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Post - gipoviani

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Sentimentale / Re:La canzone di Marinella
« il: Agosto 17, 2020, 09:00:30 »
Non lasci spazio davvero ad alcun commento, e cosa dire poi di fronte a tutto questo, nihil suggerisce che nessuna donna tradirebbe il marito di fronte alla morte, non saprei, chissà cosa spinge una donna a farlo, mi chiedo.

Questo nel senso che ti è piaciuto?

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Sentimentale / La canzone di Marinella
« il: Febbraio 12, 2020, 11:12:37 »
Arrivai al bar di Piazza del Duomo con un leggero ritardo e con lo sguardo cercai Emanuela. La vidi seduta al tavolo con un uomo che non conoscevo. Non avevo voglia di vedere gente. Stavo per andarmene quando lei mi scorse. Il viso s’illuminò e sorridendo mi fece segno di venire. Non potei far altro che avvicinarmi.
“Lui è Marco, un collega di mio marito. Mi ha fatto compagnia mentre ti aspettavo”, mi disse dopo il suo tradizionale abbraccio affettuoso.
“Buongiorno Marco”.
Lui si era educatamente alzato puntando il suo sguardo volitivo sui miei occhi. Era un bell’uomo sui quaranta anni, fisico longilineo e atletico ma non palestrato. Il sorriso sicuro di un uomo forte, che non si vergogna della malinconica dolcezza dei suoi grandi occhi neri. Un uomo pericoloso, avrebbe detto mia nonna. Quelli che rovinano le brave ragazze, avrebbe aggiunto.
Strinse la mano che gli avevo porto e pose la sinistra sul braccio effettuando una lieve, quasi impercettibile, carezza. Era estate, la sua mano incontrò la mia pelle nuda. Il sole, e spero solo lui, vide fremere al tocco la mia pelle.
“Ciao Marinella” disse semplicemente.
Rimase alzato mentre noi ci sedevamo.
“Io vado, così vi lascio chiacchierare liberamente. Marinella, è stato un piacere anche solo incontrarti. Emanuela mi aveva detto che eri una bella donna. Pensavo esagerasse, ma sbagliavo. Sei molto più che bella. “
E andò via, quasi fuggendo, senza darmi il tempo di ringraziarlo per la sua galanteria.

“Persona interessante. Un appassionato di De André, come te”. Chiosò la mia amica, passando subito ad altro.
“Ti devo raccontare una storia spassosissima. Te ricordi Giulia, la nostra collega di Educazione Fisica di quando insegnavamo a Riva del Garda?”
Volevo molto bene a Emanuela. L’avevo conosciuta il mio primo giorno di insegnamento, proprio a Riva. Da allora eravamo diventate grandi amiche. Entrambe figlie uniche, avevamo forse trovato la sorella che avremmo sempre desiderato avere. Ci eravamo prese come solo due opposti si prendono. Lei, un’insolita meridionale bionda, salita al Nord per lavorare, era solare, aperta, sempre ottimista. Sono una leccese normanna, amava dire. Io trentina delle Valli Giudicarie, diffidente, seria, col sorriso faticoso. Emanuela mi aveva insegnato che ridere è spesso la massima forma di serietà. È stata una delle poche, forse l’unica, che non è scomparsa quando il film della mia da commedia romantica si è trasformata in dramma.  La maggior parte delle persone ha grandi difficoltà nell’affrontare la sofferenza, la propria e quella degli altri. Dalla propria sofferenza non è quasi mai possibile fuggire, da quella altrui sì. E molti cosiddetti amici, e addirittura qualche parente, erano scappati via.

Cascasse il mondo – e il mio era proprio cascato - ci vedevamo il giovedì pomeriggio per prendere un tè in un bar del centro di Trento. Era il nostro piccolo grande rituale da anni. Almeno quando lei era in città. L’avevo conosciuta che era un’insegnante di musica alle scuole medie, ora era violino di fila nell’orchestra dell’Arena di Verona e ogni tanto partiva per delle tournée. Quell’appuntamento per me era diventata un’oasi di serenità, se non una pratica di sopravvivenza, e maledicevo l’Arena quando me la portava via.
Qualcuno avrebbe detto che Emanuela tendeva a chiacchierava troppo. I trentini, si sa, non sono propriamente loquaci e spesso diffidano di chi lo è. A me piaceva sentirla parlare. I suoi racconti erano ironici e divertenti e anche quella volta mi fece ridere con le disavventure di Giulia prima e della sua famiglia poi. Era arrabbiata con il marito perché quel fine settimana sarebbe andato con degli amici a fare una battuta di caccia in Croazia. Lei, animalista militante, sarebbe stata meno dispiaciuta, mi confessò, se fosse voluto andare da qualche parte con un’amante. Non le credetti, sapevo quanto amava quel suo uomo, salentino anche lui, simpatico ma un po’ cialtrone.
“Guarda che se non fossi arrivata presto, avrei ceduto alla corte di Marco. Così avrebbe avuto le stesse corna del cervo che vuole sparare. Hai visto che bell’uomo che è? Ci cangia defrisca”, concluse nel suo dialetto che avevo cominciato a capire. Mi allenavo tutte le estati, quando passavamo almeno due settimane insieme nella sua casa vicino Otranto. Ma neanche questa volta le credetti.
Ridevamo ancora, quando ci salutammo. Voltato l’angolo, mentre tornavo a casa, Emanuela mi mancava già.

Quella sera a letto mi facevo cullare dal lento respiro di mio marito, ma io non dormivo. Mi veniva una tristezza infinita a pensare come fosse diventata la nostra vita. E mi venne il terrore di quello che ci aspettava. Non ne avevo parlato con nessuno, neanche con Emanuela. Il venti settembre si avvicinava sempre più velocemente e io non sapevo cosa fare.
Era il giorno del mio compleanno, poco meno di quattro anni fa. Camminavamo spediti verso il nostro ristorante preferito per festeggiare, noi due soli, come sempre. Enrico fu improvvisamente bloccato da un crampo alla gamba destra. Minimizzò. Minimizzai. Solo un piccolo strappo che si era preso giocando a pallacanestro. Chi si preoccupa per un semplice crampo? E infatti gli passò in un paio di giorni.
Tornò tre settimane dopo e fu l’inizio del nostro calvario. Se la mia vita fosse stata veramente un film, in questo preciso istante la musica avrebbe cambiato registro, virando verso un tono basso e drammatico che sarebbe durato fino ai titoli di coda. E per me anche dopo.
SLA era il proiettile che il destino ci aveva sparato addosso, sclerosi laterale amiotrofica. All’inizio Enrico ci scherzava anche; la stessa malattia di Stephen Hawking, per lui laureato in fisica alla Normale e professore all’Università di Trento. Ma questa volta non c’era proprio niente da ridere.
Di colpo pensai a Marco. A quando aveva messo la sua mano sul mio braccio. Mi sentii bagnare. In silenzio, mi tolsi gli shorts del pigiama, allargai le gambe, mi accarezzai piano, lenta, senza fretta, prendendomi tutto il tempo che il destino reclamava indietro. Chiusi gli occhi e venni, intensamente venni. Mi voltai verso Enrico, presi la sua mano nelle mie e sussurrai: “Ti amo”.

