Scrittura creativa
Libri e Lettura => Letteratura che passione => Topic aperto da: Doxa - Novembre 25, 2015, 11:04:31
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Sto rileggendo il libro titolato “Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia”, scritto da Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffìa. In questo testo le autrici esaminano lo stereotipo, il pregiudizio della sessuofobia nel cristianesimo e poi nella Chiesa cattolica: per il cattolicesimo il piacere è colpa, il sesso è peccato. “Da praticare con parsimonia e disagio esclusivamente nel matrimonio, e principalmente per procreare. Alcuni enunciati si ripetono nel corso del tempo nella predicazione cattolica fino a rendere possibile una sintesi così brutale”.
Nel passato la Chiesa usò verso la sessualità repressione e clemenza per governare le “anime” dei fedeli.
La teologia cristiana considerava il rapporto sessuale tra un uomo ed una donna metafora del rapporto fra l’anima e Dio, anticipo del piacere d’amore che si vivrà in “paradiso”. Come tale, il rapporto sessuale deve essere pervaso di significati spirituali, privato dell’aspetto ludico ed erotico che lo aveva contrassegnato nel mondo pagano.
Martin Lutero e la Riforma protestante denunciarono la corruzione ed il lassismo della Chiesa di Roma anche nella morale sessuale. Il Concilio di Trento e la cosiddetta “Controriforma” cattolica cercarono di disciplinare gli ambiti e le modalità entro cui poteva esprimersi la sessualità. Tramite le norme canoniche e la confessione coercizzarono le coscienze dei fedeli, cioè di tutti o quasi, fino alla prima metà del secolo scorso. I confessori ed i parroci mediavano l’intransigenza delle norme del catechismo con le necessità quotidiane e particolari della “carne e del desiderio”. Usavano flessibilità e pragmatismo nella condanna della masturbazione, della sodomia e della prostituzione, avendo cura di instillare e rafforzare nelle coscienze il senso del peccato e della colpa che garantiscono la perpetua soggezione delle anime. Tale sistema di controllo durò per secoli, ma la modernizzazione ne incrinò le basi con la contestazione alla Chiesa del monopolio della morale sessuale.
I mutamenti culturali indotti dall’Illuminismo e l’affermarsi dell’individuo come soggetto di diritti sottrassero progressivamente il sesso alla dimensione religiosa, riuscirono a togliere la sovranità esclusiva del diritto canonico sui comportamenti sessuali.
Il conflitto cominciò alla fine del 18/esimo secolo e proseguì nei secoli successivi quando la competenza sulla sessualità venne attribuita a medici, biologi, antropologi e poi psicoanalisti, che negavano alla Chiesa il diritto di imporre norme universali e ai teologi la capacità di definire il senso ed il valore dell’atto sessuale, depotenziato di ogni significato spirituale.
Anche il controllo delle nascite fu oggetto di contesa che divise società e Chiesa dal XIX secolo. L’ostinato rifiuto del controllo delle nascite la Chiesa lo sancì con due encicliche, la “Casti connubii” del 1930 e l’”Humanae vitae”! del 1968, che ribadiscono l’opposizione della Chiesa fra sessualità e riproduzione.
Alla stesura dell’enciclica sociale “Humanae vitae” contribuì l’allora cardinale Karol Wojtyla. Tale “lettera” contiene i temi che sono ancora al centro della discussione “che divide la concezione della Chiesa da quella della società laica: la legge di natura, il valore del matrimonio, l’indivisione dei due aspetti dell’atto sessuale (corporale e spirituale), l’unione fra gli sposi e la procreazione, e la richiesta alla scienza di percorrere strade di ricerca rispettose della morale cattolica”. Temi questi che hanno aperto un solco profondo tra la Chiesa e le donne, nel passato considerate le “custodi” dei valori religiosi e le alleate della Chiesa.
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Con l’enciclica “Humanae vitae” e con il pontificato da Giovanni Paolo II che durò dal 1978 al 2005, la Chiesa cattolica tentò di riaffermare l’unità fra corpo e spirito che aveva caratterizzato la specificità del cristianesimo rispetto al paganesimo.
Questo papa ripropose all’Occidente cristiano il significato spirituale del coito, il rapporto sessuale non separato dall’intenzione della procreazione di figli. Ma la società occidentale era ormai orientata in modo diverso: il controllo delle nascite, il piacere sessuale come atto in sé, a prescindere dalla procreazione. Ciò è stato possibile anche con la scoperta degli antifecondativi per la donna e la cosiddetta “rivoluzione femminile”.
Secondo le due autrici del citato libro, Margherita Pelaja e Lucietta Scaraffìa, non sono “due sistemi fondati l’uno su regole e limitazioni, l’altro su libertà e piacere; ma due concezioni diverse della sessualità, del rapporto dell’essere umano con il corpo, e più in generale della ricerca di una nuova etica del rapporto della persona con il mondo”.
Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo di Tarso consiglia loro di sposarsi se sono incontinenti. Dice, inoltre, che il coniuge non deve indurre il/la partner all’astensione sessuale. “Ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente la moglie verso il marito”.(7, 2 – 3) E nella Lettera agli Efesini lo stesso apostolo afferma: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”…. (5, 25); “…i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso”. (5, 28)
In queste frasi paoline appare l’innovazione cristiana riguardo sia i rapporti sessuali, permettendoli solo nell’ambito del matrimonio, sia il cambiamento nella concezione del corpo, non solo natura ma anche spiritualità.
Il cristianesimo influenzato dalla filosofia stoica, tolse la sessualità dalla sfera naturale per inserirla in quella culturale. Per conseguenza il comportamento sessuale fu oggetto non solo della precettistica morale ma anche della teologia.
Ovviamente l’affermazione del cristianesimo causò restrizioni morali e proibizioni a popolazioni pagane che consideravano la sessualità come un aspetto dell’essere umano dato dalla natura, e quindi non oggetto di controllo.
Il nuovo modo di concepire la sessualità assunse importanza crescente nel definire l’identità cristiana ma ebbe anche l’effetto di cambiare i rapporti tra i sessi. Fu una rivoluzione simbolica e culturale dalla quale la cultura occidentale ricevette le caratteristiche che la contraddistinguono ancòra oggi nei fedeli: la sessualità come incontro tra corpo e spirito.
Comprensibilmente il codice di comportamento sessuale cristiano ebbe tensioni contrastanti ed eresie. L’unico punto sul quale i primi cristiani sembravano concordare tra loro era il distacco dalla precettistica sessuale ebraica basata sull’impurità: per coerenza con l'impurità del sangue era considerato impuro avere rapporti sessuali durante le mestruazioni. Invece concordavano con l’etica veterotestamentaria riguardo l’adulterio, l’omosessualità, frequentare prostitute. In queste occasioni si cadeva in uno stato di impurità uguale a quello che contaminava chi mangiava animali proibiti o non eseguiva i lavacri prescritti, per uscire dal quale bisognava sottoporsi ad un rito di purificazione.
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Nel primo capitolo del citato libro “Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia”, Lucietta Scaraffìa evidenzia che “Nelle sacre scritture ebraiche e cristiane non c’è differenza per ciò che riguarda i peccati sessuali: l’elenco che ci fornisce Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (6, 9) prevede la condanna dei pòrnoi (fornicatori), moichòi (adulteri), malakòi (effeminati), arsenokòitai (sodomiti). Le novità introdotte dal cristianesimo riguardano invece due punti importanti: il matrimonio e il celibato”.
Infatti nella prima Lettera ai Corinzi (7, 9) Paolo dice: “se non sanno vivere in continenza , si sposino; è meglio sposarsi che ardere”. Questo apostolo capisce che la soddisfazione del desiderio sessuale è una componente del matrimonio.
Più che dall’apostolo Paolo il pensiero cristiano sulla sessualità fu influenzato nel medioevo dal filosofo, vescovo e teologo Agostino (354 – 430), in continuità con la dottrina paolina, i vangeli e la tradizione veterotestamentaria.
Nel 397, dieci anni dopo la sua conversione al cristianesimo, Agostino scrisse le “Confessioni”, in cui narra anche la sua propensione per i diletti provocati dall’eros, a lui noti per essere stato anche sposato.
Nel “De bono coniugali”, che redasse nell’anno 400 circa, il vescovo d’Ippona dice che la bontà della procreazione rende buono il matrimonio; di per sé è un bene nel confronto con la fornicazione e l’adulterio. Ma quando il coito va oltre gli accordi nuziali cioè oltre la necessità di procreare, è colpa veniale della moglie. Dio creò Adamo ed Eva, uno maschio l’altra femmina, per fare figli tramite la copulazione e l’unione spirituale.
In altri passi del “De bono coniugali” Agostino afferma che esistono anche altri fini nel matrimonio, oltre la procreazione dei figli: la mutua fedeltà dei coniugi, il valore dell'amore tra marito e moglie, la carità che unisce perfino coloro i quali l'età o la sorte possono aver privato dei figli: "Nel vero e ottimo matrimonio, nonostante gli anni, e sebbene tra l'uomo e la donna l'ardore della giovinezza sia svanito, continua in pieno vigore, tra lo sposo e la sposa, l'ordine della carità" .
La prole, la fedeltà, il vincolo indissolubile del matrimonio sono considerati da Agostino benedizioni dello stato matrimoniale, e la copula coniugale, anche se provoca diletto non è peccato in sé. Non è quindi da regolare il piacere in sé, quanto la ricerca esclusiva del piacere, cioè la concupiscenza, che denomina “peccatum”.
Nel “De nuptiis et concupiscentiis” Agostino polemizza col vescovo pelagiano Giuliano di Eclanum e sostiene che la concupiscenza, è una malattia o disordine del desiderio sessuale, che motiva a soddisfarlo anche quando non è lecito, e colpisce l’umanità come conseguenza del peccato originale; invece i pelagiani affermavano che la “concupiscentia carnis” è un bene naturale, e che sono cattivi soltanto i suoi eccessi.
Alla base del pensiero agostiniano c’è la confutazione della teoria del monaco e teologo Pelagio (360 – 420) che negava l’esistenza del peccato originale.
Agostino segue le orme di Paolo di Tarso che, nella sua lettera ai Romani, si era lamentato della concupiscenza come frutto del peccato originale.
Il collegamento fra peccato originale e sessualità, ribadito dal Concilio di Trento, contribuì a caricare di negatività la vita sessuale e a condizionare le norme relative ai comportamenti.
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“Anche se in apparenza poteva sembrare che la famiglia cristiana riprendesse le virtù di una buona famiglia della tradizione romana, anch’essa monogamica, la natura del legame era cambiata completamente di significato, e non solo perché alla donna veniva concesso un posto egualitario nella relazione e veniva sollecitato il libero consenso degli sposi, ma soprattutto perché ne erano stati completamente trasformati il senso e lo scopo, attraverso un profondo lavoro di revisione simbolica”. E’ quanto afferma Lucietta Scaraffìa nel citato libro.
Il matrimonio venne simbolicamente ammantato dalla sacralità. Il rapporto di coppia da evento sociale e naturale fu trasformato in un legame sacro, per definire il quale venne utilizzato il termine greco “mystèrion” (in latino “sacramentum”), il mistero del dono della grazia offerta da Dio.
Il “bonum sacramenti” simbolicamente trasforma il matrimonio da contratto sociale ad una realtà superiore che trascende la volontà dei contraenti e rende indissolubile il rapporto. Non è indissolubilità naturale ma teologica. Dio è introdotto come radice dell’unità della coppia e il divieto del divorzio è dedotto dalla sua volontà.
Il cardinale Gianfranco Ravasi in un suo articolo titolato “I due saranno una sola carne”, pubblicato lo scorso 25 giugno su “Famiglia Cristiana”, cita un passo del vangelo di Marco: “Dall’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. (10,6-9). Questo passo, simile alla versione di Matteo (19, 3 – 9) definisce la struttura cristiana del matrimonio e della famiglia, disegnata all’interno dell’amore umano dallo stesso Creatore.
“Gesù, infatti, rimanda al “principio”, cioè al pensiero originario di Dio nella creazione della coppia, e le sue parole sono le stesse del Libro della Genesi: “…i due saranno una sola carne” (2,24), a cui aggiunge solo un breve commento finale sull’indissolubilità dell’autentico legame d’amore”.
Il cardinale Ravasi aggiunge che nel discorso di Gesù ai farisei ci sono quattro dichiarazioni.
La prima è una citazione del primo racconto della creazione: “Dio li creò maschio e femmina” (Genesi 1,27). La dualità sessuale è una qualità iscritta nell’umanità da Dio.
La seconda asserzione è tratta dal secondo racconto della creazione: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola”. (Genesi 2,24). “Gesù - dice Ravasi - ricorda che ogni matrimonio spezza un passato e inaugura un futuro. La famiglia precedente, le esperienze della giovinezza, i legami del passato restano ancora ma sono superati dal nuovo orizzonte che si schiude davanti alla famiglia nuova che sta nascendo”.
La terza affermazione è un commento di Gesù alla frase della Genesi citata (“I due saranno una carne sola”): “Così non sono più due, ma una sola carne”. È la celebrazione dell’unità creata dall’amore: i sessi sono due, le individualità dell’uomo e della donna, ma l’amore fa “fondere” senza confondere le due individualità.
