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Recensione Dacia Maraini Intervista
Perché e per chi si scrive?
Non vedo altro motivo che il piacere: si scrive spinti da un desiderio quasi erotico, si scrive perché si è felici di farlo. Mentre scrivo non mi chiedo mai chi siano i miei lettori e non voglio neanche saperlo. Mi piace, semmai, se proprio devo pensare a un lettore, immaginarne uno che mi assomigli, che sia in grado di capirmi. In realtà quel lettore sono io. Il primo lettore della propria scrittura è l'autore stesso.
Quando è nato l'interesse per la scrittura?
Vengo da una famiglia di scrittori: mia nonna, Yoi Pawlowska, la madre di mio padre, agli inizi del secolo scriveva in inglese libri di viaggio, un nonno, Enrico Alliata, scriveva libri di filosofia e anche mio padre, Fosco, scrive libri di etnologia, ma con piglio da narratore. Quindi era destino che io avessi un rapporto stretto con i libri. Sono stata una lettrice precocissima, anche se il mio primo rapporto con la letteratura italiana è avvenuto da straniera. Venivo infatti dal Giappone, leggevo in inglese e quando sono arrivata nel mio paese il mio italiano era incerto, stentato.
Cominciamo dal principio. Dove è nata?
Sono nata a Firenze, più precisamente a Fiesole.
Prima ha menzionato il Giappone. Perché ha vissuto con la sua famiglia in quel paese?
Mio padre, che è antropologo, aveva vinto una borsa di studio per fare una ricerca sugli Hainu, una popolazione del nord del Giappone. Andammo là anche perché mio padre, odiando il fascismo, non voleva stare in Italia.
Quali lingue parlava nell'infanzia, lei italiana residente in Giappone?
Conoscevo benissimo il giapponese, sapevo persino il dialetto di Kioto e prendevo in giro i miei genitori perché non riuscivano a pronunciare bene le parole. Frequentavo un asilo inglese e sapevo l'inglese. In casa mi esprimevo in italiano.
Ricorda ancora il giapponese?
No, l'ho dimenticato completamente. Il rifiuto credo sia cominciato negli anni dell'immediato dopoguerra.
A causa dell'antifascismo di suo padre e di sua madre, venne internata con le sue sorelle in un campo di concentramento giapponese. Cosa ricorda di quell'esperienza?
A noi bambine non davano assolutamente nulla da mangiare. Per loro noi non esistevamo: eravamo le figlie dei "traditori antifascisti" e quindi per sostenerci dovevamo fare affidamento sul cucchiaio di riso che ci davano gli altri prigionieri, togliendoselo letteralmente di bocca.
Nei suoi libri si parla molto di cibo.
Ho imparato nel campo di concentramento a sognare il cibo. Lunghi e tenerissimi sogni che sono diventati un rito dell'immaginazione.
Al ritorno in Italia, dopo la guerra, dove siete andati ad abitare?
Prima a Firenze, in casa del nonno paterno, che faceva lo scultore e aveva moltissimi libri. Ricordo di aver scoperto da lui le opere di Tolstoj, Balzac, Flaubert, Thackeray, Proust, ma anche di Somerset Maugham e di Cronin.
"Bagheria l'ho vista per la prima volta nel '47." Così inizia "Bagheria", un viaggio nei ricordi dell'infanzia trascorsa nella cittadina siciliana.
Il libro comincia con una carrozza, tirata da un cavallo stremato dalla fame che ci porta a Bagheria. Vi rimanemmo diversi anni. I ricordi s'intrecciano nel libro ad altre storie. Storie della villa di famiglia, storie della cittadina, che nel Settecento era luogo di villeggiatura dei nobili siciliani. Storie di mia nonna, la madre di mia madre, che era una cilena. Si chiamava Sonia Ortusar, aveva una stupenda voce da soprano e a ogni costo avrebbe voluto diventare cantante, ambizione inammissibile in una famiglia decorosa dell'epoca. Era scappata di casa, il padre l'aveva riacchiappata ma non l'aveva indotta a cambiare idea. Alla scuola di canto della Scala incontrò mio nonno, un aristocratico siciliano che pure lui studiava canto, che avrebbe scritto di filosofia e di cucina vegetariana: e mio nonno la convinse a fare per amore quanto non voleva fare per dovere: rinunciare al palcoscenico. Rimasta vedova, viveva nella villa da sola, tenendo di notte il fucile accanto al letto come una "campera", tanto profondamente frustrata nelle sue ambizioni artistiche da essere diventata arida, indifferente, dura.