Eravamo alla fine di agosto e non c’erano stati ancora temporali, il venti settembre si avvicinava veloce. L’aria era ancora calda alle sei di pomeriggio. Uscivo dalla Coop di piazza Lodron e mi sentii chiamare. Mi voltai e vidi il volto spavaldo e sorridente di Marco.
“Ciao Marinella, che bella sorpresa incontrarti”. Disse venendomi vicino. Pose la sua mano sui miei fianchi.
“Posso offrirti un tè o quello che vuoi?”. 
“Mi dispiace, non posso, devo tornare a casa.” Risposi, forse troppo bruscamente.
“Ti posso lasciare il mio telefono?”, mi disse prima di salutarmi. “Per qualunque cosa, per bere un tè, fare una passeggiata, chiamami”. Presi il numero e scappai via.

Cominciarono le prime piogge e i primi freddi, le giornate si accorciavano sempre più velocemente. Il tempo stava per finire. Io stavo male e non potevo parlarle con nessuno, neanche con Emanuela.
La mia amica sembrava leggermi nel pensiero, perché proprio in quel momento mi arrivò un suo messaggino al telefono. Era un link a una pagina web con un’intervista all’assessore al turismo del Comune di Otranto. Erano iniziati i lavori per la costruzione del primo stabilimento balneare progettato per permettere anche ai portatori di handicap di fare il bagno in mare in tutta sicurezza e comodità. Scivoli per entrare in acqua e particolari sedie a rotelle con grandi ruote di gomma in grado di passare comodamente dalla spiaggia al mare.
“Così Enrico tornerà a farsi il bagno”. Mi scrisse.
Le risposi semplicemente: “Grazie”.
Pregai che mi perdonasse, quando avesse saputo.

Arrivò il giorno prima della partenza. Non chiamai Emanuela, ma telefonai finalmente a Marco. Ci accordammo per prendere un tè da lui. A casa dissi che avevo una riunione a scuola.
Tornai tre ore dopo. Corsi a farmi una doccia e misi tutti i miei vestiti in lavatrice.
Salutai Andra, la signora rumena che mi aiutava con Enrico. Mi avvicinai a lui, gli sorrisi e gli feci una carezza in viso.
“Come stai amor mio”, dissi.
Oramai parlava solo attraverso il computer. Lentamente, muovendo solo un dito, digitò e il sintonizzatore vocale disse: “Bene. Oggi sei più bella del solito”.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Le ricacciai indietro e mi chinai a dargli un bacio sulle labbra. Con la punta della lingua gentilmente gliene accarezzai. I suoi occhi si illuminarono. “Ti amo” gli sussurrai in un orecchio.
“Mai quanto io”, rispose la voce metallica.

Il giorno dopo partimmo. Era raggiante, direi proprio felice. Era tanto che non lo vedevo così. Il suo entusiasmo mi contagiò. Lui sembrava, era, felice di partire. Speravo che a cose fatte, la sua serenità sarebbe stata la mia difesa contro i sensi di colpa.
Potrà sembrare un’eresia, ma fu come se fosse il nostro secondo viaggio di nozze. Il buon Dio, o chi per lui, ci regalò una giornata splendida. Dopo una settimana intera di nuvole e pioggia, il cielo era azzurro e il sole brillava sicuro di sé. L’aria era tiepida. Arrivammo in Svizzera che era buio inoltrato.
Lui non aveva il minimo dubbio, io ero confusa e dilaniata. Fino all’ultimo gli dissi che potevamo tornare a casa insieme, nessuno avrebbe saputo nulla. E ripetei le cose che gli andavo dicendo da quando mi aveva comunicato la sua decisione, tre mesi prima. Se lo faceva per me, sbagliava. Io ero sicura che lui, per me, avrebbe fatto questo e altro, se fossi stata al posto suo. Che io stavo bene così, che non mi mancava nulla. Che lo amavo, come prima, se non ti più.
Fece il suo abbozzo di sorriso, che comunque ancora mi scaldava il cuore. E mi accarezzò con gli occhi, l’unico modo che gli era rimasto per farlo.

Era bellissimo, il mio Enrico. Gli feci una foto e la mandai a Emanuela. Chissà se avesse capito?
“Io torno libero. Sii felice”.
Mi arrivo il messaggio di risposta di Emanuela. Semplice e chiaro.
“Sono accanto a te. Ora e dopo”. Benedetta salentina normanna, aveva capito tutto.
Entrò l’infermiere, guardò Enrico per un’ultima conferma. Il sintonizzatore disse: “Ok”.
L’infermiere si avvicinò col il dispositivo che avrebbe aperto la flebo. Enrico mi guardò, sorrise e fece click.
“Tienimi la mano, fino alla fine”. Disse la voce metallica.
E la fine arrivò.

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Sentimentale / Re:Forse pazzo per amore
« il: Febbraio 20, 2014, 14:30:56 »
Piaciuto. Bello e sincero

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Il tuo raccontare sorprende sempre, ogni volta, tutte le volte. Grazie per aver condiviso con noi!

Grazie G


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Mannaggia, non me lo ricordo più. Non dove sia il rigo, ma cosa sia il sesso e non solo quello esplicito, ma neanche quello implicito; l'unico che mi possa permettere.
Ammappete! Sei vecchio allora. Ed io che avevo immaginato fossi tu  Arturo!
[/quote]

Hai ragione, ho l'età di Arturo. E ti dirò di più, ero quel giorno veramente su quell'autobus e stavo andando in facoltà.

Il resto è solo fantasia, come la battuta infelice sul sesso oramai "dimenticato". Anche se dimenticarne ogni tanto forse male non ci farebbe.

Un bacio, gipo

Ah dimenticavo, casto ovviamente, il bacio

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Per mille papere al semaforo!!
Non potresti dirmi dov,è precisamente il rigo contenente  del sesso esplicito!

Mannaggia, non me lo ricordo più. Non dove sia il rigo, ma cosa sia il sesso e non solo quello esplicito, ma neanche quello implicito; l'unico che mi possa permettere.


