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Sentimentale / Intrappolata (3)
« il: Aprile 03, 2022, 18:06:20 »
Lo studio era al terzo piano. Le buchette della posta erano in legno massello. Al centro della tromba delle scale si ergeva la colonna dell'ascensore dentro a una gabbia di ferro dipinta di nero. Non prendo mai gli ascensori, mi piace fare le scale per rassodarmi i glutei. Anche il passamano era di legno, intarsiato con disegni a volute circolari.
Al lato della porta dello studio si ergeva una pianta con un maestoso ciuffo verde che svettava da un grosso vaso grigio.
La porta si aprì di colpo e un uomo dalla barba ben curata e i capelli neri, folti e un poco ribelli, gli cadevano su una fronte spaziosa.
"Buongiorno, lei deve essere Maria Arcinboldi."
"Si dissi con la voce un poco strozzata", ero rimasta colpita dalla bellezza di Giorgio. La carnagione leggermente abbronzata in un tono luminoso, evidenziata dalle braccia scoperte dalla camicia arrotolata sotto i gomiti. Le vene degli avambracci risaltavano come le radici della pianta nel vaso a lato.
"Vieni, entra, creo che possiamo darci del tu, così mi fai sentire meno vecchio."
"Certo...", risposi mentre pensavo - ma quale vecchio, non avrà più di 35 anni, e poi è così virile.
Mi fece entrare e l'ingresso sembrava quello di una casa, di un'abitazione privata, piuttosto che di uno studio professionale.
La sala invece aveva tutto quello che ci si poteva aspettare da uno studio fotografico: un telone bianco che si ricongiungeva con il muro per formare una superficie di luce uniforme. Lampade a ombrello per dirigere i punti luce dove si desiderava, pesanti drappi neri che scendevano a formare una parte divisoria laterale. I faretti accessi sul soffitto mi scaldavano il collo ed emanavano un calore piacevole e rassicurante.
Solo un elemento stonava: al centro del set riluceva una gabbia fatta di barre d'acciaio saldate tra loro. Non era molto grande, ma abbastanza per contenere un cane di grossa taglia o una persona minuta.
"Bello studio dissi a Giorgio, ma quella che cos'è?" chiesi, indicando la gabbia.
"Il servizio fotografico è per un'azienda di spedizioni che sta promuovendo un nuovo tipo di mezzo per il trasporto, come ti avevo accennato al telefono."
"Ah, e cosa spediscono, tigri del bengala?", domandai ridendo.
"No, ragazzine indisciplinate." mi rispose Giorgio con un sorriso malizioso.
Osservai il pelo del petto che affiorava in folti riccioli neri dalla camicia azzurro chiara. Mi erano sempre piaciuti gli uomini dal vello fitto. In un modo di depilati metrosexual, devo essere una delle poche donne rimaste ad essere ancora attratta da un uomo che mostra la sua virilità. Anche la mia amica Francesca si prendeva gioco di me: "Ma come fanno a piacerti quegli orsi pelosi. Poi appoggi la testa sul petto e ti rimangono tutti i peli in bocca".
Eppure la mia attrazione aveva qualcosa di ancestrale che non potevo frenare. Mi piacevano gli uomini decisi che non accettavano un no e mi dicevano cosa dovevo fare. Non come quei mollaccioni dei miei compagni di università che mi sbirciavano il seno e poi abbassavano gli occhi. Un uomo dev'essere in grado di reggere lo sguardo della donna desiderata, non fuggire come un cucciolo impaurito. Anche quella gabbia nel centro del set aveva qualcosa di ancestrale che mi attraeva.
Ero assorta nei miei pensieri e non mi ero accorta che Giorgio aveva già iniziato a scattarmi delle foto. Nascosto dietro all'obiettivo, sentivo il rumore della reflex a ogni scatto.
"Non ti preoccupare Marina, fai come se non ci fossi, il tuo sguardo assorto e pensieroso è perfetto."
Così continuai ad esaminare lo studio, passai le dita sul freddo acciaio della gabbia. Mi è sempre piaciuto passare i polpastrelli sugli oggetti, sentire le superfici ruvide, lisce, porose come se avessero un'anima da rivelare. Quand'ero bambina giocavo nel giardino dietro al palazzo con gli occhi chiusi, cercando di cogliere più dettagli possibili dell'erba fine e umida che passavo tra le dita.