La quarta ed ultima frase, costituisce il vertice del ragionamento di Gesù nella discussione con i farisei sul divorzio: Egli afferma che “l’uomo non deve separare ciò che Dio ha congiunto”. Invece la cultura antica considerava il connubio un semplice legame naturale finalizzato alla procreazione. Diversamente da questa, per la tradizione cristiana l’accordo di coppia costituisce l’essenziale del matrimonio e non la fecondità. La sterilità non costituisce valido motivo per la separazione. E’ importante il legame fra i due sposi basato sul reciproco amore e la solidarietà.
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“Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta” (5, 4): questo erotico verso è nel “Cantico dei Cantici”, uno dei libri della Bibbia, attribuito al re di Israele Salomone, vissuto nel IX sec. a.C., noto per la sua saggezza e per i suoi amori. In realtà questo “Cantico” fu elaborato da uno scrittore anonimo nel IV sec. a.C. che fece confluire nel testo diversi poemi precedenti originari dell’area mesopotamica. Racconta in versi l'amore tra due innamorati, con tenerezza, sfumature sensuali ed erotiche, che non pregiudicano il carattere sacro del Cantico, in quanto l’amore dei due amanti, per l’autore del testo, ha origine divina. Il testo è composto da 8 capitoli contenenti poemi d'amore in forma dialogica tra un uomo (Salomone) e una donna (Sulammita).
Il secondo verso del prologo comincia con l’amata che chiede baci “…Mi baci con i baci della sua bocca!” o anche: “Mi bacerà con i baci della sua bocca./ Sì, migliore del vino è il tuo amore./ Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza,/ aroma che si spande è il tuo nome:/ per questo le ragazze di te si innamorano”. (1, 2 – 3) Queste parole che dominano l’inizio del primo capitolo esprimono desiderio, passione che aleggiano nei successivi versi.
C’è da dire che re Salomone, secondo la leggenda, “aveva 700 principesse per mogli e 300 concubine”. Era un sovrano “macho”.
Anche Davide, padre di Salomone, non era da meno. Prima fu un giovane pastorello, poi divenne monarca, donnaiolo sempre. Infatti la biografia davidica è un catalogo di seduzioni, adultéri, abbandoni e delitti più o meno d’onore. Davide non arretrava davanti a nulla pur di ottenere ciò che voleva. E se c’erano mariti di mezzo, come nel caso di Micol e di Betsabea, due sue “prede”, tanto peggio per i loro mariti, li fece uccidere.
Con fervente immaginazione il Cantico dei Cantici è considerato dalla cristianità allegoria dell’amore di Dio per la sua Chiesa, invece molti commentatori vi notano la parità della donna con l’amato: le viene riconosciuto lo stesso diritto di esprimere il proprio desiderio e la propria voglia di amore.
Diversamente dal “Cantico”, nel biblico Qoelet o Ecclesiaste, elaborato da un ignoto autore vissuto nel IV o III secolo a.C., si leggono frasi misogine come questa: “Più odiosa della morte è la donna, la quale è un laccio, una rete il suo cuor, catene le sue braccia, chi è grato a Dio ne può scampare, ma il peccatore ci resta preso [...] un uomo solo tra mille ho trovato, ma una donna fra tante non l'ho trovata". (7, 27)
La sessuofobia giudaica si diramò anche nel cristianesimo, che affonda le proprie radici nella misoginia patriarcale delle società pastorali giudaiche ed aramaiche. Infatti nel Nuovo Testamento ci sono insegnamenti e precetti sessuofobici ripresi di quelli dell’Antico. Nel Vangelo di Matteo (V, 27-28) Gesù dice: “Voi sapete che fu detto dagli antichi: ‘Non commetterai adulterio’. Ma io vi dico: Chiunque guarderà una donna con desiderio commetterà nel suo cuore adulterio con lei”. La condanna della sessualità, limitata dagli Ebrei ai “comportamenti adulterini”, venne estesa da Gesù al desiderio sessuale verso la donna.
Per comprendere la sessualità nella tradizione cristiana è pure interessante la figura di Maria, la madre di Gesù, nella sua identità complessa di vergine-madre.
Molti critici del cristianesimo considerano il dogma mariano della verginità la prova della sessuofobia che avrebbe caratterizzato fin dalle origini la tradizione della Chiesa. Ma non è così. La verginità di Maria è teologica, non collegata a condizionamenti morali del comportamento sessuale. Ella è la madre di Gesù, l’uomo-Dio, come tale funzionale al dogma della natura divina e umana di suo Figlio: per volere dello Spirito Santo fu generato da una donna, come tutti gli esseri umani, ma da una donna straordinaria, che nonostante il parto rimase vergine prima del parto (ante partum), durante il parto (in partu) e dopo il parto (post partum). Tale “miracolo” evoca precedenti miti incentrati sulla nascita straordinaria di alcuni dei, semidei od eroi, come nel celebre mito ellenistico di Danae, la vergine fecondata da una pioggia d’oro che dà vita al semidio Perseo. Comunque non c’è dubbio che questo dogma sia all’origine della svalorizzazione dell’atto sessuale.
Alla fine del medioevo il culto mariano impose la valorizzazione di Giuseppe, fino ad allora trascurato sposo di Maria. Quest’uomo “viene proposto come padre di famiglia devoto, e in quanto tale –dice Lucetta Scaraffìa- inizia ad essere indicato alla devozione dei fedeli come santo. Anche le raffigurazioni del matrimonio fra lui e Maria -che prevedono sempre la presenza di un sacerdote e lo scambio di anelli- rivelano il tentativo di rafforzare l’istituzione matrimoniale, se pure a prezzo di qualche ambiguità. Infatti, offrire il modello della sacra coppia implica la messa in discussione di un aspetto del matrimonio cristiano ritenuto fondamentale per la sua validità da molti teologi e canonisti, cioè la consumazione del rapporto sessuale. Giuseppe e Maria vengono presentati come coppia modello anche se vivono in castità, proponendo quindi come più importante nella definizione del matrimonio il consenso della consumazione. La coppia casta offre un modello di possibile santità anche nella vita matrimoniale, ma senza dubbio questo avviene a prezzo di una svalutazione della sessualità “.
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Dal biblico Libro dell’Esodo“Non commettere adulterio” (20,14). Il sesto comandamento vieta all’uomo di copulare con la donna di un altro. Ma l’evangelista Matteo ci informa che Gesù dette un nuovo significato a questo comandamento: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”. (5, 27 – 28)
“Fu pure detto: "Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all'adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”. (5, 31 – 32)
Gesù vuol dire che l’uomo che ripudia la moglie la induce a risposarsi o a convivere con un altro uomo, ma diventa adultera perché il vincolo matrimoniale è indissolubile.
Lo stesso concetto è citato anche nel Vangelo di Marco: Egli disse loro: “Chiunque manda via sua moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei; e se la moglie ripudia suo marito e ne sposa un altro, commette adulterio”. (10, 11 – 12) Frase simile è pure nel Vangelo di Luca (16, 18)
L’insegnamento di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio e sulla parità tra uomo e donna era rivoluzionario e sconcertante rispetto al giudaismo del suo tempo. Secondo la legge di Mosè, al marito era consentito ripudiare la moglie, dandole il libello liberatorio, perché potesse eventualmente risposarsi. Gesù era contrario alla possibilità di divorziare perché considerava il matrimonio come un dono divino irrevocabile che crea un legame indissolubile e quindi un imperativo categorico: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. (Mt 19, 6; Mc 10, 9).
L’apostolo Paolo di Tarso nella prima Lettera ai Corinzi scrisse: “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal
marito – e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie". (1Cor 7, 10-11).
Secondo la dottrina cattolica Cristo elevando il matrimonio dei suoi fedeli alla dignità di sacramento, ne confermava l'indissolubile unità.
Il sacramento del matrimonio cristiano viene fatto originare dalla prescrizione contenuta nel libro della Genesi (2,24): “Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”.
L’affermazione di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio creò perplessità anche nei suoi discepoli, che gli dissero: Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. Ma Gesù rispose con un detto sull’eunuchia: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono eunuchi nati così dal grembo materno, ve ne sono alcuni resi eunuchi dagli uomini, ve ne sono altri che si sono resi così per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca”. (Mt 19, 10 - 12) La triplice distinzione è chiara: ci sono impotenti a livello sessuale per disfunzioni genetiche; altri, i cosiddetti “castrati”, che nell’antico Oriente erano funzionari di corte (il termine perse in seguito la sua allusione “fisiologica” per indicare soltanto una carica, come accade per "l’eunuco della regina Candace" (Atti ap. 8,26-40), e gli eunuchi per scelta personale, che non si castrano ma si astengono dagli atti sessuali e dal matrimonio per dedicarsi al regno di Dio, un impegno ideale religioso e caritativo.
Nella cristianità il celibato sacerdotale fu deciso nel IV secolo, con i Concili locali di Elvira del 306 e di Roma del 386, sulla base della scelta di Cristo. Tuttavia, anche dopo, per secoli continuerà a sussistere la prassi del sacerdozio coniugato, ancòra in vigore nelle Chiese orientali ortodosse e cattoliche, con l'eccezione dell'episcopato.
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La lussuria: “il grande vizio che corrompe lo spirito”.
Negli eremi medievali i monaci vivevano il loro isolamento assediati da desideri e visioni che dovevano vincere con digiuni e preghiere quotidiane per tendere alla castità. Altri religiosi, invece, affrontavano l’esposizione al peccato con modalità meno virtuali.
Il teologo e dottore della Chiesa Sofronio Eusebio Girolamo (347 – 420 circa), conosciuto come san Girolamo, descrisse il suo lancinante desiderio sessuale in una lettera alla vergine Eustochia, sua discepola: “Le mie membra erano ricoperte solo da un sacco lacero. Il mio corpo straziato giaceva sulla nuda terra. Eppure io, che per timore dell’inferno mi ero condannato a quei tormenti e alla compagnia degli scorpioni, mi vedevo in mezzo a donne lascive e il fuoco della lussuria divampava nel mio povero corpo ridotto quasi in fin di vita”.
Lo stesso Girolamo nel trattato ”Adversus Jovinianum”, scritto nel 393, dice: “Adultero è chi è troppo focosamente innamorato della propria moglie”. La sessualità tra coniugi poteva anche essere considerata fornicazione. Secondo l’etica sessuale di quel tempo il matrimonio è segnato dal peccato, dalla concupiscenza che accompagnava l’atto sessuale.
Girolamo era contemporaneo di Agostino, vescovo di Ippona, anche lui convinto che il sesso fra coniugi dovesse essere limitato in frequenza e durata, ma era rimasto vago sui tempi dell’astinenza.
Il primo a sistematizzare i divieti relativi al sesso fu il monaco Cesario, nel 502 nominato vescovo di Arles. Egli asserì che i rapporti sessuali fra coniugi erano proibiti per tutto il periodo della Quaresima, nelle vigilie delle maggiori feste liturgiche ed in altre occasioni.
La definizione dei periodi in cui i coniugi non dovevano avere rapporti sessuali, quelli in cui erano consentiti, e le pene da comminare ai trasgressori, erano temi continuamente presenti nella predicazione e nella normativa dei libri penitenziali (liste di peccati e di penitenze da imporre ai peccatori pentiti) che dal VI all’XI secolo dedicarono particolare attenzione al rapporto fra continenza e ciclo liturgico. La sessualità coniugale era sottoposta a calendari rigidi e complicati, che la vietavano a seconda dei giorni della settimana (il mercoledì, il venerdì e la domenica), le ore del giorno, i cicli fisiologici femminili, fino ad imporre l’astinenza dopo il parto, che diventava più lunga se nasceva una femmina, poiché in modo aberrante pensavano che dal sesso femminile derivi un’impurità maggiore.
A seconda della gravità del peccato la penitenza veniva quantificata in preghiere, mortificazioni del corpo con l’alimentazione a pane ed acqua per più giorni, ed elargizioni di denaro da parte del peccatore o della peccatrice.
Il penitenziale compilato dall’arcivescovo di Worms, Burcardo (950 – 1025), è composto di 180 articoli ed è nelle “Regulæ Ecclesiasticaæ”, note anche come “Decretum”, in 20 volumi, pubblicati negli anni tra il 1008 ed il 1012. Ecco alcuni articoli di quel penitenziale: “Ti sei accoppiato con tua moglie nel giorno del Signore ? Devi far penitenza per quattro giorni a pane ed acqua. Ti sei macchiato con tua moglie in Quaresima ? Devi far penitenza per 40 giorni a pane ed acqua o dare in elemosina 26 soldi. Se è successo mentre eri ubriaco, farai penitenza per 20 giorni a pane ed acqua. Devi conservare la castità per 20 giorni prima di Natale, e ogni domenica e durante tutti i digiuni stabiliti dalle legge, e nelle feste degli apostoli, e nelle feste principali, e nei luoghi pubblici. Se non l’hai conservata (la castità) farai penitenza per 40 giorni a pane e acqua”. Le prescrizioni erano permeate dalla convinzione che il buon cristiano non dovesse mai cercare il godimento nel rapporto sessuale, ma soltanto sopportare il piacere.
Il controllo clericale dell’attività sessuale delle coppie sposate condizionò per secoli la quotidianità delle persone, intimorite dalle sofferenze infernali, perciò confessavano anche ciò che non dovevano confessare.
