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Recensione Gesualdo Bufalino Intervista
Da "Espresso" del 1-3-81. Intervista di Leonardo Sciascia.
Traduttore di raffinati poeti, lettore accanito di letteratura francese, questo eccezionale "dilettante" siciliano debutta nella narrativa con un romanzo, "Diceria dell’untore". Sarà un nuovo caso? I critici lo attendono al varco.
Bufalino e Leonardo Sciascia (foto di Giuseppe Leone)
Gesualdo Bufalino
Palermo. L’introduzione a un libro di vecchie fotografie ("Comiso ieri") lo ha tradito. Piacquero a tutti, quelle pagine; molti chiesero notizia di chi le aveva scritte; qualcuno ebbe il sospetto che dietro quelle pagine altre ce ne fossero chiuse nei cassetti, segrete. Gesualdo Bufalino tentò di difendersi: offri, a schermo, una preziosa traduzione delle preziose "Contrerimes" di Toulet, poi un’antologia che Acutamente raccontava vita, passione e morte del personaggio nella letteratura occidentale. Ma si insistette (e chi insisteva era Elvira Sellerio: e non c’è schermo o riparo quando lei vuole qualcosa): e Gesualdo Bufalino tirò finalmente fuori la "Diceria dell’untore": con esitazione e in tutti i modi sconsigliandone la pubblicazione. Ma tra qualche giorno, pubblicato dall’editore Sellerio, la "Diceria" sarà in tutte le librerie: e si può immaginare lo stato d’animo di Bufalino.
Questo stato d’animo lui lo analizza, lo spiega, lo racconta.
"Parto da un punto fermo: che vi siano scritture morali che è un debito rendere pubbliche... Non è il mio caso, temo; e dunque perché esibirmi? In quello che scrivo sospetto sempre 1’abbandono a un’operazione di bassa lussuria, una sorta di interminabile, falsificato pettegolezzo su di me, da destinare dunque a un uso strettamente privato. E’ una presunzione, lo ammetto: e forse messa avanti per non confessare una rara vigliaccheria: quella di patire la pubblicità come fosse un redde rationem, una gogna, un sentirsi nudi e umiliati come di fronte a una vestita commissione medica di leva. Chiamo questa mia sindrome col nome di Wakefield, quel personaggio di Hawthorne, un vicario, che lascio la propria casa per andare ad abitare in quella di fronte: per spiare, invisibile e suppongo felice, la vita della propria. "Sindrome di Wakefield". Cui è da aggiungere un totale rifiuto del sentimento di agonismo. Perdere mi è sempre piaciuto. Perfino a scacchi (ero assai bravo da ragazzo) preferivo giocare un tipo d’impegno che si chiama automatto, e consiste nel costringere l’avversario a vincere suo malgrado... Ma a questo punto mi chiedo: sto dicendo la verità? In un mio copialettere ce ne sono una diecina dirette ad editori, a critici.
Non spedite, si capisce, ma... Ecco: anche con la signora Sellerio e con lei non sono stato, io a muovere, sia pure pudicamente, le cose? D’altra parte, quando lei mi chiese notizie dei miei cassetti, ammisi le traduzioni ma tacqui del romanzo, che svelai mesi dopo, e non spontaneamente... Curioso ingorgo! Da un lato gli stimoli di un’onesta ambizione, dall’altro, con segno più forte, il presentimento che un eventuale destino di scrittore contenesse non so che semi di sinistra avventura..."
A questo punto della vita, dopo aver pubblicato una ventina di libri e aver conseguito un certo successo, una certa notorietà, posso dirle che la mia esperienza conferma i1 suo presentimento: si tratta di un’avventura davvero sinistra. Ma il fatto è che non si può non correrla. E’ statisticamente impossibile sfuggire a un simile destino; e il suo caso stesso è di incremento alla statistica. Tutto è accaduto, nei primi dieci anni della nostra vita: per quanto si temporeggi, si rimandi, si allontani, quel destino sta in agguato, pronto a coglierci al primo abbandono, alla prima distrazione; e, in certi casi, anche oltre la vita. Vero è che si può dire di ogni uomo, che tutto è avvenuto nei primi dieci anni di vita; ma di uno scrittore particolarmente.