Rimasi ad ascoltare il suono della macchina fotografica: clic, clic, clic.
Al lato della porta dello studio si ergeva una pianta con un maestoso ciuffo verde che svettava da un grosso vaso grigio.
La porta si aprì di colpo e un uomo dalla barba ben curata e i capelli neri, folti e un poco ribelli, gli cadevano su una fronte spaziosa.
"Buongiorno, lei deve essere Maria Arcinboldi."
"Si dissi con la voce un poco strozzata", ero rimasta colpita dalla bellezza di Giorgio. La carnagione leggermente abbronzata in un tono luminoso, evidenziata dalle braccia scoperte dalla camicia arrotolata sotto i gomiti. Le vene degli avambracci risaltavano come le radici della pianta nel vaso a lato.
"Vieni, entra, creo che possiamo darci del tu, così mi fai sentire meno vecchio."
"Certo...", risposi mentre pensavo - ma quale vecchio, non avrà più di 35 anni, e poi è così virile.
Mi fece entrare e l'ingresso sembrava quello di una casa, di un'abitazione privata, piuttosto che di uno studio professionale.
La sala invece aveva tutto quello che ci si poteva aspettare da uno studio fotografico: un telone bianco che si ricongiungeva con il muro per formare una superficie di luce uniforme. Lampade a ombrello per dirigere i punti luce dove si desiderava, pesanti drappi neri che scendevano a formare una parte divisoria laterale. I faretti accessi sul soffitto mi scaldavano il collo ed emanavano un calore piacevole e rassicurante.
Solo un elemento stonava: al centro del set riluceva una gabbia fatta di barre d'acciaio saldate tra loro. Non era molto grande, ma abbastanza per contenere un cane di grossa taglia o una persona minuta.
"Bello studio dissi a Giorgio, ma quella che cos'è?" chiesi, indicando la gabbia.
"Il servizio fotografico è per un'azienda di spedizioni che sta promuovendo un nuovo tipo di mezzo per il trasporto, come ti avevo accennato al telefono."
"Ah, e cosa spediscono, tigri del bengala?", domandai ridendo.
"No, ragazzine indisciplinate." mi rispose Giorgio con un sorriso malizioso.
Osservai il pelo del petto che affiorava in folti riccioli neri dalla camicia azzurro chiara. Mi erano sempre piaciuti gli uomini dal vello fitto. In un modo di depilati metrosexual, devo essere una delle poche donne rimaste ad essere ancora attratta da un uomo che mostra la sua virilità. Anche la mia amica Francesca si prendeva gioco di me: "Ma come fanno a piacerti quegli orsi pelosi. Poi appoggi la testa sul petto e ti rimangono tutti i peli in bocca".
Eppure la mia attrazione aveva qualcosa di ancestrale che non potevo frenare. Mi piacevano gli uomini decisi che non accettavano un no e mi dicevano cosa dovevo fare. Non come quei mollaccioni dei miei compagni di università che mi sbirciavano il seno e poi abbassavano gli occhi. Un uomo dev'essere in grado di reggere lo sguardo della donna desiderata, non fuggire come un cucciolo impaurito. Anche quella gabbia nel centro del set aveva qualcosa di ancestrale che mi attraeva.
Ero assorta nei miei pensieri e non mi ero accorta che Giorgio aveva già iniziato a scattarmi delle foto. Nascosto dietro all'obiettivo, sentivo il rumore della reflex a ogni scatto.
"Non ti preoccupare Marina, fai come se non ci fossi, il tuo sguardo assorto e pensieroso è perfetto."
Così continuai ad esaminare lo studio, passai le dita sul freddo acciaio della gabbia. Mi è sempre piaciuto passare i polpastrelli sugli oggetti, sentire le superfici ruvide, lisce, porose come se avessero un'anima da rivelare. Quand'ero bambina giocavo nel giardino dietro al palazzo con gli occhi chiusi, cercando di cogliere più dettagli possibili dell'erba fine e umida che passavo tra le dita.
Rimasi ad ascoltare il suono della macchina fotografica: clic, clic, clic.