Nell’XI secolo cominciarono a diminuire le rigorose penitenze e le meticolose e cavillose classifiche di gesti, posizioni,circostanze di ogni atto sessuale; per converso aumentarono le punizioni per i rapporti sessuali non coniugali, giudicati da tribunali ecclesiastici con la partecipazione delle gerarchie del clero.
I tribunali ecclesiastici divennero l’interlocutore esclusivo dei problemi quotidiani dei fedeli, i quali portavano al loro giudizio seduzioni, adultéri, e tutto ciò che offendeva la comunità provocando scandalo. Tali tribunali divennero un apparato potente e ramificato, capace di amministrare la moralità sessuale dei cristiani, che viene adeguata dalla Chiesa se costretta dagli eventi, come quelli nel XVI secolo, con la riforma protestante ed il Concilio di Trento che decise la non obbligatorietà della continenza nei periodi considerati sacri, però per salvare l’apparenza esortò a praticarla.
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Il terzo capitolo del libro “Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia” è stato elaborato dall’altra autrice, Margherita Pelaja, la quale fra l’altro dice: “Intorno al matrimonio la Chiesa combatte una delle sue battaglie più vaste e tenaci, addensando nei secoli armi e strategie che avranno conseguenze e ripercussioni su tutti i territori della vita sociale e istituzionale della cristianità.
Tra impero romano e alto Medioevo il matrimonio si era fondato sostanzialmente sulla prassi romana e sulla morale cristiana. Sul piano giuridico, la Chiesa aveva fatta propria la teoria con sensualistica tipica del diritto romano (il matrimonio è un patto fondato sul consenso dei due contraenti), limitandosi appunto a elaborare canoni e precetti -suul’adulterio, il divorzio, le forme del congiungimento carnale- che orientassero i fedeli sulle caratteristiche della vita coniugale cristiana. Ma il matrimonio rimaneva un fatto privato, un’alleanza tra famiglie, una scelta dei singoli, e la sua celebrazione era affidata alle scansioni della tradizione romana e alle consuetudini locali. Le usanze barbare, il diritto germanico, che a partire dal V secolo contaminarono concezioni e prassi del matrimonio, prevedevano il divorzio, il concubinato, il ratto, e costrinsero teologi e canoninisti a moltiplicare la produzione normativa per c0ntrastare il disordine delle unioni e delle parentele”.
Nell’antichità i matrimoni tra consanguinei ed affini erano diffusi, la Chiesa per contrastarli elaborò la “teoria degli impedimenti matrimoniali”. Proibiva o annullava il matrimonio fra consanguinei fino al settimo grado di parentela, tra parenti adottivi, tra parenti spirituali (i padrini di battesimo), e tra affini,a prescindere dall’esistenza di nozze formali, perché era il sesso, l’unione carnale anche illecita a creare un legame impossibile da sciogliere.
La “copula carnalis” crea un vincolo e dunque un impedimento perpetuo, che rimane anche quando muore la persona con cui è stato contratto, un vincolo originato dall’atto sessuale completo e non dalla polluzione esterna.
La copula carnalis è la base indispensabile del matrimonio cristiano, quella che decide della sua validità e della sua indissolubilità.
Il rigore che caratterizzava gli impedimenti matrimoniali coinvolse per decenni gli storici, dividendoli tra chi sosteneva la priorità della Chiesa di far diminuire i matrimoni, prole e successioni per incrementare i lasciti destinati al patrimonio ecclesiastico, e chi pensava a motivazioni meno economiche, mostrando che l’estensione dei divieti poteva contribuire a rafforzare l’appartenenza alla comunità dei fedeli piuttosto che alla famiglia, e l’obbedienza, all’autorità della Chiesa anziché al pater familias.
Nell’XI secolo la Chiesa cominciò ad imporre la propria competenza in materia di matrimonio, a dettare le regole e a controllare l’istituto matrimoniale tramite il giudizio dei tribunali ecclesiastici.
Nel 1144 circa il canonista Graziano pubblicò il “Concordia discordantium canonum” col quale intendeva conciliare posizioni apparentemente contrapposte: il “matrimonium initiatum”, espresso dal consenso dei partner, doveva essere ratificato dalla copula, per conseguire il “matrimonium ratum”. Ma le opinioni dei canonisti rimasero divergenti per secoli, fino alla sistematizzazione da parte del Concilio di Trento.
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Diversità e contaminazioni nei riti e nelle cerimonie che formalizzavano la celebrazione delle nozze, dominarono il Medioevo. Le tradizioni germaniche, accogliendo e rimodellando ritualità romane, proponevano una complessa scansione del matrimonio:
la fase iniziale era costituita dalla promessa solenne di matrimonio (“desponsatio”), che per prima sanciva la volontà dei partner; a questa seguiva, con intervallo variabile, il consenso e la “subarrhatio”: lo scambio degli anelli, che costituiva il vero matrimonio, completato dalla “traditio puellae”, il trasferimento della sposa nella casa maritale, che consentiva la copula e l’avvio della vita coniugale.
Margherita Pelaja evidenzia che “Nel difficile equilibrio tra sposi e famiglie, tra accordi giuridico.economici ed impegno spirituale, la Chiesa cercava di restituire la priorità al consenso e di conquistare spazi decisivi per la cerimonia religiosa; l’anello divenne lentamente simbolo della reciprocità dei voti (promesse), mentre il sacerdote prendeva il posto del notaio nella lettura dei pronunciamenti rituali. Ma le consuetudini locali e la tenace resistenza delle parentele ostacolarono ancora per secoli queste innovazioni: il fidanzamento, frutto spesso di alleanze familiari strette quando gli sposi promessi erano ancora impuberi, continuò a creare vincolo e a essere considerato un matrimonio da ratificare soltanto con l’unione carnale; il corteo nuziale mantenne il suo forte e pubblico significato di rito di passaggio, e fu solennizzato fastosamente con danze e ghirlande; la consumazione stessa fu ufficializzata, a volte in presenza di testimoni incaricati di riferire sul suo compiuto svolgimento”.
Nel 1274 il Concilio ecumenico di Lione inserì il matrimonio tra i sacramenti, affidandone la competenza giurisdizionale alla Chiesa, la quale ormai non solo doveva stabilire sul piano morale la liceità dei comportamenti coniugali, ma sul piano giuridico, tramite i tribunali ecclesiastici, doveva difenderne l’indissolubilità. E ciò poneva la necessità di poter identificare, con un atto ritualizzato e pubblico, la celebrazione del matrimonio.
Nel 1563 il Concilio di Trento redasse il “Decretum de reformatione matrimonii”, col quale ribadiva la sacralità del matrimonio, la sua indissolubilità (può essere sciolto solo se non consumato), il potere della Chiesa di decidere i casi di ammissione per la separazione dei coniugi, il ruolo della famiglia, le forme di solennità della celebrazione, di stabilire impedimenti diversi da quelli considerati nel Levitico: è il terzo libro dellaTorah ebraica e della Bibbia cristiana.
Il suddetto decreto nel primo capitolo dà istruzioni per la celebrazione del matrimonio: ordina che prima delle nozze ne sia dato per tre volte pubblico annuncio durante la messa dei giorni festivi; che lo scambio dei consensi che costituisce il matrimonio sia effettuato davanti al parroco e a testimoni; che né coabitazione né consumazione debbano avvenire prima della benedizione del parroco. Decisioni queste che affermavano il carattere pubblico della cerimonia nuziale col controllo esclusivo della Chiesa rispetto ad altre sovranità.
“Papi, teologi, canonisti, nessuno infatti aveva pensato fino ad allora a regolare le nozze, afferma Margherita Pelaja, a individuare nelle tappe che scandivano il processo matrimoniale l’evento capace di dividere il prima di un nubilato tassativamente casto dal dopo di una coniugalità possibilmente continente”.
Per contrastare i numerosi matrimoni clandestini il Concilio di Trento obbligò le nozze pubbliche e solenni davanti al parroco della parrocchia di uno degli sposi o di un altro sacerdote purché autorizzato dal vescovo. I matrimoni contratti senza il consenso dei genitori furono dichiarati validi, ma detestati e proibiti dalla Chiesa.
I decreti emanati a Trento affermarono dunque il primato della Chiesa cattolica su ogni questione matrimoniale, dalla formazione della coppia all’indissolubilità dell’unione sancita secondo i canoni, affidando in tal modo alle gerarchie ecclesiastiche un potere inedito e assoluto sulle famiglie e sulla sessualità coniugale.
Il Concilio di Trento mirava a fare di ogni fedele un cristiano obbediente e disciplinato. In quel consesso venne ribadito il ruolo del confessore come giudice e l’obbligo per i penitenti di descrivere con precisione le loro colpe. Il confessore doveva interrogare ed interrogando spiegare le norme etico-religiose della dottrina cristiana, risvegliare la coscienza del peccato. La confessione divenne strumento di formazione dei fedeli e di informazione del clero. Il pentimento e la sofferenza per aver peccato era l’obiettivo esplicito della confessione, il senso di colpa era considerato lo strumento più valido per raggiungerlo. E nulla era efficace ad instillare il sentimento della colpa quanto la sessualità.
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II teologi dell’antichità e del medioevo consideravano l’unione coniugale come “remedium concupiscientiae” e discutevano se il coito tra moglie e marito costituisse almeno peccato veniale. Essi sostenevano che era impossibile rimanere puri dopo l’amplesso. Comunque erano convinti che fosse peccato mortale il rapporto sessuale col solo fine del piacere fisico. Il connubio doveva avere come scopo la procreazione di figli: tale intenzione veniva manifestata da molte donne che fino ai primi decenni dello scorso secolo ricamavano sulla camicia da notte il detto “Non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio”. Questo aforisma riassumeva in parte il punto di vista ecclesiastico sul sesso: disciplina dell’anima, disciplina del corpo. Interiorizzazione di norme e precetti morali, il bene e il lecito nelle scelte e nei comportamenti. Secondo la “devotio” l’anima e il corpo sono in simbiosi; frenando i pensieri peccaminosi l’anima impara a resistere e col tempo li vince.
Ma nel XVIII secolo sulla sessualità cominciarono a circolare opinioni dissonanti dai precetti della Chiesa cattolica. Le regole cristiane erano considerate innaturali, impossibili da seguire, perciò provocatrici di infelicità e problemi sociali.
Il processo di secolarizzazione avviato dagli illuministi, secondo cui la religione costituisce solo un’opinione fra tante e non più un termine di riferimento dell’intera comunità, una scelta individuale, ebbe conseguenze sulle norme di comportamento sessuale fino ad allora stabilite dalla Chiesa. Questa trasformazione epocale avvenne prima e dopo la Rivoluzione francese, tra il 1750 ed il 1850: molti cominciarono a capire che l’organizzazione della vita associata non è collegata alla credenza al soprannaturale che impone dall’esterno e dall’alto la sua legge.
Con l’abolizione della mediazione della religione tra Dio e l’umanità, finisce il monopolio della Chiesa sulle regole del comportamento sessuale, che viene spostato dal piano morale e religioso a quello scientifico, superando l’antinomia “normale” – “anormale”, peccato e virtù, permesso e proibito. Ormai ai consigli dei confessori anche i devoti cattolici preferiscono gli insegnamenti dei sessuologi e dei psicologi.
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L’erosione del monopolio cattolico sui comportamenti sessuali cominciò in Francia nel XVI secolo ma fu nel XVIII secolo che la cultura occidentale iniziò a rifiutare quella egemonia.
In quel tempo il diritto canonico in vigore sanciva il valore giuridico della promessa di matrimonio, che faceva nascere l’obbligo di coscienza a sposarsi: il rispetto dell’obbligo poteva essere imposto anche per via legale: nel caso di nozze annullate si costringeva l’uomo a delle alternative: accettare le nozze, risarcire il danno morale offrendo la dote alla donna, in caso di diniego gli spettava la galera.
La promessa di matrimonio, più o meno pubblica (“fidanzamento ufficiale”), permetteva i rapporti sessuali tra fidanzati, i quali potevano così trasformare l’impegno per il futuro in matrimonio valido per il presente, perché il rapporto sessuale era considerato prova definitiva di consenso.
Se nella coppia cominciava un conflitto dopo la copula (perché lui dopo aver insistito nella richiesta, si ritraeva sostenendo di non aver mai avuto intenzioni matrimoniali e accusando lei di un’eccessiva disponibilità) le donne e le loro famiglie si rivolgevano ai parroci e ai tribunali ecclesiastici per ottenere le nozze.
La Chiesa cattolica era l’arbitro di queste contese, e continuava a ergersi a tutrice della vulnerabilità femminile: il “favor matrimoni” che ispirava la politica ecclesiastica diventava protezione e appoggio agli intenti delle donne, anche se aveva come fine prioritario la tutela dell’ordine familiare e non quella delle donne in particolare. Per la Chiesa lo scopo era quello di preservare la propria egemonia nel governo della morale familiare.
Le querele per “stupro semplice” (così era detto l’amplesso extraconiugale tra persone consenzienti) erano molte nelle aule giudiziarie dei tribunali ecclesiastici, comunque le donne erano considerate innocenti e vittime della seduzione maschile. Le conseguenze erano nefaste: per conquistare le nozze molte donne usavano la promessa di matrimonio per propri fini, rendendosi disponibili a farsi sedurre.