"Sì, penso che i primi dieci o dodici anni di vita ci prefigurino interi, e ho qualche ricordo per confortare l’ipotesi: un giorno, a sie anni, trascino mia madre da una strada all’altra del mio pases per farmene leggere le targhette, imparare i nomi e abbozzare con essi un mio primo rudimentale Pantheon mnemonico. Una pulsione al censimento dell’universo assai forte sin da allora. Più tardi, tra i 35 e i 45 anni, lavorerò per mio semplice utile e gusto a un interminabile libro dei libri, una specie di summa di citazioni alla Bouvard e Pècuchet. Altro ricordo: rubo in una bottega di pescivendolo un fascio di giornali da avvolgere. Sono scoperto, svergognato. Soprattutto perchè avrei potuto averli tranquillamente in regalo. Devo concludere che il mondo della scrittura m’appariva precocemente appetibile e proibito, connesso comunque a un’infrazione, a una pratica furtiva."
Lei è nato a Comiso nel ’20 e vi ha passato quasi tutta la vita, fino ad ora. Io sono nato a Racalmuto un anno dopo e ve ne ho passato mezza. Penso che la sua condizione e la mia, negli Anni Trenta in cui abbiamo cominciato a leggere il mondo attraverso i libri, sia stata la stessa. I pochi libri che si - trovavano in caso, vecchie riviste, vecchi giornali. la "Domenica del Corriere"; e. gli scrittori russi in edizione Barion o Bietti.
"Mio padre, fabbro ferraio, coltivava assai la lettura: possedeva un Dante- Dorè, ’un "Ortis", un Melzi 1909, un "Fabbro del convento", un "Guerino", "Il mistero del poeta" di Fogazzaro; e "I miserabili". Lo lessi non so quante volte, "I miserabili": stranamente – ma forse no – ero affascinato dalle divagazioni epicoliriche, dagli sproloqui a tavola di certi personaggi, dai calembours sulle barricate... Poi ci fu "Guerra e pace", Natascia in slitta sulla neve mi rapì..."
- Perfetto. Una sola variante, per me: di Fogazzaro c’era, tra i pochi libri di casa, "Malombra"... A scrivere, immagino, cominciò con dei versi.
"Con un sonetto, a undici anni... Lo conservo, ho conservato qualunque inezia, della mia vita... Poi, fino a vent’ anni, scrissi poesie a centinaia: a rileggerle parrebbero di cinquant’anni prima. Ma nessuno in quegli anni mi parlò di Ungaretti, di Montale..."
- E c’era il fascismo.
"Il fascismo a chi vi era nato dentro e non aveva la fortuna di un incontro eretico, appariva naturale come la famiglia a un bambino. Credo fosse, questo, uno dei suoi veleni più neri. Io lo accettavo col solo blando astio che poteva nascermi dalla renitenza ai salti e alle arti marziali. Solo quando mi occorse di vincere per la Sicilia (era il ’39) un premio di prosa latina e mi recai a Roma per essere ricevuto, assieme ad altri vincitori, da Mussolini solo allora, mentre per la posa di rito tutti si precipitavano a mettersi in vista, un istinto e un ribrezzo mi spinsero a ritrarmi alle spalle di tutti. Aggiungo che mi sentii confusamente oggetto di una scaltra tecnica di persuasione, se non di un bluff, quando lui disse, a lode dell’universale Roma, che quella stessa mattina aveva conversato in latino con I’ambasciatore ungherese. Il quale, aggiunse per un di più di naturalezza, aveva però sbagliato una concordanza: nos, quae... Altro premio, sempre al liceo, lo vinsi per un tema sull’ E42: all’inaugurazione dell’Esposiziurie, mi avrebbero fatto soggiornare a Roma per due settimane. Ma I’Esposizione non ci fu, ci fu la guerra ."
- La guerra, la malattia. E dalla ’ malattia questa "Diceria dell’untore"...
