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Recensione Gesualdo Bufalino Altro che Touring Club o guide Michelin. Chi vuole prepararsi al viaggio in Sicilia o vuole più semplicemente conoscerne «l’humus», non può fare a meno di affidarsi agli elzeviri del genio di Comiso. Anche il siciliano doc non deve farne a meno e può, oltremodo, verificare la propria sicilianità attraverso un test con cui rendersi conto di come sia un difficile lusso l’essere siciliano. La luce e il lutto di Gesualdo Bufalino (Edizioni Sellerio) è una lucida fotografia sulla Sicilia e sulla insularità, “un capire, assolvere o condannare”. Il libro, dal punto di vista strutturale, è composto da articoli scritti tra il 1982 e il 1987, tranne due che risalgono al 1947. Nella loro attualità vanno a ricostruire una Sicilia mitica e nostalgica perché, come lo stesso autore sottolinea nella breve introduzione, “a guarire l’analfabetismo morale da cui (non solo noi, non solo noi) siamo afflitti, possano un poco servire, sebbene fatti d’aria, anche le nostalgie, le favole e i sogni”, un paese che è ombelico del mondo e che è avvinto da un fato avverso e nefasto che può, a ragione, essere sintetizzato nel detto popolare: “Chistu è ‘u paisi d’o scunfuortu: o cadi acqua o tira ventu o sona ‘a muortu”. (Questo è il paese dello sconforto: o diluvia o c’è vento o suona il mortorio). Ma innanzitutto cos’è il viaggio? Bufalino fa sue le parole di Montaigne: viaggiare è “sfregare il nostro cervello e limarlo contro quello degli altri”. Pur non chiedendo indulgenze cosmetiche a quelli che sono i pregiudizi del viaggiatore-legati soprattutto all’idea di mafia, omertà, onore, gattopardismo- l’idea della morte (la festa tragica) è il topos dominante. Un’immagine che sovviene già nel momento in cui si attraversa Scilla e Cariddi sul traghetto che porta nome Caronte per quanto oggigiorno “il sentimento di morte, e il codice dei contegni che ne discende, sono in declino”. Morte (Tanatos) e vita (eros) risultano essere facce della stessa medaglia, onnipresenti e complementari. Bufalino tratteggia l’isola come crocevia di molteplici civiltà che hanno lasciato il segno, un ossimoro geografico e antropologico, una terra che spesso diventa isola nell’isola e che sicuramente col ponte “non perderebbe la sua vocazione claustrofilia e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana”. E se per Sciascia è Ma iniziamo il nostro viaggio. Per partire è sufficiente portare seco un vocabolario di greco. Il viaggio sarà un esame e richiede pazienza per le carenze alberghiere, i scarsi (e a volte inesistenti) mezzi di trasporto e vie di comunicazione post-unitarie. Ciò che sicuramente colpirà a prima acchito è la ruralità esiodea e l’Etna, «strumento di purificazione» che si erge sovrana, per quanto “si è riluttanti, da Empedocle in poi, a frequentare i vulcani”. La parte più interessante risulterà essere il calcagno sud-orientale dell’isola, con le ricche province di Siracusa e Ragusa ricostruite dopo il terremoto benevolo del 1693 “che vien quasi voglia di benedire, col cinismo dei posteri” perché “a tante fatiscenze diede la scossa e consentì la fioritura di un’ammirevole e creativa stagione edilizia dell’isola”. Oppure ci si stupirà per la base militare di Comiso, esempio tangibile di turismo militare americano. Un viaggio alla scoperta del passato e del mito in cui sarà possibile riconoscere le pedate di Plutone nei pressi di Pergusa o veder affiorare dai flutti Nettuno. Forse il modo migliore è quello di viaggiare a casaccio e affidarsi alla proverbiale ospitalità dei siciliani, senza necessariamente fissare mete precise: perché è perdendosi che si trova il “posto più misterioso e più bello”. Di giacomo coniglione
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