Gli abusi femminili furono però percepiti dalla Chiesa, che emanò norme restrittive: la donna non più vittima a prescindere, ma “socia criminis” se non sapeva dimostrare la propria innocenza esibendo sul proprio corpo i segni, le prove tangibili della violenza subita.
Nel passato le norme per il matrimonio cristiano furono elaborate tenendo anche presente la dilagante morte dei neonati e delle partorienti, perciò la Chiesa privilegiava la procreazione e non il piacere nell’attività sessuale. In tale situazione, il modello di morale sessuale cristiana che limitava il sesso nel matrimonio a fini procreativi era ben accolto e coerente con le esigenze sociali. Poi il progresso della medicina permise di porre fine alla necessità di fare molti figli per garantire la sopravvivenza della famiglia e consentì di tenere distinti matrimonio e procreazione.
Dalla fine del XIX secolo l’avanzamento degli studi di sessuologia permisero di considerare il piacere erotico il fine principale della sessualità, consapevolmente dissociata dalla procreazione. Tale constatazione ebbe come corollario la ribellione contro l’innaturale etica sessuale cristiana.
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Nel 19/esimo secolo il processo di secolarizzazione mise in discussione la morale sessuale cristiana e la legittimità della Chiesa a parlare di sesso, legittimità riconosciuta solo alla scienza medica. Ma in quel tempo la morale sessuale dominante, soprattutto per le donne, non differiva da quella proposta dalla Chiesa, ciononostante gli anticlericali contestavano il diritto dei preti di parlare di sesso: per loro il confessore non essendo un medico era solo un corruttore e pornografo, che attentava al pudore delle mogli durante le confessioni, violando un rapporto intimo e privato che a loro non compete.
Secondo lo storico del cattolicesimo e sociologo francese Claude Langlois le contestazioni al clero cominciarono in Francia nel 18/esimo secolo e si diffusero in tutta Europa, intrecciando la pratica della contraccezione con l’avanzare della decristianizzazione.
Nel passato non c’erano gli attuali anticoncezionali e la prima forma di controllo delle nascite era il “coitus interruptus”, praticato anche dalle coppie cattoliche, che chiedevano ai confessori ragguagli sulla sua legittimità morale. I confessori, a loro volta, ponevano quesiti alla “Sacra Penitenzieria” e al “Sant’Uffizio”.
Il primo documento pontificio che tratta della morale sessuale è l’enciclica “Casti connubii”, promulgata da Pio XI il 31 dicembre del 1930 come risposta della Chiesa cattolica all’accettazione delle pratiche contraccettive da parte della Chiesa anglicana. Questa enciclica ribadisce che solo la Chiesa cattolica è la fedele custode della dottrina cristiana su questi temi, l’unica capace di difendere la legge naturale: “Qualsiasi uso del matrimonio, in cui per l’umana malizia l’atto (sessuale) sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura, e coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave”. Nello stesso documento pontificio Pio XI indica anche i nemici del matrimonio cristiano (divorzio, emancipazione delle donne), che deve essere considerato invenzione divina e non costruzione umana, e condanna chi “con discorsi, con libri e con infiniti altri mezzi lavora a pervertire le menti, a corrompere i cuori, a mettere in derisione la castità matrimoniale, e ad esaltare vizi vergognosi”.
Per il cambiamento nel modo di concepire l’emancipazione della donna e la sessualità, ma non le regole della morale sessuale, si dovette attendere il Concilio Vaticano II.
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Il 10 aprile 1941 in un discorso al tribunale della Sacra Rota, Pio XII disse che il fine primario del matrimonio è la procreazione, messa al primo posto nel V secolo dal filosofo e teologo Agostino, vescovo di Ippona, e ribadita nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino. Il fine secondario è l’unione fra i coniugi, collegata al fine primario da un legame di subordinazione: l’amore coniugale a servizio della procreazione. Tale giudizio fu ribadito nell’aprile del 1944 da un decreto del “Sant’Uffizio”.
Nel 1955 il filosofo e sociologo Herbert Marcuse (1898 – 1979) pubblicò il saggio “Eros e civiltà”, nel quale sviluppa le premesse della filosofia sociale di Freud e sostiene, fra l’altro, che la liberazione sessuale è la base della felicità umana.
Nel contempo le ricerche effettuate dal biologo statunitense Alfred Kinsey (1896 – 1956) sulle pratiche coitali innescarono la cosiddetta “rivoluzione sessuale” o "liberazione sessuale", che indusse in Occidente un sostanziale cambiamento culturale nell'attinente moralità tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 dello scorso secolo.
Per Kinsey l’attività sessuale nella coppia ha una dimensione ludica e scissa dalla morale religiosa, dai significati attribuiti dalla Chiesa cattolica all'amplesso. Il successo di questa ideologia che voleva il distacco netto fra sessualità e procreazione, fece breccia anche nei cattolici.
Dopo Kinsey ci furono altre inchieste sul comportamento sessuale, come quelle celebri di Masters e Johnson, che ebbero un ruolo importante nella critica della morale tradizionale.
La gerarchia vaticana percepì il pericolo e tentò di arginare la contestazione alla sua pretesa dell’irreversibilità del vincolo matrimoniale e la conseguente cancellazione di Dio dal rapporto coniugale, ribadendo la sua dottrina tradizionale: soltanto il fine della procreazione, che vede i coniugi interagire con la volontà divina, può riportare Dio nel vincolo matrimoniale e restituire alla sessualità il significato simbolico e spirituale.
Ormai era chiaro, nella cultura occidentale la “liberazione sessuale” stava definitivamente separando la sessualità non solo dalla procreazione ma anche dal matrimonio e dall’amore, per legittimarla come semplice ricerca di piacere individuale.
Nell’inchiesta su “L’adulterio femminile in Italia”, pubblicata nel 1963, il matrimonialista Lucio Grassi scrisse: “Al campione esaminato è apparso che una rilevante percentuale di coppie coniugate pratica il controllo delle nascite con metodi assolutamente riprovati dalla morale e dal diritto. Tali modalità di compimento dell’atto sessuale coniugale finiscono con l’allontanare notevolmente la donna dalla attiva pratica religiosa non essendo compatibili con i precetti morali. Un rilevante numero di donne coniugate viene a trovarsi -durante il matrimonio- in uno stato di perenne conflitto con le norme religiose; da tale conflitto esce così soccombente la coscienza morale. La norma religiosa, in tali casi, sembra svalutarsi; ed è apparso ben evidente che le violazioni di altri precetti morali -quali, ad esempio, la fedeltà- incontrino una resistenza spirituale sempre minore”.
Nel 1964 il pontefice Paolo VI propose di mantenere la dottrina dei due fini del matrimonio, quello primario e quello secondario, descritti nel primo paragrafo di questo post. Ma la costituzione conciliare “Gaudium et Spes”, votata nel dicembre 1965 dal Concilio Vaticano II, nel capitolo dedicato al matrimonio non cita i due fini e il loro rapporto gerarchico. Il testo conciliare si distacca dalla teoria del “remedium concupiscentiae” del diritto canonico per dare valore alla sessualità dei coniugi: “Gli atti che realizzano l’unione intima e casta degli sposi sono degli atti onesti e degni”. Questo è un altro esempio di come la Chiesa per sopravvivere nei secoli adatta le sue norme all’evolvere delle società.
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La scoperta di un nuovo tipo di anticoncezionale, la pillola che inibisce l’ovulazione, commercializzata dal 1960, aprì nuove prospettive che permisero di realizzare le nuove e più avanzate teorie di liberazione sessuale nel mondo occidentale. Ma la pillola anticoncezionale pose problemi inediti alla Chiesa cattolica, perché permette alle donne di comportarsi come gli uomini dal punto di vista sessuale. Con la pillola le donne possono decidere se concepire un figlio e possono separare la sessualità dall’amore e dal matrimonio.
Per la Chiesa cattolica fu un duro colpo, perché la sua morale sessuale non era più accettata come legittima. I fautori della “liberazione sessuale la giudicavano repressiva e sessuofoba. Essi pensavano che liberando il rapporto sessuale dalla riproduzione anche le femmine potevano come i maschi copulare solo per giungere all’orgasmo, se necessario con la tutela della pillola anticoncezionale.
Il 3 ottobre 1965 Paolo VI nell’intervista concessa ad Alberto Cavallari per il “Corriere della Sera” disse: “Il mondo chiede cosa Ne pensiamo (del controllo delle nascite) e Noi ci troviamo a dare una risposta. Ma quale ? Tacere non possiamo. Parlare è un bel problema. La Chiesa non ha mai dovuto affrontare, per secoli, cose simili. E si tratta di materia diciamo strana per gli uomini della Chiesa, anche umanamente imbarazzante. Così, le commissioni si riuniscono, crescono le montagne delle relazioni, degli studi. Oh, si studia tanto, sa. Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli. Decidere non è così facile come studiare”. Questo breve testo evidenzia che questo papa per riferirsi a se stesso gradiva usare la figura retorica del plurale maiestatis anziché il singolare.
Nel 1968 (anno della ribellione studentesca ed inizio di quel percorso di liberalizzazione dei comportamenti sessuali giovanili) Paolo VI fece pubblicare la sua enciclica “Humanae vitae”, che conferma l’insegnamento tradizionale della Chiesa in tema di matrimonio e di contraccezione, considerata un pericolo per l’amore di coppia. Il documento ribadisce la connessione inscindibile tra il significato unitivo e quello procreativo dell'atto coniugale; dichiara anche l'illiceità di alcuni metodi per la regolazione della natalità ed approva quelli basati sul riconoscimento della fertilità: sono metodi che aiutano le coppie ad identificare i periodi infecondi e potenzialmente fecondi del ciclo mestruale. Durante il periodo fecondo, in base ai propri desideri una coppia può scegliere di avere rapporti sessuali per aumentare le probabilità di concepire oppure può astenersi od utilizzare contraccettivi a barriera per evitare una gravidanza indesiderata.
L'enciclica provocò un enorme dissenso sia a livello teologico sia a livello di conferenze episcopali; anche molti cattolici la considerarono una indebita intromissione nella loro vita sessuale.
Paolo VI pose la scelta pontificia come indiscutibile, ma molti cattolici in varie parti del mondo si opposero all’insegnamento dell’enciclica sulla contraccezione, appellandosi al principio della non vincolabilità della coscienza del cristiano. Inoltre posero la questione sull’infallibilità dell’insegnamento papale.
Non era semplicemente una dialettica fra libertà ed oppressione, tra emancipazione ed oscurantismo, ma del conflitto fra due diverse concezioni della sessualità: l’una, quella laica, che colloca anche l’atto sessuale nell’ambito della libertà individuale, l’altra, quella cattolica, che lo giudica e lo definisce importante nel percorso spirituale del credente, un incontro fra anima e corpo che non si può sottrarre al rispetto delle regole religiose. L’una basata sull’analisi scientifica della sessualità e sull’autonomia del soggetto intesa come valore dominante, l’altra fondata sull’individuo considerato come soggetto morale in un sistema di norme definite.
Comunque l’”Humanae vitae” per quel tempo contiene una importante innovazione: evidenzia il valore positivo del rapporto sessuale coniugale, praticato anche nei periodi non fecondi. Invece nel passato, anche recente, i coiti sicuramente non procreativi, come durante la gravidanza o la menopausa, venivano considerati mancanza di controllo di sé e di mortificazione.
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Nel 1988 il pontefice Giovanni Paolo II in occasione dell’anno mariano pubblicò la lettera apostolica "Mulieris dignitatem", nella quale evidenzia l’uguaglianza in dignità dell’uomo e della donna, la loro vocazione alla reciprocità e alla complementarietà, alla collaborazione ed alla comunione.
Con delle pericope dal Vecchio Testamento il papa rileva nella predetta lettera quanto scritto nella Genesi riguardo la donna creata da Dio “dalla costola dell’uomo” (2, 18 – 25), come “carne della sua carne e osso delle sue ossa” (2, 23). Sin dall'inizio essi appaiono come “unità dei due” e per Adamo il superamento dell'originaria solitudine. Eva è la compagna della vita, con la quale, come con una moglie, può unirsi divenendo con lei “una sola carne” (Gen 2, 24): “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela” (Gen 1, 28). E alla donna dice: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gn 3, 16): tale imposizione maschilista, tipica della cultura patriarcale verso la femmina, ebbe un ruolo decisivo per l’ineguaglianza dei due sessi: la donna “oggetto” di “dominio” e di “possesso” maschile.
Le religioni ebraica, cristiana ed islamica furono elaborate nel contesto di società organizzate in senso patriarcale e nel corso della loro storia hanno più o meno legittimato la struttura sociale a predominio maschile. Quindi si possono qualificare religioni patriarcali. Le differenze fra l’una e l’altra riguardano soprattutto la misura, le forme e le strutture argomentative con cui ciascuna legittima o rafforza il predominio maschile nella rispettiva società.
Il concetto di patriarcato rimanda alla struttura di un aggregato sociale, a cominciare dal sistema patrilineare della famiglia fino alle istituzioni dominate dal maschio.