Grazie comunque se hai letto il racconto

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Nota: questo racconto, peraltro forse troppo lungo, contiene anche una scena di sesso quasi esplicito

Siena, 21 Gennaio 1982

 “Stavolta, mi sa che l’ho perso” penso, scendendo in fretta le scale.
Tutte le mattine la stessa scena. Corro, anche se il vento gelido di gennaio mi schiaffeggia rude e la strada che porta alla fermata dell’autobus è tutta in salita.
Arrivo che l’autobus sta facendo salire gli ultimi passeggeri. Stravolto e affannato, mi appendo alla maniglia e mi dico anche oggi quello che dico tutti i santi giorni: “E se uscissi cinque minuti prima, Arturo?”
L’autobus parte e comincia a scendere per via Celso Cittadini; fatte poche centinaia di metri, tuttavia, si ferma dietro ad una colonna di auto. E lì rimane.
Strano, strano davvero questo traffico a Siena e in questo punto della città. Sarà successo un incidente. Infatti mi giunge angosciante il suono delle sirene.

L’autista ha aperto le porte e molti scendono curiosi di sapere quel che succede. Io voglio semplicemente farmela a piedi, forse così potrei ancora sperare di arrivare in tempo alla lezione delle 10 del professor Goodwin. A passo svelto, in venti minuti sono a Piazza San Francesco, sede della facoltà di Scienze Economiche e Bancarie
Giunto al semaforo, vicino alla filiale della Banca Toscana, vedo una quantità mai vista di auto della polizia. A questo punto divento curioso anch’io e mi avvicino ad un signore anziano che staziona sul posto.
“C’è stata una rapina in banca” mi dice, prima ancora che io apra bocca per chiedere qualcosa.
“Una rapina? A Siena?” La notizia ha dell’incredibile.
“Pare che siano state le brigate rosse” aggiunge il vecchietto visibilmente eccitato dal fatto che per una volta la storia abbia deciso di transitare vicino casa sua.
“Le brigate rosse ? A Siena ?”
La notizia non solo è ancora più incredibile ma è anche destinata a modificare il corso della mia giornata.
Addio lezione, vado in federazione.
Se la notizia fosse confermata, occorrerebbe organizzare una grande manifestazione studentesca di protesta.
Io sono del PCI. Il terrorismo per me è insopportabile: nessun avvenire glorioso si può costruire impastando la storia con il sangue di vittime innocenti.
La federazione trabocca di compagni in agitazione.
Mentre discuto con Sergio, il segretario della Lega degli Studenti Universitari, sulla eventualità di organizzare un’assemblea degli universitari al rettorato, arriva il segretario provinciale del partito e ci comunica le novità.
Il questore lo ha informato che i terroristi sono stati intercettati durante la fuga, c’è stato un conflitto a fuoco subito fuori Siena e due carabinieri sono stati uccisi insieme a un terrorista. Ora il gruppo di fuoco e pare alcuni fiancheggiatori sono in fuga disperata per le campagne intorno alla città e, forse, anche dentro le mura.
Prepariamo un volantino in cui invitiamo gli studenti a un’assemblea alle due nell’aula magna. Poi  ognuno di noi va verso le proprie facoltà per fare volantinaggio.
Con Sergio ci diamo appuntamento al rettorato. Io farò uno degli interventi durante l’assemblea.
L’attacco terroristico ha fatto scalpore nella sonnacchiosa Siena e anche in facoltà si registra una forte tensione emotiva e una diffusa voglia di “far qualcosa”; in pochi sono a lezione, quasi tutti sono nel chiosco e nei corridoi a scambiarsi impressioni e informazioni.
Mentre alcuni compagni continuano il volantinaggio, decido di andare un po’ in biblioteca per buttare giù qualche appunto sul mio intervento all'assemblea.

Mentre sono assorto nei miei pensieri, mi sento toccare la spalla. Mi giro e rimango di giaccio.
Carmen. La mano sulla spalla è la sua, il viso bellissimo ma pallido e sudato è il suo, gli occhi smarriti sono i suoi.
“Ca.. Carmen, che ci fai qui?” le dico alzandomi.
“Ho bisogno di te, Arturo”.
La guardo interrogativo e perplesso, lei non mi spiega. E’ evidente che non voglia parlare lì davanti a tutti.
“Vieni, andiamo via di qui” le dico e usciamo dalla biblioteca del Circolo Giuridico.
“Arturo, ti cercavo”, mi dice “Sono nei guai, quando ti ho visto mi è sembrato un miracolo.”
“Oddio Carmen, hai a che fare con questa storia? Sei pazza?”
Non mi risponde e abbassa gli occhi, in mano ha il volantino che i miei compagni stanno ancora distribuendo. Poi alza il viso verso di me e i suoi occhi si aggrappano ai miei.
Bastano pochi secondi e capiamo entrambi che l’aiuterò, senza se e senza ma, senza farle paternali o comizi, almeno per adesso, senza pensare ai rischi e alle conseguenze. Alla faccia della coerenza e di quello che dirò da qui a poco all’assemblea.
“Andiamo a casa mia, lì nessuno ti cercherà", le dico, “solo te, però. Non voglio vedere nessun altro.”
Appena usciti dal portone della Facoltà, li vediamo entrare dall’arco che da via dei Rossi immette in piazza San Francesco; saranno una ventina fra poliziotti e carabinieri, controllano tutti quelli che passano e avanzano verso il portone.
Non ci resta che tornare in dietro. Ma ho paura si sia in trappola. L’ex-convento dei francescani che ospita le facoltà di SEB e di giurisprudenza è attaccato alla cinta muraria e non c’è via di fuga.

“Vieni con me” e saliamo al secondo piano. La mia idea è banale, probabilmente troppo: chiudersi in un bagno. Forse sono i primi posti dove cercheranno, ma non riesco a pensare ad altro.
Passando vicino alla segreteria dell’Istituto, vedo che la segretaria non c’è e la porta è aperta. Mi viene un’idea.
“Avvertimi se viene qualcuno” dico a Carmen mentre entro. So dove sono le chiavi degli uffici dei docenti. Scelgo la stanza del professor Sereni, con cui sto facendo la tesi, e so che è all’estero per un convegno. Ce ne sono diverse copie, così nessuno noterà che una manca.
Raggiungiamo la stanza che ho scelto come rifugio e dopo aver controllato che nessuno ci guardi entriamo dentro.
Sono teso, sudato e con il cuore a mille. Mi siedo per terra e aspetto.
Aspetto che la paura mi passi, aspetto che il respiro torni normale, aspetto di capire cosa ci faccio in quell’ufficio a aiutare una terrorista che forse ha appena ucciso due carabinieri.

