratello. Ma non stiamo insieme. Peraltro a lui le donne non piacciono”.
Aggiunse che era un ragazzo straordinario, suo compagno di scuola dall’elementari, suo amico da sempre. Studiava lettere e voleva fare il giornalista.
Il sottotesto era evidente: sono disponibile, fatti avanti.
Era stata la mia prima donna vera. La prima volta e l’ultima che una donna mi faceva sciogliere il cuore solo guardandomi, la prima volta e l’ultima che una donna gridava forte il mio nome mentre veniva, la prima volta e l’ultima che una donna golosamente imburrava una fetta biscottata per poi riempirla di marmellata di arance e invece di mangiarsela me la offriva.
Giuseppe divenne il mio più caro amico.
Abbandonai i ricordi, mi ricomposi e presi rapidamente la mia decisione, per una volta. Richiamai il numero e lui mi rispose subito.
“Scusa Giuseppe, ma sono in macchina ed è caduta la linea” dissi, mentendo perché, disperato, avevo chiuso io, deliberatamente.
“Parto prima che posso, ci vediamo giù. Ti chiamo appena so quando arrivo”.
Ora dovrò trovare il coraggio di dirlo a mia moglie e a mio suocero. Lui è anche il mio capo e domani saremmo dovuti partire per il Lussemburgo per concludere un affare da centinaia di milioni di euro.
A mia moglie qualcosa di Barbara ho detto, non tutto e nemmeno abbastanza. Non le ho mai raccontato delle notti nelle quali la sognavo: erano sempre sogni bellissimi. Mai le avrei parlato del dolore cocente che avvertivo quando alcuni secondi dopo il risveglio mi rendevo tristemente conto che solo sogno era stato. A suo modo mi voleva bene. Io non l’odiavo perché lentamente aveva scolorito la parte migliore di me, odiavo me stesso per averglielo lasciato fare.
1991 Teatro Romano, centro storico di Lecce.
Siamo seduti fra i gradini del teatro in una dolce e tiepida giornata d’ottobre, io e Barbara, il giorno dopo la mia laurea. Fra i due palazzi barocchi che circondano il teatro, l’ultimo spicchio di sole tenta di resistere all’oscurità che avanza colorando di rosso i muri delle case.
“Sono affascinata dall’alchimia. Forse perché mi piace vivere al confine fra il giorno e la notte, la scienza e la magia”, mi dice mentre apre la borsa blu a zainetto che non abbandona mai.
“O forse m’intriga la ricerca in quanto tale; l’alchimia è la ricerca per antonomasia: una ricerca impossibile e infinita, destinata a durare per sempre. Come il mio amore per questa terra e queste pietre o questo particolare momento del giorno. Come il mio amore per te.”
Dalla borsa prende un pacchettino e me lo porge. “Il mio regalo di laurea”.
Non lo so perché, ma mi tremano le mani mentre lo apro. Quello che trovo all’inizio mi sembra uno scherzo. Una pallina di rame legata a una catenella d’oro sottile. Una pallina levigata e liscia che sembra una perla.
“Rame e oro”, mi dice “due dei sette metalli dei pianeti associati con venere e il sole. Due simboli degli alchimisti”
“Venere è la stella della sera, raggiunge la sua massima brillantezza all’inizio dell’oscurità, come se Dio o chi per lui, ci volesse dire di non aver paura del buio. Anche in una notte senza luna, Venere brillerà per noi. Come le lucine che le mamme accendono per i bimbi che hanno paura di affrontare il sonno da soli. Una luce che ricorda che il buio non è mai totale, non è mai per sempre”.
“L’oro è per dirti che sei bello come il sole”.
“Cu nu te scerri ci senti e da du vieni.” Mi ricordo ancora il viso rigato dalle lacrime di mia nonna, quando la andai a salutare il giorno prima della partenza per Princeton e mi dette una foto in cui siamo, io e lei, sulla spiaggia dove mi portava l’estate quando ero piccolo.
Avevo vinto una borsa di studio, le mie intuizioni sull’enigma secolare di Fermat avevano incuriosito il professor Wiles, che da anni si occupava della questione.
Mia nonna dall’alto della sua licenza elementare aveva intuito quel che tutti gli altri, compresi io e i miei genitori, non avevano compreso: quello era un addio e non un arrivederci.
Barbara si era laureata in Fisica col massimo dei voti e avrebbe avuto la possibilità di fare il dottorato in qualunque università europea e americana. Invece aveva iniziato a lavorare per il centro di calcolo dell’Università di Lecce. La situazione economica della sua famiglia glielo consigliava e lei comunque andava cercando un pretesto per rimanere dove voleva stare.
“Tanto lo so che torni”, mi disse dandomi l’ultimo bacio alla stazione mentre già il capostazione fischiava la partenza.
Invece non tornai, non tornai più veramente.