Oggi abbiamo un’idea abbastanza precisa di alcune costanti culturali che definivano ciò che era l’uomo e la donna nelle civiltà mesopotamiche. La donna come oggetto erotico, dedita al lavoro e alla maternità; l’uomo come possessore, come capo. Da questi tratti scaturirono quei ruoli riprodotti nelle culture successive.
Nella "Mulieris dignitatem" Giovanni Paolo II argomenta anche sul peccato originale e le sue conseguenze nell'uomo e nella donna. Entrambi gravati dalla peccaminosità ereditata, portano in loro il costante “fomite del peccato”, cioè la tendenza ad intaccare l'ordine morale. Questa tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il testo apostolico precisa come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita (1 Gv 2, 16).
Dopo il peccato originale ci sono nell'uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza. Per questo Gesù nel Discorso della montagna disse: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 28). Queste parole, rivolte direttamente all'uomo, indicano la sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la sua vocazione.
Non basta ! Alle donne furono addossate pure tre inferiorità: fisiologica, morale e giuridica, che traggono origine dalla filosofia aristotelica e dai testi biblici, interpretati all’interno di una cultura androcentrica che ha accompagnato il cristianesimo dal momento in cui si è costituito come religione. Un esempio è il versetto della Prima lettera di Paolo ai Corinti (14,34): "Le donne tacciano nell’assemblea": questa pericope paolina è rivolta a tutte le donne ed ha determinato l’esclusione della donna da qualunque ruolo autorevole, le è stata negata la parola pubblica, ma nel nostro tempo l’esegesi vuole interpretare quella frase limitativa alle sole donne di Corinto, per adattare come al solito la religione cattolica al contesto storico.
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Da molti studi dedicati specificamente alle donne è evidente l’androcentrismo delle tradizioni religiose ebraica e cristiana.
Il cosiddetto Homo religiosus era in effetti il vir religiosus, che per tutelare la patrilinearità lo induceva al controllo maschile sulla donna, dando valore alla verginità femminile prima del matrimonio, all’obbedienza della moglie al marito, alla sua fedeltà, alla punizione nel caso di adulterio. Però la fedeltà era ed è nel cristianesimo un valore da rispettare anche per l’uomo.
Nella “Lettera ai Galati” l’apostolo Paolo scrisse: “Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé;”. (5, 16 – 22)
Il tentativo paolino di unire lo spirito alla “carne” e quindi valorizzare spiritualmente la sessualità fu un approccio completamente nuovo e quasi rivoluzionario rispetto al tempo precedente. Teologicamente considerava il rapporto sessuale metafora del rapporto fra l'anima e Dio, perciò con profondo significato spirituale.
Poi la Chiesa “umanizzò” la sessualità legandola al matrimonio e alla famiglia.
L’attività sessuale con annessa morale sessuale furono immesse in un sistema di regole che alternano repressione e clemenza. Ne abbiamo esempi anche nel nostro tempo. Infatti oggi la Chiesa condanna il divorzio ma accoglie con comprensione i divorziati risposati; condanna l’aborto ma ammette con compassione la donna che ha abortito; condanna l’adulterio ma ospita caritatevolmente l’adultero/a, se pentiti.
Tale politica della sessualità agisce da efficace sistema di governo delle anime dei fedeli. La soluzione è sofisticata e funziona da secoli. Ma nell’epoca contemporanea la medicina, la psicoanalisi e poi la psicologia e la sessuologia hanno emarginato la secolare, repressiva e opportunistica morale cattolica, che è variabile nel tempo.
Fino a pochi anni fa si diceva che per il cattolicesimo il piacere è colpa, il sesso è peccato. Da praticare con parsimonia e disagio esclusivamente nel matrimonio, e principalmente per procreare.
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Nel luglio 1968, Paolo VI pubblicò l'enciclica "Humanae vitae" presentando una dottrina sulla sessualità e sul matrimonio in continuità con quella della tradizione e con Pio XI, ma anche offrendo ai fedeli nuovi orientamenti.
A molti, fuori e dentro il mondo cattolico, la decisione del papa di pubblicare l’enciclica “Humanae vitae” proprio nel 1968 sembrò inopportuna. In quell’anno imperversavano le proteste giovanili negli Stati Uniti e in Europa: contestavano alcuni valori dominanti, lottavano per dei diritti civili, reclamavano la libertà di espressione, la liberazione sessuale come affermazione preminente dell’autonomia del soggetto, la “naturalezza” libera dalle repressioni e tabù anche religiosi.
Paolo VI autorizzando la pubblicazione della predetta enciclica scelse lo scontro ideologico per contrastare gli orientamenti proposti dai giovani e dalla scienza nell’ambito sessuale e psicologico. Eppure si voleva far credere che Paolo VI fosse il papa dell’incontro della Chiesa cattolica con la contemporaneità. Questo pontefice non volle discostarsi da quanto scritto da Pio XI nell’enciclica “Casti connubii” mostrando la continuità della tradizione cattolica nell’ambito della morale sessuale.
La posizione della Chiesa fu considerata retriva, ma si deve tener conto che la Chiesa si adatta ai tempi con prudenza e molta lentezza.
Il 29 dicembre 1975 la "Congregazione per la dottrina della fede" pubblicò il documento (una dichiarazione) titolato: “Persona humana”, riguardante la sessualità. Questo è il link per chi lo vuole leggere.
http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19751229_persona-humana_it.html
Lo storico francese Guy Bechtel nel suo saggio titolato “La chair, le diable et le confesseur”, riflette sul tentativo di controllo dell’attività sessuale degli individui tramite la confessione, e conclude che la Chiesa ha perso la sua partita.
Dopo aver elaborato le norme che stabilivano ciò che era lecito e ciò che era illecito nell’ambito sessuale, la Chiesa medievale per imporre la loro osservanza impose ai fedeli di dire al confessore le colpe, per avere da lui, ma in nome di Dio, la giusta punizione sotto forma di penitenze, che variavano secondo la gravità dei peccati che potevano essere veniali o mortali.
Lo scopo della condanna non è tanto quello di estirpare comportamenti e pulsioni che si sanno invincibili, quanto quello di instillare nelle coscienze quel senso del peccato e della colpa che garantisce la perpetua soggezione delle anime.
Secondo la morale cristiana il cedere alle tentazioni della lussuria è motivo di riprovazione e di condanna da parte di Dio. E la
confessione come forma di autodenuncia, volontà di espiazione, libera la “coscienza” dal senso di colpa e svolge una funzione catartica.
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Per quasi duemila anni la Chiesa e i suoi teologi hanno avuto verso la donna sentimenti contradditori: ne gradivano la sottomissione, la verginità, il dono della maternità, ma la ritenevano anche una meretrice, una strega, un essere inferiore. Persino le sante erano spesso mal viste, perché cercavano di uscire dall'anonimato contraddicendo la "naturale" modestia del loro sesso.
Fino alla prima metà del XX secolo la Chiesa, maschilista e adeguata alla vigente cultura patriarcale, esaltò la sottomissione femminile.
Ma da dove assumeva questo mito dell'inferiorità della donna?
Dal Nuovo Testamento sappiamo che non è mai stato nelle intenzioni di Gesù Cristo colpevolizzare, condannare e perseguitare le donne. Eppure, in suo nome, per secoli il sesso femminile è stato vilipeso e sottomesso. In alcuni periodi storici i ministri di Dio sulla terra hanno dimostrato addirittura odio verso le femmine. Per duemila anni hanno sfilato nell'immaginario cattolico due modelli di donna: Eva, colpevole di averci condotti alla dannazione, e Maria, vergine e genitrice al contempo. E poi le meretrici e le streghe che impersonano il peccato, la sessualità, il Diavolo.
La donna, origine di ogni male, un essere da sorvegliare perché sovverte l'armonia.
Si dovette attendere la morte di Pio XII nel 1958 e la nomina di Giovanni XXIII come nuovo pontefice per avere il necessario aggiornamento della Chiesa cattolica col Concilio Vaticano II, che riesaminò anche la situazione della donna.
La prima apertura ideologica venne dallo stesso papa Giovanni, che nell'enciclica "Pacem in terris" del 1963 scrisse: "Nella donna infatti diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell'ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica". E più oltre aggiunse: "In moltissimi esseri umani si va così dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica".
Ciò che colpisce maggiormente nelle parole di papa Giovanni XXIII è l'atteggiamento comprensivo e positivo che esse rivelano. A differenza dei suoi predecessori egli descrive i mutamenti sociali avvenuti e che stavano avvenendo. Non denigra l'emancipazione femminile, alla quale i documenti dei precedenti pontefici ci avevano abituati.
Comunque nell’ambito del rapporto di coppia il messaggio cristiano delle origini ebbe l'impatto di una rivoluzione culturale: diede rilevanza al consenso della donna nello scegliersi il marito, stabilì norme etiche per l’attività sessuale finalizzata alla procreazione, governò la vita personale e familiare, producendo un nuovo modello di famiglia basato sul matrimonio cristiano.
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Sto rileggendo un vecchio libro pubblicato nel 1968 e scritto dalla teologa e filosofa statunitense Mary Daly (1928 – 2010) “La Chiesa e il secondo sesso”. Questo titolo evoca quello usato dalla filosofa esistenzialista francese Simone de Beauvoir: “Il secondo sesso”, con riferimento alla femmina, Eva, creata da Dio dopo Adamo.
La de Beauvoir nel suo saggio afferma che nel medioevo “il diritto canonico non ammette altro regime matrimoniale che quello dotale, che rende la donna incapace e senza nessun potere. Non soltanto le sono interdetti gli uffici virili, ma le è perfino proibito di deporre in giudizio, e la sua testimonianza non ha valore”. Dice anche che i principali avversari delle donne erano gli ecclesiastici.
Secondo la filosofa francese sono due le fonti principali dell’impronta misogina della teologia morale cattolica: la tradizione ebraica antifemminista e la filosofia greca aristotelica.
L’antifemminismo cristiano è collegato alla sessualità: la donna è la temibile tentazione del demonio.
Nei secoli passati numerosi scrittori cristiani usarono il biblico racconto della creazione di Eva (Genesi) e il suo ruolo di tentatrice nei confronti di Adamo per dimostrare l’indimostrabile: l’immutabile inferiorità della donna, non solo fisica, ma anche intellettuale e morale. Alla mitica Eva fu attribuita la responsabilità del peccato originale. La violenza di alcune perorazioni dei padri della Chiesa su tale argomento lascia allibiti.
Il misogeno apologeta cristiano Tertulliano (155 circa – 230 circa) nel suo trattato in due libri titolato “De cultu feminarum” (L’abbigliamento femminile, o eleganza femminile) si rivolge alla donna invitandola ad evitare di adornarsi con eccessiva cura, per non divenire strumento del demonio, che persevera nella sua opera di rovina seduttiva trascinando nel peccato l’uomo e pregiudicandone la salvezza eterna: “…non sai che sei Eva ? … Tu sei la porta del diavolo … tu sei colei che per prima ha violato la legge divina; tu sei colei che ha persuaso (a peccare) colui che il diavolo non fu capace di attaccare; con quanta facilità hai fatto cadere l’uomo, l’immagine di Dio; per la pena da te meritata, cioè la morte, perfino il figlio di Dio (Gesù) dovette morire”.
Ecco altri passi dimostrativi del pensiero di Tertulliano nei confronti delle donne:
Solo l'uomo, non la donna, è ad immagine di Dio.
Ogni donna porta su di sè la maledizione di Eva, origine del peccato.
La donna è sorgente di tentazione.
Le donne non possono insegnare,battezzare, o esercitare il ministero sacerdotale.
E' meglio per un uomo non sposarsi, perché così non è contaminato dalla concupiscenza.
Il teologo ed apologeta Clemente d’Alessandria (150 – 215 circa) nel “Paedagogi” insegnava che per la donna è già sufficiente motivo di vergogna il pensare chi essa sia.
Ad Eva venne contrapposta Maria, la madre di Gesù.Il teologo e filosofo Origene (185 – 254) in una omelia (dalle “Homiliae in Lucam”) osserva che come il peccato è venuto da una donna (Eva) da una donna (Maria) è venuto l’inizio della salvezza.
Nella mentalità dei Padri della Chiesa donna e sessualità si identificavano, e quindi l’orrore provato per il sesso diventava orrore per la donna. Non si rendevano conto dei meccanismi psicologici di proiezione che entravano in gioco nel loro atteggiamento misogino: il senso di colpa per il loro desiderio sessuale veniva proiettato sulla donna, al sesso “colpevole”.
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In un precedente post ho evidenziato che si dovette attendere la morte di Pio XII nel 1958 e la nomina di Giovanni XXIII come nuovo pontefice per avere il necessario aggiornamento della Chiesa cattolica col Concilio Vaticano II, che riesaminò anche la situazione della donna, la quale “esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica”.
A differenza degli scritti dei predecessori, in papa Giovanni c’è il riferimento agli “uguali diritti e doveri dell’uomo e della donna”, non accompagnato da precisazioni circa la necessità di temperare tale uguaglianza.
Si può scorgere lo spirito giovanneo in alcuni frasi riguardanti la donna, che sono nella Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II su “La Chiesa nel mondo contemporaneo”:Gaudium et spes", promulgata dal papa Paolo VI l'8 dicembre 1965, l'ultimo giorno del Concilio. Il nome Gaudium et spes deriva dalle prime parole latine del testo, che significano: la gioia e la speranza. Tale documento prende atto che “le donne rivendicano, dove ancora non l’hanno raggiunta, la parità di diritto e di fatto con gli uomini”, e mostra che la Chiesa riconosce la necessità che gli uguali diritti di uomini e donne abbiano applicazione pratica.