Lei si siede accanto a me e abbandona la testa sulla mia spalla dicendo solo un flebile “Grazie, Arturo”.
“Grazie un cazzo”, le urlo. Per poi mordermi immediatamente la lingua: dal corridoio ci potrebbero sentire. Aspetto qualche minuto e con la voce più bassa che posso, parto con il mio pistolotto.
“Avete ucciso due persone, Carmen, due esseri umani che facevano il loro lavoro. Magari due papà che saranno attesi invano dai loro bambini, sicuramente due figli che le mamme piangeranno finché campano. Ma non lo capite che vi stanno usando contro di noi. Proprio per non farlo cambiare questo cazzo di Paese, per continuare a comandare loro”.
Mi giro in cerca di una risposta, ma Carmen sopraffatta dalla tensione sta dormendo, almeno così mi sembra. E nel sonno il suo viso si è finalmente disteso e sembra quasi che stia sorridendo.
Cazzo, Carmen, riesci sempre a fregarmi. Ma non mi meraviglia per niente il desiderio che provo di accarezzarle il viso e di stringermela fra la braccia portandola lontano da qui, lontano da tutto.
Passano i minuti, Carmen dorme con la testa appoggiata alla mia spalla e io penso a come diventa strana e imprevedibile la mia vita quando entra in gioco Carmen. Fra pochi minuti dovrei parlare davanti ad un’ assemblea di protesta contro il brutale attentato terroristico e al momento sto proteggendo una degli attentatori.
“No, non stai proteggendo uno di loro, stai aiutando la tua Carmen”, penso.
“E non la stai proteggendo dalla polizia, ma da se stessa, dai suoi errori, dalle sue scelte sbagliate”, continuo.
“Quanto sei retorico”, mi dico, mettendo fine all’inutile dialogo interiore.
Comunque sia, non riesco proprio a fare altrimenti.

Con Carmen ci siamo amati come capita ai sedicenni della fine degli anni settanta. Con l'intensità dei giovani di tutti i tempi ma con la ambizione che la nostra storia fosse parte della storia del mondo che cambiava o che doveva cambiare. Il nostro amore non poteva che partecipare al cambiamento. Era rivoluzionario. "Compagno amore mio", iniziavano le lettere che ci mandavamo.
Quella stessa politica ci aveva separato. Fisiologicamente allergico a ogni forma di violenza, io ero entrato nella FGCI, diventando automaticamente un odioso revisionista da evitare politicamente e purtroppo anche privatamente. Io non avevo mai smesso d'amarla.
Un rumore di passi pesanti e delle voci mi riportano al presente. La polizia è arrivata.
Bussano ed entrano negli uffici che trovano aperti. Bussano anche al nostro ma fortunatamente avevo chiuso a chiave.
“Brigadiere”, sento urlare dopo l’ennesima porta che non si apre, “si faccia dare le chiavi di questi uffici. Voglio controllarli tutti.”

Siamo fottuti, cazzo; e adesso che faccio?
Mi viene istintivamente di pensare alla mia mamma e a quando saprà. Mi immagino persino il suo viso dolente, ma senza traccia di rimprovero, quando verrà a farmi visita in carcere per la prima volta. Cominciamo a sentire le porte che una ad una vengono aperte; per un paio di volte sembra che tocchi a noi, quando i rumori sono particolarmente vicini, ma si tratta prima della stanza accanto e poi di quella di fronte, dall’altra parte dello stretto corridoio: ci hanno regalato ancora qualche secondo di vita.
Mi figuro come la notizia ecciterà Gustavo Selva che nel GR2 di domani leggerà un editoriale sulla pericolosa e colpevolmente sottovalutata contiguità, provata dall’episodio di Siena, fra settori del PCI e terroristi.
Eccoli. Infilano la chiave nella toppa dell’ufficio del professor Sereni.
Tremo per le botte che mi daranno.
Girano la chiave. Aprono la porta. Probabilmente danno un’occhiata veloce alla stanza. Chiudono la porta.
Vanno via.

Il tutto non sarà durato più di 10 secondi, forse meno, ma accucciati sotto la scrivania stretti all'inverosimile a noi è sembrata un'eternità.
Ora capisco come abbiano fatto a non trovare la prigione di Moro in via Gradoli quando hanno bussato alla porta e, con i terroristi armati dietro l’uscio, hanno girato i tacchi e sono andati via.
Come hanno fatto a non insospettirsi per la poltroncina della scrivania messa tutta fuori, come hanno fatto a non vedere la borsa appoggiata al muro di fronte alla scrivania dove eravamo seduti pochi istanti prima che entrassero e che avevamo, come dei deficienti, lasciato in bella vista? Come hanno fatto a non sentire l’odore della paura che usciva dal nostro fiato?
Ma tant’è che io, Carmen e mia madre siamo salvi, almeno per ora, e Gustavo Selva non saprà mai cosa si è perso.
E io rimango convinto che difficilmente i terroristi verranno sconfitti militarmente, almeno non da questi militari. Verranno sconfitti solo se saranno isolati politicamente, se si farà terra bruciata intorno a loro.
E maledico me stesso perché dovrei essere anch’io a farlo e invece mi sto baciando appassionatamente con una terrorista sotto la scrivania del professor Sereni.

Io e Carmen siamo rimasti nello studio fino al pomeriggio inoltrato in silenzio per evitare che ci potessero in qualche modo sentire.
Siamo andati a casa a piedi evitando così un paio di posti di blocco che controllavano auto e bus. Io divido la mia casa con altri due studenti. Ma fortunatamente in questo periodo non hanno lezione e sono tutti e due in Calabria.  Saremo soli e al sicuro. 
“Mi dai l’accappatoio che voglio fare una doccia?”, chiede, “e mi presti una tua camicia che lavo la mia roba?”
Carmen è sotto la doccia, sulla poltrona della mia camera ha posato la sua ampia borsa a tracolla semiaperta. Non riesco a trattenermi e ci guardo dentro. La prima cosa che vedo è una carta d’identità rilasciata dal comune di Brembate intestata ad una certa Claudia Regoli , ma la foto è la sua. C’è anche un passaporto con lo stesso nome. Ha un golfino blu e dentro sembra esserci qualcosa di pesante. Lo prendo e mi sento gelare. E’ fredda, dura, scura e puzza di grasso e polvere da sparo. E’ la prima pistola che tocco e mi spaventa.
Cosa cazzo stai facendo, Arturo? O forse dovrei dire dove sei? O torni in te o scappi. O come diceva mio nonno, o te ripi o te rocchi , o ti fai da parte o ti nascondi.