A Lecce riandai solo per seppellire le mie persone care, mia nonna manco era passato un anno, i miei genitori l’anno successivo, travolti da un ladro inseguito dalla polizia, mentre attraversavano la circonvallazione col verde e sulle strisce, rispettando la legge, come avevano fatto tutta la vita.
Intanto avevo incontrato Christine ad un party dell’Italian society di Princeton al ritorno, da orfano, in America. Lei voleva consolarmi, io mi feci consolare affondando in quelle grosse e materne tette germaniche.
Barbara non seppe nulla, forse qualcosa immaginò, ma capì che ci stavamo allontanando.
Così quando finì il dottorato, Barbara non volle venire ad assistere alla discussione della mia tesi.
“Tanto tu non vuoi più tornare” mi scrisse.
Aveva ragione. Non ero più tornato, letteralmente.
Dopo il dottorato, diverse università americane mi offrirono contratti di insegnamento, ero un allievo di Wiles e lui con la soluzione all’enigma di Fermat era diventato il matematico più famoso del pianeta. Ma dentro di me qualcosa si era rotto, non sentivo più tanto il sacro fuoco della ricerca e l’ambiente americano era troppo competitivo per la mia innata pigrizia. Partecipai quasi per caso a un concorso per ricercatore a Trento e lo vinsi. L’avventura americana finì così, senza rimpianti.
2001 Venerdì, Piazza del Campo Siena
Seduto in un bar di piazza del Campo, l’unico momento divertente di un noioso convegno di crittografia digitale, mi sforzo per comprendere il problematico inglese di due colleghi giapponesi. D’improvviso la vedo. Più che altro mi appare. Il sole che tramonta le disegna intorno un cono di luce, manco fossimo in teatro.
Al diavolo i giapponesi, vado da Barbara.
2001 Domenica, Albergo Santa Caterina, Siena.
Barbara si sta facendo la doccia, canta, è contenta. Io sono a letto distrutto. Non tanto per il bellissimo sesso che abbiamo fatto per gran parte del fine settimana. Mi alzo e inizio a vestirmi.
Abbiamo vissuto questi giorni non come una parentesi ma come un nuovo inizio, ubriacati dal fatto di esserci ritrovati. Lei ha fatto piani e progetti che io passivamente ho assecondato. Ho trascurato di dirle che sono fidanzato; ma a quanto ho capito anche lei ha una storia da chiudere, non è questo il problema.
Le ho anche giurato che non ho perso la perla di rame che mi aveva regalato per la laurea, l’avevo solo tolta quando la catenina si era rotta giocando a pallone, mentre stavo ancora in America.
Le ho taciuto la cosa più importante: oggi a otto, presso la chiesa di San Sebastiano e Dalmazzo ad Alessandria, sono fissate le mie nozze. Avevo deciso di sposarmi e cambiare vita, lasciare l’università e andare a lavorare con il mio futuro suocero, proprietario di una grande impresa nel settore farmaceutico. Stellina è figlia unica ed entrambi avevano dato per scontato che io sarei entrato in azienda. Avevo resistito, all’inizio, ma poi mi ero lasciato convincere. Il padre di Stellina è un bastardo senza valori ma sa essere convincente e principalmente aveva pigiato i tasti giusti. Aveva capito che ero stufo dello scarso stipendio che l’università italiana mi offriva e del mondo della ricerca in generale. Non ero un genio, questo mi era chiaro da tanto, e l’idea di essere un quadro intermedio della ricerca in un paese in cui scienziati e ricercatori non sono certo in cima alle preferenze sociali nemmeno quando sono geniali, non mi attirava più di tanto.
Giuseppe, il più grande idealista che avessi mai conosciuto, avrebbe semplicemente detto che mi ero venduto. Avrebbe avuto ragione, una casa favolosa, i ristoranti più eleganti, gli alberghi più lussuosi, le auto che avevo solo visto sulle riviste: a queste cose, quando cominci ad abituarti, non riesci più a fare a meno. Ti sembrano beni di assoluta necessità.
Per qualche ora, avevo anch’io creduto che potessi mollare tutto e ricominciare con Barbara. Per qualche ora.
Mentre chiudo la porta, sento ancora Barbara cantare sotto la doccia.
Hanno sostituito le poltroncine di legno giallino con sedili di plastica dai colori sgargianti, hanno ingrandito la hall, hanno messo nuovi negozi. Anche il nome è cambiato: non è più l’aeroporto Casale di Brindisi, ma è diventato, giustamente, l’Aeroporto del Salento.
Mentre aspetto il mio bagaglio riesco a intravedere Giuseppe che mi aspetta, aldilà dal vetro. Si è tagliato la barba con cui l’avevo visto in una delle ultime foto pubblicate sul giornale online che dirige. Sembra più giovane, è ancora bellissimo Immagino che le donne continuino a fargli una corte spietata nonostante la sua dichiarata omosessualità.