Per quanto riguarda il matrimonio, la “Gaudium et spes” supera il biologismo della teologia del passato e la vecchia distinzione tra il fine primario ed il fine secondario del connubio. Inoltre essa non condanna la contraccezione artificiale ma sembra lasciare aperta la porta per un ulteriore studio del problema.
Il fermento della questione femminile nella Chiesa cominciò a manifestarsi poco dopo l’apertura del Concilio Vaticano II.
La teologa Mary Daly nel suo libro “La Chiesa e il secondo sesso” narra che durante una Messa conciliare ad una giornalista venne impedito l’accesso alla balaustra per ricevere la comunione perché femmina. Quel fatto increscioso dimostrò la persistenza nel Vaticano di una stramba mentalità che sembrava considerare non del tutto umana la donna.
Numerose teologhe inviarono alcune petizioni ai padri conciliari per far riconsiderare nel Concilio la condizione femminile tradizionalmente subalterna nella Chiesa. Influente fu la petizione dell’avvocatessa svizzera Gertrud Heinzelmann, la quale dimostrò come gli insegnamenti di Tommaso d’Aquino sulle donne fossero superati, stantii, mettendo in luce quanto c’è di offensivo e degradante in questi insegnamenti tomistici, fondati su una sbagliata teoria biologica della generazione che risale all’antico filosofo greco Aristotele e su un’esegesi biblica errata.
I primi testi riguardanti la questione femminile cominciarono ad apparire durante gli anni del Concilio Vaticano II; in genere essi evidenziano l’antifemminismo radicato nella tradizione cristiana, e insistono sulla necessità di purificare il pensiero teologico dalle distorsioni. Tale letteratura era il risultato dei rapidi mutamenti sociali che stavano avvenendo in quegli anni e dei progressi della scienza.
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Durante e dopo il Concilio Vaticano II ci furono le proteste di molte donne cattoliche contro l’atteggiamento anacronistico della Chiesa sulla questione della regolamentazione delle nascite. Eloquente fu la protesta della dottoressa Anne Biezanek, direttrice della clinica per la pianificazione familiare alla periferia di Liverpool, frequentata in maggioranza da donne cattoliche, e lei stessa madre di sette figli. La Biezanek si ribellò contro l’atteggiamento della Chiesa sulla questione della pillola. Ella, cattolica, non avendo avuto direttive univoche sull’uso della pillola aveva cominciato a prenderla. Lo disse al sacerdote della chiesa che frequentava e questo le rifiutò la comunione. La dottoressa informò la stampa e ci furono polemiche. Riferendosi al clero la donna disse: “ A loro non è mai importato niente di quanto soffrivano le donne. E’ questo che mi fa ribellare. Se un prete dice che questa è la legge di Dio, impone alle donne il martirio.
Ai nostri giorni nella gerarchia della Chiesa cattolica c’è il dibattito sulla “pillola del giorno dopo”, ammessa da alcuni episcopati nel caso di violenza sessuale.
Le conferenze episcopali tedesca e spagnola hanno posto come condizione alla “liceità” che siano pillole anticoncezionali ma non abortive. Tale distinzione che riconduce il caso nei limiti fissati dalla dottrina ufficiale, trova un “cauto consenso” anche in Vaticano, negli ambienti della Pontificia Accademia per la vita.
“La violenza sessuale non è un atto coniugale, ma un atto di ingiustizia e violenza e in questo caso, è legittimo impedire la fecondazione, purché si disponga di una pillola che eviti che ci sia concepimento, non di una che provochi l'espulsione dell'ovulo fecondato”. La “pillola post coitale” non è un composto abortivo ma un farmaco ormonale che impedisce o ritarda l'ovulazione e nella maggioranza dei casi evita la gravidanza, ma non la interrompe.
La conferenza episcopale tedesca il 21 febbraio 2013 autorizzò cliniche ed ospedali cattolici a prescrivere pillole del giorno dopo alle donne vittime di violenza sessuale, purché “farmaci in grado di evitare la fecondazione e non di farmaci dagli effetti abortivi”.
La parziale concessione dei vescovi tedeschi giunse dopo le polemiche sollevate dal caso di una donna stuprata alla quale era stata negata la possibilità di assumere la pillola del giorno dopo da due cliniche cattoliche di Colonia.
Fu il cardinale Karl Lehmann, vescovo di Magonza, a trattare la questione nella conferenza episcopale tedesca e a suggerire la decisione poi adottata, parlando come presidente della “commissione dottrinale”. Lehmann invitò a distinguere tra i “principi attivi dei diversi farmaci oggi in commercio”, affermando che sono da considerare “inaccettabili” sia quelli che uccidono l'embrione sia quelli che ne impediscono l'annidamento; mentre sono da ritenere leciti -sempre per rimediare alle conseguenze di una violenza- “quelli che si limitano a impedire la fecondazione” e dunque esercitano un'azione esclusivamente contraccettiva e preventiva.
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Negli ultimi decenni la Chiesa cattolica ha tentato di limitare il divario tra magistero ecclesiale ed insegnamenti provenienti dalla medicina e dalla psicologia sulla sessualità.
Per non rimanere emarginato il Vaticano ha rinunciato alla sessuofobia, tentando di conciliare la staticità della “rivelazione divina” e la dinamicità scientifica.
Dal II al XX secolo, la dottrina cristiana ha distinto nel matrimonio la concupiscenza fine a se stessa ed il piacere sessuale collegato alla volontà di procreare.
Il filosofo e apologeta cristiano Giustino (100 circa – 168 circa), considerato uno dei Padri della Chiesa (cattolica ed ortodossa), affermava: "O ci sposiamo unicamente per procreare figli o, se rifiutiamo di sposarci, siamo completamente continenti".
Il sostantivo continenza deriva dal latino “continens” (= moderazione), in lingua greca “enkràteia”: questo termine viene abitualmente tradotto con il termine “continenza” ma il significato rimanda al “dominio di sé”, alla capacità dell’individuo di padroneggiare istinti e passioni.
Da “enkrateia” deriva il sostantivo “encratismo”: è un’antica dottrina morale gnostico-cristiana a sfondo ascetico. I seguaci di questa dottrina venivano detti encratiti, i quali attuavano la continenza.
L'encratismo attribuiva una valenza fortemente peccaminosa a numerosi aspetti del vivere quotidiano come i rapporti sessuali.
La continenza, l’astinenza dai rapporti sessuali, la verginità, il celibato: sono questi i temi della lettera enciclica “Sacra virginitas”, pubblicata il 25 marzo 1954 dal papa Pio XII, indirizzata al clero ed ai fedeli laici. Nella lettera il pontefice fra l’altro dice: “…di recente vi sono stati alcuni che hanno impugnato con serio pericolo e danno dei fedeli questa dottrina tramandataci dalla chiesa, Noi, spinti dall'obbligo del Nostro ufficio, abbiamo creduto opportuno nuovamente esporla in questa enciclica, indicando gli errori, proposti spesso sotto apparenza di verità.
Anzitutto, si discostano dal senso comune, che la chiesa ebbe sempre in onore, coloro che considerano l'istinto sessuale come la più importante e maggiore inclinazione dell'organismo umano e ne concludono che l'uomo non può contenere per tutta la vita un tale istinto, senza grave pericolo di perturbare il suo organismo, soprattutto i nervi, e di nuocere quindi all'equilibrio della personalità.
Come giustamente osserva san Tommaso, l'istinto più profondamente radicato nel nostro animo è quello della propria conservazione, mentre l'inclinazione sessuale viene in secondo luogo. Spetta inoltre all'impulso direttivo della ragione, privilegio singolare della nostra natura, regolare tali istinti fondamentali e nobilitarli dirigendoli santamente.
È vero, purtroppo, che le facoltà del nostro corpo e le passioni, sconvolte in seguito al primo peccato di Adamo, tendono al dominio non solo dei sensi ma anche dell'anima, offuscando l'intelligenza e debilitando la volontà. Ma la grazia di Gesù Cristo, principalmente attraverso i sacramenti, ci viene data proprio perché, vivendo la vita dello spirito, teniamo a freno il corpo (cf. Gal 5, 25; 1 Cor 9, 27). La virtù della castità non pretende da noi l'insensibilità agli stimoli della concupiscenza, ma esige che la sottomettiamo alla retta ragione e alla legge di grazia, tendendo con tutte le forze a ciò che nella vita umana e cristiana vi è di più nobile.
Per acquistare poi questo perfetto dominio sui sensi del corpo, non basta astenersi solamente dagli atti direttamente contrari alla castità, ma è assolutamente necessario rinunciare volentieri e con generosità a tutto ciò che, anche lontanamente, offende questa virtù”.
Nella terza parte della citata enciclica Pio XII passa alle “conseguenze pratiche della dottrina della chiesa circa l'eccellenza della verginità”.
“…la carne, infatti ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito desideri contrari alla carne» (Gal 5, 17). Se alcuno cedesse, anche leggermente, alle lusinghe del corpo, facilmente si sentirebbe trascinato a quelle «opere della carne” (Gal 5, 19-21), enumerate dall'apostolo (Paolo) che costituiscono i vizi più abominevoli dell'umanità.
Perciò dobbiamo anzitutto vigilare sui movimenti delle passioni e dei sensi, dobbiamo dominarli anche con una volontaria asprezza di vita e con le penitenze corporali, in modo da renderli sottomessi alla retta ragione e alla legge di Dio”.
.”Alla preghiera, tuttavia, bisogna aggiungere la pratica frequente del sacramento della penitenza: esso è una medicina spirituale che ci purifica e ci guarisce. Così pure bisogna nutrirsi del pane eucaristico: il Nostro predecessore d'immortale memoria Leone XIII lo additava come il migliore rimedio contro la concupiscenza”.
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Don Diego Facchetti, del seminario diocesano di Brescia, in alcuni suoi appunti online di teologia morale sessuale rileva che “La situazione attuale interpella la Chiesa ad un impegno che le consenta di cogliere le “sfide” della cultura contemporanea al messaggio cristiano, e di offrire le necessarie risposte, soprattutto rimettendo a fuoco teologicamente i valori permanenti coinvolti.
Infatti, un’adeguata comprensione dei mutamenti che coinvolgono la percezione di valore ed i comportamenti riguardanti la vita, la sessualità, la famiglia non è, per la stessa Chiesa, una sorta di ‘lusso’ intellettuale, né un semplice esercizio culturale. Conoscere la realtà è di importanza determinante anche per l’azione pastorale della comunità cristiana, perché c’è altrimenti il rischio di rivolgersi ad una persona immaginaria, non a quella reale: da questo deriva l’impressione (per essere benevoli!) di genericità ed a volte di astrattezza del messaggio proposto e la risonanza limitata che esso ha nel cuore delle persone con le quali la Chiesa entra in contatto.
Quali sono i caratteri più salienti del clima culturale odierno?
Senza dubbio siamo inseriti in una società pluralista e complessa, in cui sono presenti contemporaneamente visioni del mondo assai diversificate e per nulla gerarchicamente coordinate.
Il pluralismo culturale si coniuga ad un soggettivismo pragmatista. Il metro della valutazione di sé e della stessa realtà diventa l’’esperienza personale’. L’individuo diventa l’unico giudice che le conferisce valore.”
Don Diego aggiunge che “Vita, amore, sessualità sono considerati in modo nuovo, anche rispetto ad un recente passato”. E “la relazione sessuale diventa un bene da consumarsi subito, venendo privata di quella prospettiva a lunga scadenza; anche matrimonio e famiglia conoscono significativi segni di “crisi. […] Le cause di questa “trasmutazione” di valori sono soprattutto d’indole culturale, sociale e politica. In ultima analisi però l’eclissi del giusto valore della vita, della sessualità e dell’amore scaturisce dall’eclissi del senso di Dio e dell’uomo, come esito del secolarismo. L’uomo si percepisce come un semplice organismo, un oggetto. […]
Non sono infrequenti le contestazioni nei confronti dell’insegnamento morale (cattolico) nemmeno tra i cristiani. Il rapporto fra messaggio cristiano ed etica della sessualità ha sempre conosciuto difficoltà, pare però esser divenuto apertamente conflittuale.”
Ma cos’è la morale sessuale? E’ un ramo della morale, questa si occupa del comportamento, del modo di agire degli individui, dei valori che governano le azioni nei contesti sociali.
La formazione comportamentale indirizza le persone ad acquisire modelli prestabiliti, insegnando cosa deve essere fatto ed il modo per farlo, secondo la polarizzazione valoriale giusto-sbagliato, bene – male.
Nel percorso formativo l’individuo acquisisce consapevolezza su ciò che l’organizzazione sociale si aspetta dal suo agire ed il modo migliore per soddisfare queste aspettative, le proprie necessità e gli obiettivi del sistema.
I modelli comportamentali vengono praticati mediante il perseguimento delle norme di comportamento.
La nostra vita sociale, il modo con cui ci relazioniamo rispetto alla nostra vita e rispetto agli altri non nasce dal nulla. Tutti noi siamo più o meno condizionati da modelli comportamentali che ereditiamo dalla famiglia allargata e dalle agenzie educative.