“Carmen”, le grido dalla porta del bagno, “vado a comprare le sigarette. Torno subito” . Non so se sente e non mi pare risponda.
Il freddo della sera mi pulisce il cervello, cammino e anche se non fumo entro in un tabaccaio. Dove non si parla d’altro che della rapina e dei due carabinieri uccisi.
La Nazione è uscita in edizione straordinaria. La compro. Quante volte ho letto notizie di questo tipo, quante volte ho visto le foto dei cadaveri per terra coperti da un lenzuolo. Ma questa volta è tutto diverso e mi sembra di essere stato io.
Mi viene la tentazione di usare il gettone che ho in tasca per chiamare il 113. Forse il rimorso mi passerebbe. Ma è solo un attimo. Non lo posso fare e torno indietro.
Apro casa e la trovo quasi buia. Una fievole luce viene dalla cucina da dove sento Carmen cantare.
Mi pare una cosa un po’ imprudente e del tutto inopportuna, io ho ancora il giornale con le foto dei morti in mano. Sono quasi pentito di non aver telefonato.
In cucina è accesa solo la luce sotto la cappa; Carmen mi volge le spalle e sta lavorando davanti al tavolo di formica gialla.
Si gira solo un momento sentendomi arrivare.

“Avevo voglia di cucinarti qualcosa. Non c’era granché, sto facendo una frittata con le zucchine. Ti piace?”
Senza sentire la mia risposta, torna a voltarsi e a tagliare le zucchine.
Non so se sia consapevole dello spettacolo che mi sta offrendo. Ha indosso solo la camicia a grandi quadri scozzesi che le ho dato e sotto è nuda. La luce che proviene dalla cappa mette in evidenza tutte le curve del suo corpo. E’ a piedi scalzi.
Si gira un attimo verso di me e mi sorride: ne è consapevole.
Impazzisco di amore e desiderio e tutto il resto passa in cavalleria. Per seppellire i ricordi butto via la Nazione.
Mi avvicino al tavolo, mi metto dietro di lei e l’abbraccio. Comincio a baciarle il collo.
Lei nulla dice e nulla fa. Continua a tagliare le zucchine, come se niente fosse.
Le accarezzo i seni da sopra la camicia e sento i capezzoli si induriscono, mi sembra di riconoscerli, mi sembra mi riconoscano. Le sbottono la camicia che le si apre davanti, ora la mia pelle della mia mano tocca direttamente i suoi seni e lei taglia l’ultima zucchina.
La mia mano scende sui fianchi e arriva ad accarezzare le gambe, Carmen prende la ciotola avorio e apre le uova. La mia lingua le lecca l’orecchio destro e lei impugna una forchetta per sbattere le uova.
Ora la mia mano è fra le sue gambe, le accarezzo la parte interna delle cosce e arrivo al suo sesso caldo e bagnato. Mi vuole, mi aspetta, mi desidera, ma inizia a sbattere le uova, come se fosse del tutto normale avere qualcuno che ti accarezza la fica mentre fai da mangiare.
Con le mani le allargo le gambe per prendere pieno possesso del suo sesso e Carmen sala le uova sbattute.
Mi inginocchio e le lecco mordicchiandoli i glutei e infilo poi  la lingua nel solco che li divide. Ora la mia lingua le accarezza la fica e finalmente un sospiro le esce dalle labbra ma continua a sbattere le uova.
Mi alzo e mi spoglio; sono pronto, sono tanto pronto che mi fa male.
Carmen adesso lascia la ciotola e la spinge al lato del tavolo, sposta anche le altre cose e si adagia sul tavolo.
Mi prendo il cazzo in mano e cerco la strada per entrare dentro di lei. Lei è bagnata e non è difficile entrarle dentro per la prima volta. Mi fermo e la guardo distesa sul tavolo con una mano vicino alla bocca, le ammiro la schiena, le spalle il bacino, il culo. E’ bellissima.
Le metto entrambe le mani sui fianchi e inizio a muovermi.

“Bentornato a casa” mi dice.
Ed è così che mi sento come uno che apre la porta di casa dopo una lunga assenza, come una nave che ritrova l’imboccatura del porto dopo una tempesta. E devo impegnarmi con tutte le mie forze per non venire subito.
Continuo a muovermi dentro lei godendomi lo spettacolo magnifico del suo culo che balla, dei suoi seni adagiati sul piano di formica, del suo sguardo perso nel vuoto, dei suoi pugni chiusi ma non serrati adagiati sul tavolo.
Si muove anche il tavolo e tutto quello che vi è posato sopra; una forchetta finisce a terra e le uova sbattono da sole nella ciotola che piano si avvicina al bordo del tavolo.

Mi fermo; non so perché, forse solo per avere un ricordo in fermo immagine di quanto sta avvenendo, per fissarlo in modo indelebile nella mia memoria.
Poi ricomincio a muovermi più velocemente di prima; il suo respiro si fa più rapido e quasi affannoso; il tavolo ora viaggia per la stanza.
Tutto l’universo converge su quel tavolo, precipitando sul mio cazzo e la sua fica. Altro non esiste. Il mondo fuori non c’è più, si è dissolto, liquefatto.
Lo sento arrivare da dietro la spalla e stavolta non mi potrò controllare. Spingo ancora più forte e il tavolo fa un salto; la ciotola con le uova sbattute ha raggiunto il bordo del tavolo.
“Arturo……” la ciotola finisce a terra, le uova  cadono giù.
La frittata è andata e io vengo.
*******************************************************
Carmen muore in un conflitto a fuoco con la polizia nel Giugno del 1985
In quello stesso anno, Arturo vince una borsa di studio Fulbright per gli USA. E’ diventato un'economista ultraliberista e oggi impone il verbo del FMI ai Paesi in via di sviluppo.

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Sentimentale / Re:L'ultimo teorema di Enrico
« il: Febbraio 07, 2013, 19:46:41 »
Un racconto straordinario,una vita che si spegne ed una (la tua) che rinasce che ,finalmente prende il giusto corso.Complimenti anche per la descrizione del salento(io,che son salentina,ho apprezzato molto tutto questo.

Grazie patrizia,
son salentino anch'io ma vivo a siena da oramai un monte di tempo. E' proprio forse perchè sono un emigrante che provo tanta nostalgia per la mia terra.
A presto, g

9
Sentimentale / Re:L'ultimo teorema di Enrico
« il: Gennaio 18, 2013, 17:06:25 »
Una vita sprecata che ha avuto la possibilità di trovare il coraggio di rinascere...

Mi sembri diverso nel raccontare, come se fossi un altro, quasi non ti ritrovo in questo racconto che a mio avviso si stacca dai precedenti. Mi sembra...

E pensare che a me sembra di scrivere sempre lo stesso racconto e più o meno la stessa storia. Tutto e sempre incentrato sulla dialettica presente/passato intrecciati sempre in modo indissolubile.

Non mi hai detto però se mi trovi peggiorato o migliorato.
Cmq grazie e as presto, gipo

10
Sentimentale / Re:L'ultimo teorema di Enrico
« il: Gennaio 18, 2013, 17:02:50 »
direi decisamente commovente, il destino è un filo di Arianna, che non si spezza se non con la morte: parte del filo, però rimane a srotolarsi in altre mani.
Benritrovato Gipo, ci mancavi.