I nostri sguardi s’incrociano, la mia bocca si apre in un largo sorriso riflesso istintivo del cuore felice di rivedere un amico cui ho voluto molto bene. Gli faccio un ampio gesto di saluto con la mano.
Accenna un lieve sorriso, ha lo sguardo triste, piega la testa verso il basso. Capisco. Per quanto abbia fatto presto, sono arrivato troppo tardi.
Il suo abbraccio affettuoso mi dà una sensazione di calore e di gioia che non sentivo da secoli. Se non fosse per Barbara, direi che sono felice.
“Quando è successo ?”, chiedo una volta in macchina.
“Poche ore fa, quando cominciava a fare sera”.
A quell’ora io avevo appena trovato la sua catenina nell’armadio in soffitta dove tenevo varie cose del passato. Non ero voluto partire senza. Questa volta avrebbe dovuto vedere che la conservavo.
“Venere la sta illuminando nel buio”, pensai, meravigliandomi di sentirmi rasserenato da questo stolto pensiero. E' adesso che la diga si rompe e le lacrime cominciano a sgorgare copiose. Piango come un bambino distrutto da un dolore da adulto.
“Come potrai immaginare, sei stato il nostro argomento preferito di conversazione per anni. Enrico di qui, Enrico di lì. Poi all’improvviso, una decina di anni fa di te non volle quasi più parlare. Se io iniziavo raccontandole, magari, che ci eravamo sentiti per telefono o per mail, lei subito cambiava discorso”.
“Pensai che fosse perché era incinta e di li a poco, infatti, si sposò con Alberto con cui stava da un po’. Persona per bene, insegna matematica al De Giorgi. Non ti nego che fui contento che si fosse emancipata da te”
“Poi ieri, un’infermiera che mi conosce, mi disse che continuava a chiamare un certo Enrico. Visto che non era il nome di nessun familiare e che ne hanno viste di tutti i colori, al marito non hanno detto niente, ma hanno avvertito me. E io te.”
“La figlia di Barbara, come si chiama?”
“Angela Venere”.
Erano le 11 di notte. La luna non c’era e il cielo splendeva di stelle. Mi sarebbe piaciuto salutarla la Venere del cielo, ma dal cruscotto non riuscì a vederla.
“Cosa vuoi fare? Lei non la possiamo vedere, l’obitorio chiude alle 11”.
“Hai taralli, formaggio e olive a casa?”
“Certo e anche del buon vino”.
“Di questo non dubitavo, ma devi averne tanto. Andiamo a casa tua e ni mbriacamu a stozze”.
Cinque mesi dopo
Mia nonna aveva torto e Barbara ragione. Alla fine son tornato.
Per il momento sto a casa di Giuseppe, che attraversa un lungo periodo di singlitudine. Ma sono in trattative per un appartamentino nel centro storico.
Da mia moglie e da mio suocero non ho voluto niente. Solo ciò che per contratto mi spettava. Mi ha dato l’idea che entrambi fossero alla fine quasi sollevati. Ho detto addio alle macchine costose, alle belle case. Non vado nei più ristoranti da guida Michelin, ma qui si mangia bene dappertutto e poi mi è sempre piaciuto cucinare.
Con i soldi che avevo messo da parte e con la liquidazione ottenuta, ho aperto una piccola attività con Nicola uno dei fratelli di Barbara. Siamo partiti dall’idea di vendere in rete in tutta Italia e anche all’estero, l’ottimo olio che lui produce. Poi ci siamo allargati a vari prodotti salentini, dalle friselle alla cotognata, dai pomodori secchi al vino.
Nel frattempo, per non dimenticare chi ero, do pure ripetizioni di matematica.
Da poco più di un mese abbiamo aperto in centro un piccolo negozio che vende prodotti a chilometro zero: per chi non vuole acquistarli on line, può venire in negozio.
Lavorare in negozio mi piace particolarmente, perché ogni tanto Angela Venere che fortunatamente, non me ne voglia Barbara, tutti chiamano solo Angela, viene a trovare suo zio. Siamo diventati amici e spero mi voglia un po’ di bene.
Ogni tanto mi perdo a guardarla senza che lei se ne accorga. Mi sorprendo a fare il gioco squallido delle rassomiglianze. Alcuni giorni mi pare che assomigli a mia madre, per come si muove, per la voce o per il taglio degli occhi. Altre volte noto che fa gli stessi gesti del padre col quale condivide il colore dei capelli. Non saprò mai la verità.
E comunque non me ne frega niente, il solo vederla mi rallegra il cuore. Anche perché è eguale a sua mamma.
Sono sereno come non ero da tanto, oserei dire felice seppur con quel retrogusto amaro che mi dà il sapere che Barbara non è qui per vedermi.
Con Nicola vado d’accordo. Solo una volta abbiamo discusso un po’ animatamente: quando decidemmo il nome del sito e poi del negozio. Non ha mai capito perché ho voluto a tutti costi chiamarlo,
“La perla di rame”.