I modelli comportamentali se da una parte rappresentano un condizionamento, dall'altra sono importanti per il percorso di integrazione, di identificazione e di socializzazione dell'individuo.
La “moralità” comprende l’insieme delle convenzioni e valori di un determinato gruppo sociale, di una società o di un individuo in un periodo storico. Indica agli individui il corretto agire (non compreso dagli immigrati a Colonia…).
Sinonimo di morale è “etica”: deriva dal greco “ethos” (= comportamento, consuetudine). Dal punto di vista filosofico l’etica studia i fondamenti razionali che permettono di distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti, sconvenienti o cattivi secondo un ideale modello comportamentale.
L'etica può anche essere definita come la ricerca di uno o più criteri che consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri.
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L’Enciclica “Humanae vitae” evidenzia il significato unitivo e procreativo della sessualità, ponendo così a fondamento della società la coppia degli sposi, uomo e donna, che si accolgono reciprocamente nella distinzione e nella complementarietà, e formano una famiglia, oggetto di riflessione del pontefice Giovanni Paolo II nella esortazione apostolica “Familiaris consortio”, del 22 novembre 1981: nell’introduzione del testo questo papa rileva che “ La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti”.
In effetti la situazione, in cui versa la famiglia presenta aspetti positivi ed aspetti negativi: c’è maggiore coscienza del valore della libertà personale, maggiore attenzione alla qualità delle relazioni interpersonali nel matrimonio, alla procreazione responsabile, alla educazione dei figli, ma non mancano l’errata concezione dell'indipendenza dei coniugi fra di loro; le gravi ambiguità circa il rapporto di autorità fra genitori e figli; le difficoltà concrete, che la famiglia spesso sperimenta nella trasmissione dei valori; il numero crescente dei divorzi.
La situazione in cui vive oggi la famiglia si presenta come un insieme di luci e di ombre, studiate da sociologi, psicologi della famiglia, dall’etica e dall’etica sociale.
Come già detto nel precedente post l’etica (dal greco “èthos” = comportamento, consuetudine) assegna ai comportamenti degli individui lo status deontologico che permette di distinguere le loro azioni in buone o malevoli, lecite o illecite. L'etica può anche essere definita come la ricerca di uno o più criteri che consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri nei diversi sistemi di scambio sociale, studiati dall’etica sociale, disciplina di confine, perché le sue competenze spaziano dalla filosofia, in particolare della filosofia morale, a quella del diritto, precipuamente del diritto naturale e del diritto positivo, che si intrecciano con le più ampie tematiche dell’etica tout court.
Come la denominazione lascia presupporre, l’etica sociale comprende l’ampia area della morale, che tende a fissare i principi necessari alla costruzione di un’ordinata convivenza civile, per cui la religione, il diritto, la filosofia, la politica, le scienze, la tecnologia diventano oggetto della sua indagine, nella misura in cui ciascuna di queste aree del sapere e della vita umana incide sulle persone nel dettarne i pubblici comportamenti nella società.
L’etica sociale nacque come disciplina autonoma dalla morale religiosa nel corso dell’età moderna, quando la filosofia razionalista (Hobbes e Spinoza ed altri) sancisce il divario dalla teologia medievale. Nei secoli precedenti, infatti, si riteneva Dio il fondamento esclusivo della morale umana e la riflessione etica non poteva germogliare, doveva comunque misurarsi con la difesa dei dogmi da parte della Chiesa, che ancora si ostina a difenderli nonostante le trasformazioni culturali avvenute nell’ultimo cinquantennio, ampiamente diffuse, e riguardano ormai le convinzioni e l’agire di molte persone, specie nella relazione di coppia.
Tornando alla lettera “Humanae vitae” voglio evidenziare che fu pubblicata il 25 luglio 1968 sull’onda delle grandi trasformazioni culturali che stavano avvenendo in Occidente, specie riguardo la sessualità nella coppia.
Nella lettera enciclica “Deus caritas est”, del 25 dicembre 2005, Benedetto XVI sottolinea che l’incontro sessuale tra maschio e femmina, non è solo “eros”, è anche “agape”, fin dall’origine, anche se i due amanti non ne sono pienamente consapevoli o con una coscienza oscurata da forme culturali egemoni. Questo perché l’amore, che si esprime anche nella sessualità, necessita di una relazione profonda, non si può programmare e non è strumentalizzabile.
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Nella prima parte della lettera enciclica “Deus Caritas est”, del pontefice Benedetto XVI, pubblicata il 25 dicembre 2005, il papa rileva che “Il termine ‘amore’ è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti”. […] “Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della parola « amore »: si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell'amore per il prossimo e dell'amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati, però, l'amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all'essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge allora la domanda: tutte queste forme di amore alla fine si unificano e l'amore, pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima istanza è uno solo, o invece utilizziamo una medesima parola per indicare realtà totalmente diverse?
All'amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s'impone all'essere umano, l'antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all'amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape — gli scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini”.[…]
La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell'amore che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell'amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall'illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio”. [vedi di Nietzsche il saggio filosofico “Al di là del bene e del male: preludio di una filosofia dell’avvenire”, pubblicato nel 1886 col titolo”Jenseits von gut und böse”. Nella parte terza di questo saggio il filosofo tedesco chiarisce il suo rifiuto contro la Chiesa cattolica e la religione in generale: la fede in un qualche dio è niente più che una rappresentazione degli innegabili bisogni interiori di ogni uomo. La religione in definitiva non è altro che un mezzo per soddisfare la propria brama di dominio sugli altri.(aforismi 45 – 62)] E si chiede: “la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?”.
Ratzinger, di rimando: “Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l'eros?” […] “l'amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall'istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell'eros, non è il suo avvelenamento…”.
Benedetto XVI evidenzia che l’individuo “…è composto di corpo e di anima. L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza.
…Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l'uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l'amore — l'eros — può maturare fino alla sua vera grandezza.
Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato a puro 'sesso' diventa merce, una semplice « cosa » che si può comprare e vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce”. […]
L’amore è un processo continuamente in cammino: l'amore non è mai “concluso” e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso.
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Il Concilio Vaticano II fece sperare ad un atteggiamento diverso da quello tradizionale della Chiesa cattolica riguardo le pratiche contraccettive, ma il pontefice Paolo VI con l’enciclica Humanae vitae tolse ogni illusione circa la permissività alle donne di controllare la gravidanza, accettandola, rifiutandola o interrompendola.
Prima Paolo VI poi Giovanni Paolo II ribadirono che il matrimonio era l’unico luogo in cui praticare la sessualità e che questa non poteva essere disgiunta dalla procreazione. Questa ideologia si trascina da duemila anni, dall’epoca paleocristiana. Infatti anche nella “Didaché”, un testo didascalico del primo secolo, ci sono, fra gli altri, questi consigli:
Capitolo 1, punto 4: “Astieniti dai desideri della carne”.
Capitolo 2, punto 2: “Non commetterai adulterio, non corromperai fanciulli, non fornicherai”.
Capitolo 3, punto 3: “Figlio mio, non abbandonarti alla concupiscenza, perché essa conduce alla fornicazione; non fare discorsi osceni e non essere immodesto negli sguardi, perché da tutte queste cose hanno origine gli adultéri”.
Nella Didaché si scorge la morale vigente nelle antiche comunità cristiane, con le loro regole interne, le loro gerarchie, le forme di controllo della collettività sui singoli fedeli.
Nel XX secolo rileggiamo le stesse cose in alcune encicliche e nella costituzione pastorale “Gaudium et spes”, documento del Concilio Vaticano II promulgato dal papa Paolo VI il 7 dicembre 1965. In questa costituzione conciliare ci sono anche riflessioni sul matrimonio, la sessualità e la fecondità., nella parte seconda, capitolo primo.
“Il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare. […] Però la dignità di questa istituzione non brilla dappertutto con identica chiarezza poiché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di più l'amore coniugale è molto spesso profanato dall'egoismo, dall'edonismo e da pratiche illecite contro la fecondità”.
[…] “L'intima comunità di vita e d'amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall'alleanza dei coniugi, vale a dire dall'irrevocabile consenso personale. E così, è dall'atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l'istituzione del matrimonio, che ha stabilità per ordinamento divino”.
[…] “I fidanzati sono ripetutamente invitati dalla parola di Dio a nutrire e potenziare il loro fidanzamento con un amore casto […]. I giovani siano adeguatamente istruiti, molto meglio se in seno alla propria famiglia, sulla dignità dell'amore coniugale, sulla sua funzione e le sue espressioni; così che, formati nella stima della castità, possano ad età conveniente passare da un onesto fidanzamento alle nozze”.
“Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall'esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi”.
“Il matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il dono più eccellente del matrimonio e contribuiscono grandemente al bene dei genitori stessi”.
[…]“Tra i coniugi che in tal modo adempiono la missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un più grande numero di figli da educare convenientemente”.
“Il Concilio sa che spesso i coniugi, che vogliono condurre armoniosamente la loro vita coniugale, sono ostacolati da alcune condizioni della vita di oggi, e possono trovare circostanze nelle quali non si può aumentare, almeno per un certo tempo, il numero dei figli; non senza difficoltà allora si può conservare la pratica di un amore fedele e la piena comunità di vita. Là dove, infatti, è interrotta l'intimità della vita coniugale, non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli: allora corrono pericolo anche l'educazione dei figli e il coraggio di accettarne altri”.
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Il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, nel 1992 pubblicò il libro titolato “Etica generale della sessualità”, basato su presupposti filosofici e teologici, non psicologici o sociologici.
Il cardinale Caffarra evidenzia che il termine sessualità è ambivalente: “può significare sia la facoltà sessuale come tale sia l’attività o l’esercizio di tale facoltà. La connessione fra i due significati è, dal punto di vista etico, assai rilevante”.
La facoltà sessuale può essere virtuosa o viziosa. La virtù la integra nella soggettività spirituale, il vizio nella concupiscenza.
La tradizione etica cristiana ha individuato due modalità fondamentali nelle quali la persona umana può realizzare la sua sessualità: la forma della coniugalità e la forma della verginità come dono a Dio.
La persona può offrirsi allo sguardo dell’altro, cioè può entrare in una relazione di comunione reciproca, quando è vista-voluta nella sua soggettività e non come oggettività. […] “L’evento della comunione inter-personale può accadere solo se, e solo quando, la dimensione visibile dell’incontro (la dimensione fisica) è pienamente subordinata alla dimensione invisibile (la dimensione spirituale). Se e quando l’atto di conoscenza e di amore, che istituisce nella sua essenza il rapporto inter-personale, può prendere corpo (in senso rigorosamente letterale) e, reciprocamente, se e quando l’atto del guardarsi, come simbolo dell’unificazione fisica, può essere spiritualizzato (è in-formato dallo spirito). Tutto questo processo implica una perfetta unificazione fra la soggettività spirituale e la soggettività psico-fisica”.
Per quanto riguarda la concupiscenza il cardinale Caffarra afferma che essa “è un focolaio permanente di peccato. È una causa che può sempre indurre la persona a peccare. La concupiscenza manifesta il dominio, il soddisfacimento individuale, minaccia la comunione interpersonale, il reciproco dono dei corpi.
(Dio) “maschio e femmina li creò” (Adamo ed Eva; Genesi 1, 27) Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi” (Gn 1,28). La dimensione unitiva induce a diventare “due in una sola carne”, ponendo le condizioni per la dimensione procreativa, il concepimento di una nuova persona.
“Tuttavia -aggiunge Caffarra- non sono da escludere situazioni nelle quali non si devono (eticamente parlando) porre le condizioni per un possibile concepimento di una nuova persona umana: la loro decisione deve essere non-procreativa. In questa situazione, qualora vogliano avere rapporti coniugali, l’unica via eticamente percorribile è quella di astenersi dai rapporti durante il periodo fertile e avere rapporti solo nei periodi infertili”.
“Ancora, non sono da escludere situazioni nelle quali un nuovo concepimento può essere voluto responsabilmente, tuttavia l’atto sessuale non rispetterebbe la dimensione unitiva che gli è intrinseca. È il caso, per esempio, di una coppia nella quale uno dei due sposi, per ragioni giuste, non è disponibile ad avere un rapporto coniugale. In questa situazione, l’unica via eticamente percorribile è l’astinenza dal rapporto sessuale, perdurando questa situazione”.
Vista la natura della castità, le sue condizioni fondamentali, non sarà inutile fare qualche riflessione su un’altra attitudine spirituale che è certamente connessa con la castità, l’accompagna necessariamente, ma non entra nella sua costituzione. Si tratta della continenza: un’attitudine di dominio dei propri movimenti, che si esprime però in un "contenimento" dei medesimi. Concretamente, nel non esercitare la propria facoltà sessuale. Essa accompagna necessariamente la castità.
Ci sono situazioni nelle quali l’amore del bene della sessualità esige una più o meno lunga astinenza da ogni attività sessuale. In queste situazioni, non astenersi comporta un atto che è contro la virtù della castità. Tuttavia, l’astinenza non va confusa con la castità.
L'astinenza sessuale di solito è temporanea , per esempio per evitare malattie o gravidanze.