Grazie nihil,
son qui e non me ne sono mai andato. Una caro saluto, gipo

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Altro / Re:Nella campagna dello zio Concetto
« il: Gennaio 17, 2013, 11:17:19 »
Mi piace il racconto.
Mi sarebbe piaciuto stare lì anch'io.
Mi domando, non sapendo bene la risposta, in quale gruppo sceglierei di stare: fra gli adulti o i bambini.
Forse i bimbi la giornata se la godevano di più, non era evasione, era la vita.
Gli adulti saranno stati presi da tanti pensieri: la rata del mutuo da pagare, il capo ufficio che dava di matto, da quanto tempo il marito la notte non le cercava più.
Forse sarebbe meglio rimaner bambini......

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Sentimentale / L'ultimo teorema di Enrico
« il: Gennaio 15, 2013, 13:22:03 »
Non sono mai andato a puttane. Non certo per ragioni morali o religiose. Se paghiamo chi ci prepara da mangiare o ci fa un massaggio, perché non pagare anche chi ci fa l’amore? Mi sono sempre ritrovato però nel verso della canzone di Baglioni “una storia va a puttane, sapessi andarci io”. Ecco, io non ci so andare e non so bene perché.
Altrimenti non avrei fatto cenno di no alla bella ragazza dell’est che ci era avvicinata alla mia macchina ferma in una piazzola di sosta della statale della val Bormida che porta ad Alessandria. Forse con lei potevo per un attimo stordirmi e non pensare. Mi doveva aver preso per un cliente particolarmente timido, perché non la chiamavo e non mi avvicinavo. Ma appetibile a giudicare dalla BMW serie 6 sulla quale mi trovavo. Stanca di attendere aveva deciso di fare il primo passo. Ma io non mi ero fermato per lei, avevo accostato perché ero sconvolto.

“Ciao Enrico, sono Giuseppe…. Giuseppe Flascassovitti. Senti … Cazzo, te lo dico così, perché non so farlo altrimenti. Barbara ha avuto un incidente gravissimo, sta morendo, vuole vederti”. La voce gli s’incrinò, fece una pausa sforzandosi di non piangere. “Ma devi fare presto”.
Giuseppe e Barbara, un tuffo nel passato. Sembra un’altra vita, sicuramente è un’altra epoca e un’altra città. Barbara non la vedevo da più di dieci anni e Giuseppe forse da venti. Barbara la sognavo spesso e di Giuseppe leggevo su internet tutti gli articoli che pubblicava sul quotidiano locale della città dove ero nato, una marea di anni fa, dove non tornavo da venti anni o giù di lì.

1990, Facoltà di Matematica e Fisica dell’Università di Lecce, riunione del collettivo “La pantera simu nui”.

E’ sera, l’aula 5 del Fiorini è piena di studenti. Sembrano quasi tornati gli anni settanta, gli anni di quell’impegno politico di cui mio padre ogni tanto parla con nostalgia. Una pantera fuggita che vaga spaurita per i dintorni di Roma ha regalato il nome a un movimento studentesco che sta infiammando gli atenei e le scuole di tutta Italia.
Io brucio principalmente per la straordinaria visione delle gambe della ragazza che mi sta di fronte. Alzando gli occhi vedo che anche lei guarda me. Mi vergogno di essere stato colto sul fatto come se mi si potessero leggere in un fumetto i pensieri che mi frullano per il capo. Ma lei sorride e io annego in quel sorriso.

Così quando lo studente al microfono chiede chi s’intenda di computer ed informatica per contribuire alla creazione di Okkupanet una sorta di collegamento in rete dei computer delle università occupate sparse in tutta Italia e vedo la sua mano sollevata, l’alzo anch’io, sebbene stia scrivendo una tesi di teoria dei numeri, sull’ultimo teorema di Fermat e conosco solo il giusto sui computer e nulla sulle reti informatiche.

Barbara invece era un piccolo bellissimo genio. Parlava il linguaggio dei computer meglio dell’italiano. Lei era straordinaria, ma anche gli altri non scherzavano: non dimenticherò la soddisfazione che provammo quando mandammo via fax alla Cattolica di Milano il codice di programmazione che avrebbero dovuto usare per entrare in rete. Il Sud che da sempre arranca in ritardo dietro il Nord, stava insegnando a tutti come si costruisce un’autostrada digitale.

Una sera finito di lavorare, mentre stavamo per andare tutti a mangiare una pizza, un ragazzo biondo di una bellezza sconcertante venne a prendere Barbara. Lo odiai con tutte le mie forze. Se ne andarono insieme a braccetto. Il mio risentimento fu così plateale, com’era stata a tutti evidente la mia passione per Barbara, che fui oggetto di scherzi bonari e pacche sulle spalle da parte degli altri che compativano le mie pene d’amore.

Mi ricordo come fosse ieri quel che mi disse Barbara il giorno dopo mentre ci prendevamo un caffè insieme.
“Giuseppe è il mio più caro amico. Gli voglio bene come a un fratello. Ma non stiamo insieme. Peraltro a lui le donne non piacciono”.
Aggiunse che era un ragazzo straordinario, suo compagno di scuola dall’elementari, suo amico da sempre. Studiava lettere e voleva fare il giornalista.
Il sottotesto era evidente: sono disponibile, fatti avanti.
Era stata la mia prima donna vera. La prima volta e l’ultima che una donna mi faceva sciogliere il cuore solo guardandomi, la prima volta e l’ultima che una donna gridava forte il mio nome mentre veniva, la prima volta e l’ultima che una donna golosamente imburrava una fetta biscottata per poi riempirla di marmellata di arance e invece di mangiarsela me la offriva.
Giuseppe divenne il mio più caro amico.

Abbandonai i ricordi, mi ricomposi e presi rapidamente la mia decisione, per una volta. Richiamai il numero e lui mi rispose subito.
“Scusa Giuseppe, ma sono in macchina ed è caduta la linea” dissi, mentendo perché, disperato, avevo chiuso io, deliberatamente.
“Parto prima che posso, ci vediamo giù. Ti chiamo appena so quando arrivo”.
Ora dovrò trovare il coraggio di dirlo a mia moglie e a mio suocero. Lui è anche il mio capo e domani saremmo dovuti partire per il Lussemburgo per concludere un affare da centinaia di milioni di euro.
A mia moglie qualcosa di Barbara ho detto, non tutto e nemmeno abbastanza. Non le ho mai raccontato delle notti nelle quali la sognavo: erano sempre sogni bellissimi. Mai le avrei parlato del dolore cocente che avvertivo quando alcuni secondi dopo il risveglio mi rendevo tristemente conto che solo sogno era stato. A suo modo mi voleva bene. Io non l’odiavo perché lentamente aveva scolorito la parte migliore di me, odiavo me stesso per averglielo lasciato fare.