Leggendo "Bagheria" si ha la sensazione che il racconto sia, più che un ritorno ai luoghi, un ritorno alle persone, e in particolare alla figura paterna...
Sì, è vero. Nella mia infanzia a Bagheria il rapporto con mio padre è stato molto intenso, molto forte. Nonostante le sue assenze. Viaggiava tantissimo per il suo lavoro. Era proprio questo che mi affascinava, il suo vagabondare. A casa entravano con lui i colori, gli odori, le parole di luoghi lontani e sconosciuti. Mi conquistava ciò che si portava dietro di ignoto.
La sua vita è stata in parte segnata da due intellettuali: suo padre e Alberto Moravia. Quale correlazione trova tra queste due figure?
Erano due uomini in fuga per inquietudine, intellettuale, psicologica. In fuga dal presente, dalle cose, da me, sempre proiettati verso qualcosa di diverso. In questo si assomigliavano.
Torniamo alla sua giovinezza. Dove ha fatto i suoi studi?
Le prime scuole le ho frequentate in Giappone. Mio padre poi, quando eravamo in campo di concentramento, mi ha dato lezioni di matematica e geometria. Mia madre, invece, mi raccontava le favole. Più tardi ho studiato a Bagheria, Palermo, Firenze e Roma.
Quando è andata a vivere da sola?
Intorno ai vent'anni. Ho preso un appartamento in affitto. Era il periodo in cui ho fatto di tutto: dalla segretaria all'archivista, dall'aiuto fotografa al fattorino. Poi ho incontrato mio marito.
Il pittore Lucio Pozzi, con cui è stata sposata quattro anni.
Sì. Il matrimonio è finito dopo un terribile aborto spontaneo all'ottavo mese di gravidanza. Ho perso un figlio poco prima che nascesse. E' stata una cosa molto dura e dolorosa per me.
Quando ha conosciuto Moravia?
L'ho conosciuto a Roma, attraverso un amico comune, lo scrittore Nicolò Tucci. Sono rimasta subito affascinata dalla sua allegria, dalla sua intelligenza, dalla sua profonda cultura. A quel tempo, quando abbiamo cominciato a vederci e a telefonarci, io vivevo con mio padre in lungotevere Arnaldo da Brescia.
Quando è andata a vivere con Moravia?
Nel 1963. Abbiamo preso in affitto un appartamento al lungotevere della Vittoria.
Com'era Moravia a casa, nella vita di ogni giorno?
Era una persona allegra e aveva un'infantile ossessione per i giochi di parole. Ne conosceva molti e li ripeteva in continuazione. Diceva, per esempio, "passano gli anni, passano gli Unni", "vita, vitaccia, vitona, vituperio", oppure "piove a dirotto, prova a dir nove, vedi se spiove" e così via. Amava molto una filastrocca di Palazzeschi che cominciava così "Uno, due, tre, caffè caffè caffè". Moravia non giocava solo con le parole, ma anche con le idee. Era un continuo festoso burlare. Vedendolo, con quelle sopracciglia folte, molti pensavano che fosse un uomo severo, sempre un po' aggrottato e invece non lo era per niente. Anzi, era molto socievole, molto comunicativo, era bravissimo a raccontare storie e tutti lo ascoltavano incantati. Con lui non ci si annoiava mai. Aveva delle piccole bizzarrie: prima di uscire di casa, ogni giorno, perdeva le chiavi e allora si spazientiva, cominciava a cercare in tutte le tasche, sbuffava. Poi le chiavi saltavano fuori e lui era tutto contento.
Che ricordo ha della società letteraria romana di quegli anni? Chi frequentavate?
Vedevamo tutti i giorni Pier Paolo Pasolini. Con lui abbiamo fatto anche molti viaggi: in Africa, India, Cina e tanti altri paesi. Incontravamo spesso Enzo Siciliano e Lorenzo Tornabuoni, Dario Bellezza, Bernardo Bertolucci. Altri amici, con i quali cenavamo frequentemente in trattoria, erano Natalia Ginzburg e Gabriele Baldini, Goffredo Parise e Giosetta Fioroni, Cesare Garboli, Fabio Mauri, Adriana Asti, Pietro Citati, Laura Betti, e altri.