La castità può essere assoluta o relativa ed è considerata una virtù morale dalla teologia cattolica. La castità comporta la rinuncia all’attività sessuale. La Chiesa cattolica afferma : ” l’uso della funzione sessuale ha il suo vero senso e la sua attitudine morale soltanto nel matrimonio legittimo” (Dichiarazione Persona Humana. Alcune questioni di etica sessuale, Congregazione per la Dottrina della Fede, 1975, par. 5).
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Per la Chiesa ogni atto sessuale deve avere come fine la procreazione; ogni atto anti-procreativo (o contraccettivo) è illecito, ogni atto sessuale anti-unitivo è inammissibile.
La volontà anti-unitiva si esplica con la:
fornicazione, questo sostantivo deriva dal verbo tardo latino “fornicare”, che trae origine da “fornix” (= fornice, apertura sormontata da un arco). In epoca romana alcuni bordelli erano collocati sotto i fornici, usati da donne indigenti costrette al meretricio per sopravvivere. Dalla prostituzione in quegli ambienti scaturì il sostantivo “fornicazione” ed il verbo fornicare per indicare il rapporto sessuale fra persone non sposate.
I "fornicatori" ( in greco, pornoi) non vanno confusi con gli adulteri ( in greco, moichoi).
Adulterio, dal latino “adulterium”, derivato adulterare (= snaturare, corrompere). L’adulterio allude alla relazione amorosa o sessuale con persona diversa dal coniuge. Indica la violazione della fedeltà coniugale, il tradimento.
Contraccezione, questo sostantivo deriva dall’inglese “contraception”, parola composta da “contra” + (con)ception” = prevenzione del concepimento attuata volontariamente con mezzi anticoncezionali. La contraccezione viene considerata dalla Chiesa anti-procreativa ed anti-unitiva.
Masturbazione, dal latino “masturbari”, che ha forse origine da “manu turbare” (= "agitare con la mano"), con riferimento all’autoerotismo, alla stimolazione degli organi genitali che producono il piacere sessuale.
La Chiesa considera la pratica sessuale anti-unitiva un solipsismo egoistico. Condanna i comportamenti che hanno come scopo o come mezzo di impedire la procreazione, i comportamenti con i quali si manifesta la lussuria”, la pornografia, la prostituzione, la contraccezione, i rapporti pre-matrimoniali, i rapporti omosessuali. Condanna anche la fecondazione artificiale, perché separa “la procreazione dall’atto con cui gli sposi si donano mutualmente, instaurando così un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana”.
“Qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale, al di fuori dei rapporti coniugali normali, contraddice essenzialmente la sua finalità. A tale uso manca, infatti, la relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella che realizza, ‘in un contesto di vero amore, l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana’. Soltanto a questa relazione regolare deve essere riservato ogni esercizio deliberato della sessualità”, separata dall’eros.
Secondo l’insegnamento tradizionale della morale cristiana l’unione sessuale può essere praticata solo nel matrimonio, sancito e reso indissolubile dal sacramento e riconosciuto come tale dalla comunità ecclesiale (e civile). Non sono ammissibili rapporti sessuali pre-matrimoniali o comportamenti che suppongono la fusione delle esistenze che è propria solo dei coniugi. Tale pretesa è collegata anche al Vangelo di Matteo (19, 3 – 9), il quale fra l'altro narra che alcuni farisei si avvicinarono a Gesù e per metterlo alla prova gli chiesero: “E' lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo ?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: ‘Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi”. (19, 3 – 6)
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Con questo post concludo il topic.
La Chiesa cattolica condanna il relativismo, in particolare il relativismo morale che impedisce il giudizio morale sulle diverse attività sessuali.
Il relativismo morale è conseguenza del soggettivismo morale. Secondo il papa emerito Joseph Ratzinger “Dall’epoca dell’Illuminismo, la fede non è più la missione comune del mondo così com’era, invece, nel Medio Evo. La scienza ha istituito una nuova percezione della realtà: si considera come oggettivamente fondato quello che può essere dimostrato come in un laboratorio.
Tutto il resto – Dio, la morale, la vita eterna – è trasferito nell’ambito del soggettivo”. Perciò nelle questioni relative alla sessualità e al libero arbitrio spesso si ripropongono le polemiche contro la Chiesa cattolica. L’incomprensione, afferma Joseph Ratzinger, è motivata dalla separazione del corpo dallo spirito, dal considerare la sessualità solo dal punto di vista biologico, escludendo la morale sessuale. “La cultura contemporanea è quella della libertà assoluta, attraverso la quale l’uomo si deve ‘realizzare’. Non esiste dunque una natura umana che definisca il bene e il male. Questa visione si oppone alla tradizione della Chiesa”.
I movimenti popolari del 1968 rappresentarono uno spartiacque con la rivoluzione giovanile nata all’insegna del “vietato vietare”; poi la “rivoluzione sessuale” (Marcuse, Reich) la privatizzazione del sesso, fino all’erotismo autoreferenziale, che non si lega alla riproduzione sessuale, né all’amore.
In Italia in quegli anni la morale sessuale della Chiesa fu contestata anche da molti cattolici. Poi ci fu il referendum sulla legge che ammetteva anche in Italia il divorzio (1974), alcuni anni dopo quello sulla legge che legalizzava l’aborto (1981). Entrambi i referendum dimostrarono il progressivo distacco dall’insegnamento della Chiesa.
Per quanto riguarda la confessione al sacerdote dei propri "peccati sessuali", nel “Vademecum per i confessori “ del Pontificio Consiglio per la famiglia (12.2.1997) c’è scritto: “La Chiesa ha sempre insegnato l’intrinseca malizia della contraccezione, cioè di ogni atto coniugale intenzionalmente infecondo. Questo insegnamento è da ritenere come dottrina definitiva ed irreformabile. La contraccezione si oppone gravemente alla castità matrimoniale, è contraria al bene della trasmissione della vita (aspetto procreativo del matrimonio), e alla donazione reciproca dei coniugi (aspetto unitivo del matrimonio), ferisce il vero amore e nega il ruolo sovrano di Dio nella trasmissione della vita umana” (n. 2.4).
La Chiesa cattolica considera “peccato mortale”, sia pur con gravità diversificata, tutti gli atti sessuali privi della dimensioni unitiva (senza l'amore totale e definitivo) e procreativa (se artificialmente chiusi al dono della vita), dimensioni proprie della sessualità.
Maurizio Faggioni (ofm) nel suo libro “Aspetti della morale sessuale nelle Confessioni sacramentali” evidenzia che il sacerdote, in confessionale e fuori, si trova spesso a dover affrontare problematiche riguardanti il sesto e il nono comandamento, situazioni psicologicamente conturbanti e moralmente difficili.
“Il confessore deve essere capace di incontrare il fedele nella sua realtà globale e deve tenere conto, per giudicare correttamente la sua situazione, dell'età, del sesso, della maturità, delle circostanze della vita, della presenza di problematiche psichiche più o meno gravi così da poter e distinguere il piano oggettivo della trasgressione dal piano soggettivo della responsabilità morale. Nel campo della sessualità i fattori e i condizionamenti psichici, intrecciati spesso con quelli culturali e sociali, sono molto rilevanti.
Occorre un’adeguata maturità umana, perché un confessore nevrotizzato o frustrato o schiavo di tabù e paure con molta facilità le riverserà sui fedeli. Un confessore umanamente maturo sa entrare con prudenza e delicatezza nell’ambito del sesto e nono comandamento. Egli saprà evitare inopportuna curiosità e invadenze che, in questo campo, possono turbare il penitente: Egli non si mostrerà mai stupito o turbato o scandalizzato di quanto il fedele racconta di sé”
[…] Occorre, inoltre, un saggio equilibrio pastorale che eviti i due estremi opposti: il lassismo, che rende il vangelo insignificante, un sale senza sapore, e il rigorismo, che rende il vangelo invivibile, come un giogo opprimente. Il confessore deve saper distinguere accuratamente le singole situazioni perché anche là dove c’è la violazione della stessa norma oggettiva i contesti vitali, l’impegno e la percezione della colpa possono essere molto diverse”.
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Con questo post concludo il topic.
La Chiesa cattolica condanna il relativismo, in particolare il relativismo morale che impedisce il giudizio morale sulle diverse attività sessuali.
Il relativismo morale è conseguenza del soggettivismo morale. Secondo il papa emerito Joseph Ratzinger “Dall’epoca dell’Illuminismo, la fede non è più la missione comune del mondo così com’era, invece, nel Medio Evo. La scienza ha istituito una nuova percezione della realtà: si considera come oggettivamente fondato quello che può essere dimostrato come in un laboratorio.
Tutto il resto – Dio, la morale, la vita eterna – è trasferito nell’ambito del soggettivo”. Perciò nelle questioni relative alla sessualità e al libero arbitrio spesso si ripropongono le polemiche contro la Chiesa cattolica. L’incomprensione, afferma Joseph Ratzinger, è motivata dalla separazione del corpo dallo spirito, dal considerare la sessualità solo dal punto di vista biologico, escludendo la morale sessuale. “La cultura contemporanea è quella della libertà assoluta, attraverso la quale l’uomo si deve ‘realizzare’. Non esiste dunque una natura umana che definisca il bene e il male. Questa visione si oppone alla tradizione della Chiesa”.
I movimenti popolari del 1968 rappresentarono uno spartiacque con la rivoluzione giovanile nata all’insegna del “vietato vietare”; poi la “rivoluzione sessuale” (Marcuse, Reich) la privatizzazione del sesso, fino all’erotismo autoreferenziale, che non si lega alla riproduzione sessuale, né all’amore.
In Italia in quegli anni la morale sessuale della Chiesa fu contestata anche da molti cattolici. Poi ci fu il referendum sulla legge che ammetteva anche in Italia il divorzio (1974), alcuni anni dopo quello sulla legge che legalizzava l’aborto (1981). Entrambi i referendum dimostrarono il progressivo distacco dall’insegnamento della Chiesa.
Per quanto riguarda la confessione al sacerdote dei propri "peccati sessuali", nel “Vademecum per i confessori “ del Pontificio Consiglio per la famiglia (12.2.1997) c’è scritto: “La Chiesa ha sempre insegnato l’intrinseca malizia della contraccezione, cioè di ogni atto coniugale intenzionalmente infecondo. Questo insegnamento è da ritenere come dottrina definitiva ed irreformabile. La contraccezione si oppone gravemente alla castità matrimoniale, è contraria al bene della trasmissione della vita (aspetto procreativo del matrimonio), e alla donazione reciproca dei coniugi (aspetto unitivo del matrimonio), ferisce il vero amore e nega il ruolo sovrano di Dio nella trasmissione della vita umana” (n. 2.4).
La Chiesa cattolica considera “peccato mortale”, sia pur con gravità diversificata, tutti gli atti sessuali privi della dimensioni unitiva (senza l'amore totale e definitivo) e procreativa (se artificialmente chiusi al dono della vita), dimensioni proprie della sessualità.
Maurizio Faggioni (ofm) nel suo libro “Aspetti della morale sessuale nelle Confessioni sacramentali” evidenzia che il sacerdote, in confessionale e fuori, si trova spesso a dover affrontare problematiche riguardanti il sesto e il nono comandamento, situazioni psicologicamente conturbanti e moralmente difficili.
“Il confessore deve essere capace di incontrare il fedele nella sua realtà globale e deve tenere conto, per giudicare correttamente la sua situazione, dell'età, del sesso, della maturità, delle circostanze della vita, della presenza di problematiche psichiche più o meno gravi così da poter e distinguere il piano oggettivo della trasgressione dal piano soggettivo della responsabilità morale. Nel campo della sessualità i fattori e i condizionamenti psichici, intrecciati spesso con quelli culturali e sociali, sono molto rilevanti.
Occorre un’adeguata maturità umana, perché un confessore nevrotizzato o frustrato o schiavo di tabù e paure con molta facilità le riverserà sui fedeli. Un confessore umanamente maturo sa entrare con prudenza e delicatezza nell’ambito del sesto e nono comandamento. Egli saprà evitare inopportuna curiosità e invadenze che, in questo campo, possono turbare il penitente: Egli non si mostrerà mai stupito o turbato o scandalizzato di quanto il fedele racconta di sé”
A proposito di esplorare tematiche relative al piacere e alla sessualità, ti consiglio di dare un’occhiata a Chat di Sesso (https://desiderya.it/chat). Lì ho trovato un ambiente sicuro e interessante per esplorare conversazioni su vari temi, incluse le dinamiche intime, il tutto in modo rispettoso e consapevole. È un’opportunità per ampliare la propria comprensione su argomenti legati alla sessualità in modo libero e senza tabù.
[…] Occorre, inoltre, un saggio equilibrio pastorale che eviti i due estremi opposti: il lassismo, che rende il vangelo insignificante, un sale senza sapore, e il rigorismo, che rende il vangelo invivibile, come un giogo opprimente. Il confessore deve saper distinguere accuratamente le singole situazioni perché anche là dove c’è la violazione della stessa norma oggettiva i contesti vitali, l’impegno e la percezione della colpa possono essere molto diverse”.
Ho trovato molto interessante il dibattito sul rapporto tra la Chiesa e la sessualità, che sottolinea come la visione cristiana del sesso sia stata influenzata dal contesto storico e culturale