1991 Teatro Romano, centro storico di Lecce.

Siamo seduti fra i gradini del teatro in una dolce e tiepida giornata d’ottobre, io e Barbara, il giorno dopo la mia laurea. Fra i due palazzi barocchi che circondano il teatro, l’ultimo spicchio di sole tenta di resistere all’oscurità che avanza colorando di rosso i muri delle case.
“Sono affascinata dall’alchimia. Forse perché mi piace vivere al confine fra il giorno e la notte, la scienza e la magia”, mi dice mentre apre la borsa blu a zainetto che non abbandona mai.
“O forse m’intriga la ricerca in quanto tale; l’alchimia è la ricerca per antonomasia: una ricerca impossibile e infinita, destinata a durare per sempre. Come il mio amore per questa terra e queste pietre o questo particolare momento del giorno. Come il mio amore per te.”
Dalla borsa prende un pacchettino e me lo porge. “Il mio regalo di laurea”.
Non lo so perché, ma mi tremano le mani mentre lo apro. Quello che trovo all’inizio mi sembra uno scherzo. Una pallina di rame legata a una catenella d’oro sottile. Una pallina levigata e liscia che sembra una perla.
“Rame e oro”, mi dice “due dei sette metalli dei pianeti associati con venere e il sole. Due simboli degli alchimisti”
“Venere è la stella della sera, raggiunge la sua massima brillantezza all’inizio dell’oscurità, come se Dio o chi per lui, ci volesse dire di non aver paura del buio. Anche in una notte senza luna, Venere brillerà per noi. Come le lucine che le mamme accendono per i bimbi che hanno paura di affrontare il sonno da soli. Una luce che ricorda che il buio non è mai totale, non è mai per sempre”.
“L’oro è per dirti che sei bello come il sole”.


“Cu nu te scerri ci senti e da du vieni.” Mi ricordo ancora il viso rigato dalle lacrime di mia nonna, quando la andai a salutare il giorno prima della partenza per Princeton e mi dette una foto in cui siamo, io e lei, sulla spiaggia dove mi portava l’estate quando ero piccolo.
Avevo vinto una borsa di studio, le mie intuizioni sull’enigma secolare di Fermat avevano incuriosito il professor Wiles, che da anni si occupava della questione.
Mia nonna dall’alto della sua licenza elementare aveva intuito quel che tutti gli altri, compresi io e i miei genitori, non avevano compreso: quello era un addio e non un arrivederci.
Barbara si era laureata in Fisica col massimo dei voti e avrebbe avuto la possibilità di fare il dottorato in qualunque università europea e americana. Invece aveva iniziato a lavorare per il centro di calcolo dell’Università di Lecce. La situazione economica della sua famiglia glielo consigliava e lei comunque andava cercando un pretesto per rimanere dove voleva stare.
“Tanto lo so che torni”, mi disse dandomi l’ultimo bacio alla stazione mentre già il capostazione fischiava la partenza.
Invece non tornai, non tornai più veramente.
A Lecce riandai solo per seppellire le mie persone care, mia nonna manco era passato un anno, i miei genitori l’anno successivo, travolti da un ladro inseguito dalla polizia, mentre attraversavano la circonvallazione col verde e sulle strisce, rispettando la legge, come avevano fatto tutta la vita.
Intanto avevo incontrato Christine  ad un party dell’Italian society di Princeton al ritorno, da orfano, in America. Lei voleva consolarmi, io mi feci consolare affondando in quelle grosse e materne tette germaniche.
Barbara non seppe nulla, forse qualcosa immaginò, ma capì che ci stavamo allontanando.
Così quando finì il dottorato, Barbara non volle venire ad assistere alla discussione della mia tesi.
“Tanto tu non vuoi più tornare” mi scrisse.
Aveva ragione. Non ero più tornato, letteralmente.
Dopo il dottorato, diverse università americane mi offrirono contratti di insegnamento, ero un allievo di Wiles e lui con la soluzione all’enigma di Fermat era diventato il matematico più famoso del pianeta. Ma dentro di me qualcosa si era rotto, non sentivo più tanto il sacro fuoco della ricerca e l’ambiente americano era troppo competitivo per la mia innata pigrizia.  Partecipai quasi per caso a un concorso per ricercatore a Trento e lo vinsi. L’avventura americana finì così, senza rimpianti.

2001 Venerdì, Piazza del Campo Siena

Seduto in un bar di piazza del Campo, l’unico momento divertente di un noioso convegno di crittografia digitale, mi sforzo per comprendere il problematico inglese di due colleghi giapponesi. D’improvviso la vedo. Più che altro mi appare. Il sole che tramonta le disegna intorno un cono di luce, manco fossimo in teatro.
Al diavolo i giapponesi, vado da Barbara.


2001 Domenica, Albergo Santa Caterina, Siena.

Barbara si sta facendo la doccia, canta, è contenta. Io sono a letto distrutto. Non tanto per il bellissimo sesso che abbiamo fatto per gran parte del fine settimana. Mi alzo e inizio a vestirmi.
Abbiamo vissuto questi giorni non come una parentesi ma come un nuovo inizio, ubriacati dal fatto di esserci ritrovati. Lei ha fatto piani e progetti che io passivamente ho assecondato. Ho trascurato di dirle che sono fidanzato; ma a quanto ho capito anche lei ha una storia da chiudere, non è questo il problema.
Le ho anche giurato che non ho perso la perla di rame che mi aveva regalato per la laurea, l’avevo solo tolta quando la catenina si era rotta giocando a pallone, mentre stavo ancora in America.
Le ho taciuto la cosa più importante: oggi a otto, presso la chiesa di San Sebastiano e Dalmazzo ad Alessandria, sono fissate le mie nozze. Avevo deciso di sposarmi e cambiare vita, lasciare l’università e andare a lavorare con il mio futuro suocero, proprietario di una grande impresa nel settore farmaceutico. Stellina è figlia unica ed entrambi avevano dato per scontato che io sarei entrato in azienda. Avevo resistito, all’inizio, ma poi mi ero lasciato convincere. Il padre di Stellina è un bastardo senza valori ma sa essere convincente e principalmente aveva pigiato i tasti giusti. Aveva capito che ero stufo dello scarso stipendio che l’università italiana mi offriva e del mondo della ricerca in generale. Non ero un genio, questo mi era chiaro da tanto, e l’idea di essere un quadro intermedio della ricerca in un paese in cui scienziati e ricercatori non sono certo in cima alle preferenze sociali nemmeno quando sono geniali, non mi attirava più di tanto.
Giuseppe, il più grande idealista che avessi mai conosciuto, avrebbe semplicemente detto che mi ero venduto. Avrebbe avuto ragione, una casa favolosa, i ristoranti più eleganti, gli alberghi più lussuosi, le auto che avevo solo visto sulle riviste: a queste cose, quando cominci ad abituarti, non riesci più a fare a meno. Ti sembrano beni di assoluta necessità.
Per qualche ora, avevo anch’io creduto che potessi mollare tutto e ricominciare con Barbara. Per qualche ora.
Mentre chiudo la porta, sento ancora Barbara cantare sotto la doccia.