"Ma anche i tanti libri che lessi. A Scandiano, in ospedale, ebbi un colpo di fortuna: il primario, coltissimo uomo, aveva trasferito, a salvarla dalle bombe, la sua enorme biblioteca in un magazzino dell’ospedale. Me ne diede le chiavi. Fu il mio ingresso nell’Europa. Tra I’altro, lessi Proust in francese, braccandone i volumi senz’ordine, di sotto le pile gigantesche..."
- E così, fuori dalla Sicilia e come casualmente, le è accaduto quel che ad ogni siciliano colto accade nell’ordine delle cose: l’ancoraggio alla cultura francese.
"Appunto. Ma già, tra i sedici e i diciotto anni, avevo fatto un’esperienza fondamentale: da una traduzione in prosa italiana avevo ritradotto macaronicamente in francese Boudelaire. Inseguivo l’alito delle cadenze originarie. Più tardi, quando ebbi il testo originale, I’ho tradotto e ritradotto in italiano. Ma non ho soltanto tradotto Baudelaire, dal francese. Sulle "Contrerimes" di Toulet mi sono affilato lungamente. Sempre per il mio piacere, s’intende: anche se quella mia traduzione delle "Conireriincs" sta ora per pubblicarsi."
- Abbiamo in comune anche Baudelaire nella traduzione in prosa di Decio Cinti, se non ricordo male, e in edizione. Sonzogno. Non mi sono attentato a ritradurlo in francese, ma l’ho tradotto in italiano quando ho avuto tra le mani, nell’immediato dopoguerra, il testo francese curato da Giovanni Macchia. Mi è facile dunque immaginare che anche il cinema francese, tra il ’37 e il ’40...
" E anche oltre. Per molti anni il basco di Michèle Morgan e le calze di Arletty e Louis Jouvet che recita Verlaine mentre lo arrestano ("Dans le vieux parc solitaire et glacè") oppure scende regalmente tra due infermieri le scale d’un ospizio declamando il "Don Juan"; per molti anni questi mi parvero i culmini d’ogni sentimento d’arte. Solo dopo la guerra entrai nella buccia più vera di una civiltà seducente; e furono allora Montaigne e Pascal, gli illuministi... Mi sento, e sono, un francesista selvaggio, dimezzato. Ma in Francia, purtroppo, non sono stato per più di quindici giorni ".
Questo le varrà l’accusa, da parte di qualche critico, di aver fatto, con la "Diceria dell’untore"", un libro molto francese. Certo, molto italiano non è. Ciò non toglie che sia – almeno io cosi lo sento – molto siciliana.
"Con la Sicilia i miei rapporti sono di qualità schizofrenica. E tuttavia, più mi sforzo di sbucciarmi di dosso la pelle indigena e di promuovermi "totus europeus", più tendo a raccogliermi e ricucirmi dentro la mia terra e la mia civiltà. Mi ricordo che un giorno, a Colonia, nel ’64, durante un viaggio in macchina con un amico, fui colto da un così straziante crepacuore di fronte a un cielo che parlava una lingua lontana che rifuggii verso il Sud a precipizio, sentendo ad ogni pietra miliare che mi ci avvicinava una vampata di felicità ".
- E il libro: da quale esperienza è nato, per quale necessità?
"L’ho pensato e abbozzato verso il ’50, I’ho scritto nel ’71. Da allora, una revisione ininterrotta: fino alle bozze di stampa. Mi è venuto dall’esperienza di malato in un sanatorio palermitano: negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e segnava ancora come nell’Ottocento. Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo (ma "La montagna incantala", è evidente, non ha giocato per nulla). E poi la dimensione religiosa della vita, il riconoscersi invincibilmente cristiano. M’importava esorcizzare quell’esperienza; ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro. Confesso che il primo capitolo che scrissi, fu come un gioco serio: e consisteva nel trovare intrecci plausibili fra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore, carica espressiva. Qualcosa di meno maniacale delle scommesse di Roussel, essendo nel mio caso il legame tra le parole scelte non casualmente ritmico, nè esoterico o cabalistico, ma insorgente da una parentela e coalizione espressiva e musicale, così come da un re, da un sol minore premeditato, nasce una sinfonia..."
Leonardo Sciascia
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