Un incontro decisivo nella sua vita è stato quello con il femminismo. Come e quando è avvenuto?
Ho avuto il mio primo incontro con il femminismo nel 1964, quando sono andata negli Stati Uniti. Stavo facendo un'inchiesta sui "Black Panthers" per "Paese Sera" e ho conosciuto Katherin Cleaver. L'ho intervistata. Era una donna durissima e mi ha detto alcune cose sui diritti delle donne che mi hanno molto colpito. Poi, al mio ritorno in Italia, ho cominciato a frequentare un gruppo femminista, poi un altro... Ho anche fondato un teatro... Insomma, tutto è incominciato negli anni Sessanta.
Quando ha esordito come scrittrice?
Nel 1962 con La vacanza. E' un romanzo che ho cominciato a scrivere a diciassette anni.
Quali sono state le scrittrici che hanno avuto importanza nella sua formazione letteraria?
Dico sempre che ho cinque madri: Lalla Romano, Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Anna Banti e Natalia Ginzburg, scrittrici di una generazione precedente alla mia che mi hanno insegnato molto, ognuna con il suo stile, ognuna con il suo linguaggio.
Com'è nato il progetto del romanzo "La lunga vita di Marianna Ucrìa"?
Il personaggio di Marianna mi è stato suggerito da un quadro ritrovato nella villa di Bagheria dove non ero più andata dalla morte di mia nonna. Quando ho rivisto le grandi stanze affrescate, sono stata colpita dal ritratto di questa antenata, dai suoi occhi che avevano qualcosa di triste e nello stesso tempo di allegro. Questa dualità, questa doppiezza del suo viso, unita al fatto di sapere che Marianna era sordomuta mi hanno messo addosso una grande curiosità. A quel punto ho cominciato a leggere libri su libri, ad andare nelle biblioteche per cercare documenti e a immergermi negli scritti sull'epoca e dell'epoca.
In "Marianna" così come in "Bagheria" gli odori, i profumi hanno parte integrante nel ricordo che diventa così tangibile, non immaginario.
Per me la scrittura passa attraverso i sensi. Non è astratta, altrimenti farei saggistica. Per scrivere devo mettere all'erta i sensi, devo immergermi nell'odore, nel sapore, nel tatto, nella vista.
Lei ha scritto che "la mancanza sta all'origine di tutti i pensieri desideranti". Cos'è la mancanza?
La mancanza è una spinta a desiderare e il desiderio dà impulso all'immaginazione. La scrittura nasce da una mancanza, come nel caso dell'amore che ho avuto per mio padre. Sono stata una bambina innamorata del padre. L'ho aspettato tanto e l'ho amato così, da lontano, desiderando che tornasse ma vedendolo molto poco.
Ha scritto anche di essere un poco nomade, è vero?
Mi piace partire per tornare e tornare per partire di nuovo. Ho tante volte cambiato città, casa: Sapporo, Kyoto, Palermo, Firenze, Roma, la stabilità la conosco poco.
Se dovesse dare indicazioni ad un giovane che vuole dedicarsi alla scrittura?
Gli consiglierei di cercare di formare attorno a sé una minuscola società letteraria fatta di persone che hanno gli stesi interessi, le stesse ambizioni, che si scambiano informazioni, si confrontano, si misurano: e insieme imparano a costruire una rete di rapporti. Leggersi a vicenda i racconti e tradurre molto, sia dalle lingue classiche sia da quelle moderne, passarsi libri e informazioni: solo così si diventa adulti, si misurano le proprie capacità, si è provocati a tirare fuori il meglio di sé, creando un tessuto connettivo letterario da cui può saltare fuori il vero scrittore.
Domande e risposte sono tratte da Il piacere di scrivere. Conversazione con Dacia Maraini, Omicron 1995; Dacia Maraini- Gioconda Marinelli, Dizionarietto quotidiano. Da "amore" a "zonzo" 229 voci raccolte da Gioconda Marinelli, Bompiani 1997; dalle interviste, comparse sui quotidiani, di Costantino Cossu (La Nuova Sardegna), Gabriella Filippini (L'Arena), Lietta Tornabuoni (La Stampa) e da un'intervista di Antonio Debenedetti di prossima pubblicazione
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