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Recensione Monica Farnetti Luana Trapè Tutte signore di mio gusto, di Monica Farnetti, La Tartaruga, 2008 Un libro indispensabile per chi si occupi di scrittura (non soltanto femminile), e condivida le preferenze dell’autrice per le scritture “necessarie”, quelle che “non solo collaborano alla trasformazione del mondo, ma di colpo lo sovvertono … agiscono insomma profondamente e con forza sulla polis.” Le “signore” sono state scelte, oltre che per l’attrazione dell’opera, anche per la circolazione tra loro di idee ed esperienze che istituiscono un’affinità, una correlazione, la condivisione di un tessuto comune: prima di tutto “la centralità dei corpi, la cura del mondo e la relazione con l’universo.” E poi il loro sguardo sempre vigile sulla scrittura, “la coscienza storica e la volontà politica di dare inizio, svolgimento e nutrimento a un’altra letteratura, la quale, rispetto a quella di tutto il passato, cambia il modo di pensare la vita e di stare in contatto con lei.” Una parola sempre strettamente connessa al pensare, dunque, ma un pensare “che lascia spazio all’impensato e al pensare altrimenti.” Il panorama geografico e storico, molto ampio, scorre da Colette a Azar Afisi, passando attraverso Anna Maria Ortese, Dolores Prato, Cristina Campo, Fabrizia Ramondino e altre. Nel breve corso delle pagine di ciascuna appare un ritratto nitido e illuminante (spesso con tocchi inediti) che amplia e completa la conoscenza che se ne aveva, o la costruisce in pochi tratti; un modo di procedere che avvicina “la signora” per farne cogliere qualità insospettate, oppure la allontana, per delineare un tutto tondo: prossimità e distanza. In Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile è contenuta un’aperta dichiarazione d’intenti sul modo di concepire tale tipo di scrittura da parte dell’autrice. Se dall’etimologia del termine saggio risulta il significato di “prova ed esperimento, misurazione e verifica…”, ebbene, si può affermare che Farnetti si misura mentre misura; ponendosi di fronte alla Woolf e alle altre come in uno specchio, argomentando della scrittura altrui, dipana le ragioni della propria. “Il saggio è un mettersi alla prova, attraverso la lingua, su un dato argomento; è la verifica e insieme la ricerca, di un sapere su qualcosa; è infine l’esercizio del gusto” (un evidente richiamo al titolo, questo). Della scrittura saggistica delle donne peculiare è inoltre l’attenzione alla figura di lettrice/ lettore - continua l’autrice, accogliendo la teorizzazione “anche in ambito ermeneutico, di una postura femminile fondata sul partire da sé, sulla relazione con l’altro/a, e su un’esperienza intellettuale che ha radici nel sentire e che si esprime nelle pratiche”. I testi contengono notazioni dense da appuntare e meditare, come quelle su tempo e spazio. Della scrittura di Dolores Prato (D. P. una piazza tutta per sé) - in grazia di una relazione “di grado più elevato” da parte delle donne col tempo “classico” - Farnetti sottolinea la capacità di opporsi alla disgregazione infinitesimale apportata dal tempo, “restituendo la parabola di una vita tramite l’accumulo di queste particelle in nome di una precisione, di una capillarità e di una meticolosità che sono indispensabili quando si voglia rendere conto di una vita”. Quanto allo spazio, ecco evidente lo spasmodico desiderio (tipicamente femminile) di un spazio più ampio, privo di delimitazioni prestabilite, “non disordinato”, ma ordinato in una nuova organizzazione “aderente agli affetti e disponibile all’accadere”. In ogni ritratto, partendo dall’indagine sulla scrittrice di turno, si prendono di petto questioni culturali affascinanti e spinose, per le quali si suggerisce e si costruisce, non una soluzione, ma almeno una maniera di affrontarle. È il caso del concetto di canone: di comportamento, di pensiero, di scrittura, prescindendo dal quale si rischia di finire fuori dai manuali letterari e dalla memoria dei propri compagni di strada, come avviene a Joyce Lussu (J. L., l’ eccentrica). Farnetti si chiede se sia possibile coniugare “l’ideologia del canone con la libertà femminile, che è relazionale e non individualistica,” oppure conciliare “la storia, sinonimo di durata e contrario di assenza … con la storicità originale della tradizione femminile … che a ogni passo tradisce il passato mentre lo riconosce e gli è riconoscente…”. Una risposta può venire proprio dalla Lussu (che dell’eccentricità ha fatto il proprio contrassegno), nella proposta di “assunzione di modelli non canonici, ma semmai canonizzanti.” Ciò non toglie che il saggio termini con la riproposizione del dubbio iniziale: “se gli eccentrici, e le eccentriche ancor meglio, debbano sempre chiedere il permesso per entrare nei manuali, fornire prove della propria attendibilità, documentare con rigore la propria grandezza”. Di periferie
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