Hanno sostituito le poltroncine di legno giallino con sedili di plastica dai colori sgargianti, hanno ingrandito la hall, hanno messo nuovi negozi. Anche il nome è cambiato: non è più l’aeroporto Casale di Brindisi, ma è diventato, giustamente, l’Aeroporto del Salento.
Mentre aspetto il mio bagaglio riesco a intravedere Giuseppe che mi aspetta, aldilà dal vetro. Si è tagliato la barba con cui l’avevo visto in una delle ultime foto pubblicate sul giornale online che dirige. Sembra più giovane, è ancora bellissimo Immagino che le donne continuino a fargli una corte spietata nonostante la sua dichiarata omosessualità.
I nostri sguardi s’incrociano, la mia bocca si apre in un largo sorriso riflesso istintivo del cuore felice di rivedere un amico cui ho voluto molto bene. Gli faccio un ampio gesto di saluto con la mano.
Accenna un lieve sorriso, ha lo sguardo triste, piega la testa verso il basso. Capisco. Per quanto abbia fatto presto, sono arrivato troppo tardi.
Il suo abbraccio affettuoso mi dà una sensazione di calore e di gioia che non sentivo da secoli. Se non fosse per Barbara, direi che sono felice.
“Quando è successo ?”, chiedo una volta in macchina.
“Poche ore fa, quando cominciava a fare sera”.
A quell’ora io avevo appena trovato la sua catenina nell’armadio in soffitta dove tenevo varie cose del passato. Non ero voluto partire senza. Questa volta avrebbe dovuto vedere che la conservavo.
“Venere la sta illuminando nel buio”, pensai, meravigliandomi di sentirmi rasserenato da questo stolto pensiero. E' adesso che la diga si rompe e le lacrime cominciano a sgorgare copiose. Piango come un bambino distrutto da un dolore da adulto.
“Come potrai immaginare, sei stato il nostro argomento preferito di conversazione per anni. Enrico di qui, Enrico di lì. Poi all’improvviso, una decina di anni fa di te non volle quasi più parlare. Se io iniziavo raccontandole, magari, che ci eravamo sentiti per telefono o per mail, lei subito cambiava discorso”.
“Pensai che fosse perché era incinta e di li a poco, infatti, si sposò con Alberto con cui stava da un po’. Persona per bene, insegna matematica al De Giorgi. Non ti nego che fui contento che si fosse emancipata da te”
“Poi ieri, un’infermiera che mi conosce, mi disse che continuava a chiamare un certo Enrico. Visto che non era il nome di nessun familiare e che ne hanno viste di tutti i colori, al marito non hanno detto niente, ma hanno avvertito me. E io te.”
“La figlia di Barbara, come si chiama?”
“Angela Venere”.
Erano le 11 di notte. La luna non c’era e il cielo splendeva di stelle. Mi sarebbe piaciuto salutarla la Venere del cielo, ma dal cruscotto non riuscì a vederla.
“Cosa vuoi fare? Lei non la possiamo vedere, l’obitorio chiude alle 11”.
“Hai taralli, formaggio e olive a casa?”
“Certo e anche del buon vino”.
“Di questo non dubitavo, ma devi averne tanto. Andiamo a casa tua e ni mbriacamu a stozze”.

Cinque mesi dopo

Mia nonna aveva torto e Barbara ragione. Alla fine son tornato.
Per il momento sto a casa di Giuseppe, che attraversa un lungo periodo di singlitudine.  Ma sono in trattative per un appartamentino nel centro storico.
Da mia moglie e da mio suocero non ho voluto niente. Solo ciò che per contratto mi spettava. Mi ha dato l’idea che entrambi fossero alla fine quasi sollevati. Ho detto addio alle macchine costose, alle belle case. Non vado nei più ristoranti da guida Michelin, ma qui si mangia bene dappertutto e poi mi è sempre piaciuto cucinare.
Con i soldi che avevo messo da parte e con la liquidazione ottenuta, ho aperto una piccola attività con Nicola uno dei fratelli di Barbara. Siamo partiti dall’idea di vendere in rete in tutta Italia e anche all’estero, l’ottimo olio che lui produce. Poi ci siamo allargati a vari prodotti salentini, dalle friselle alla cotognata, dai pomodori secchi al vino.
Nel frattempo, per non dimenticare chi ero, do pure ripetizioni di matematica.
Da poco più di un mese abbiamo aperto in centro un piccolo negozio che vende prodotti a chilometro zero: per chi non vuole acquistarli on line, può venire in negozio.
Lavorare in negozio mi piace particolarmente, perché ogni tanto Angela Venere che fortunatamente, non me ne voglia Barbara, tutti chiamano solo Angela, viene a trovare suo zio.  Siamo diventati amici e spero mi voglia un po’ di bene.
Ogni tanto mi perdo a guardarla senza che lei se ne accorga. Mi sorprendo a fare il gioco squallido delle rassomiglianze. Alcuni giorni mi pare che assomigli a mia madre, per come si muove, per la voce o per il taglio degli occhi. Altre volte noto che fa gli stessi gesti del padre col quale condivide il colore dei capelli. Non saprò mai la verità.
E comunque non me ne frega niente, il solo vederla mi rallegra il cuore. Anche perché è eguale a sua mamma.
Sono sereno come non ero da tanto, oserei dire felice seppur con quel retrogusto amaro che mi dà il sapere che Barbara non è qui per vedermi.
Con Nicola vado d’accordo. Solo una volta abbiamo discusso un po’ animatamente: quando decidemmo il nome del sito e poi del negozio. Non ha mai capito perché ho voluto a tutti costi chiamarlo,
“La perla di rame”.

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Sentimentale / Re:Alina
« il: Settembre 28, 2012, 22:05:11 »
Anche se non son donna, il tuo racconto mi è piaciuto, brava

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Sentimentale / Re:Quando i ricordi...
« il: Settembre 21, 2012, 17:58:29 »
veramente bello, mi è piaciuto. brava

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Sentimentale / Re:Per sempre insieme
« il: Settembre 21, 2012, 17:52:17 »
mi è piaciuto.
Se ti posso dare un consiglio visto che non ho più gli anni per i cattivi esempi.
Frasi come
Citazione
Fosse stata un'attrice, in quel momento avrebbe sicuramente vinto l'oscar come migliore protagonista.
io le cambierei, ma se solo il mio modesto parere

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