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Recensione Josè Saramago

Josè Saramago

L'anno della morte di Ricardo Reis

Siamo a Lisbona tra il 1935 e il 1936, forse l'anno più cupo del Portogallo fascista di Salazar: infuria la guerra di Spagna e i giornali parlano dall'Anschluss, che segna una nuova tappa dell'espansione hitleriana. Al centro di questo grande affresco storico, vicenda collettiva in cui confluiscono tutte le passioni, le ossessioni, i linguaggi di un'epoca, sta un personaggio preso a prestito da Pessoa: il medico-poeta Ricardo Reis, che si atteggia a vate oraziano e distilla odi in lode della sua musa, Lidia, cameriera d'albergo. Saramago inventa un gioco di specchi e di sdoppiamenti che intreccia frasi e canzonette: quasi un rito esorcistico per allontanare le angosce di un'epoca.
Un uomo misterioso sbarca dal Brasile e quello che trova dopo ben sedici anni di assenza dalla sua terra è una pioggia incessante, martellante, cronica, che tira avanti da mesi, che fa straripare il Tago grande, che buca le fronti pazienti e imperturbabili della popolazione portoghese tutta, tutta in mano a Dio, mani tese e piedi scalzi. Ricardo Reis. Un nome vibrante e qualunque, che rimanda alle “cose” o alla moneta portoghese, questo comunque il suo nome e nient’altro, fino a che la penna di Josè Saramago lo vuole. Chi sia e soprattutto perché sia rientrato a Lisbona sono domande che egli stesso non vorrebbe porsi, ma delle quali presto sarà costretto a far riemergere il senso. Il Portogallo stava conoscendo il potere carismatico di Salazar, l’Italia le imprese militari di Mussolini, la Spagna era sotto il nome di Franco e moriva in quell’anno, in quella
Lisbona, “l’innumerevole” poeta Fernando Pessoa. Alla “partenza” di questo, Saramago immagina l’arrivo dell’altro, Ricardo, per la letteratura eteronimo di Pessoa, figlio mentale, creatura altra identica a se stessa, un uomo in mezzo agli altri, reale o non reale non importa. Lo stesso Pessoa scrive: “ se mi dicessero che è assurdo parlare così di chi non è mai esistito, risponderei che non ho prove che anche Lisbona sia un tempo esistita, o io che scrivo, o qualsiasi altra cosa dovunque essa sia.” Dal principio Ricardo troverà sistemazione nel microsistema dell’Hotel Bragança, dove sarà di volta in volta rivelato a noi lettori ora dagli occhi del facchino Pimenta, ora da quelli del direttore d’albergo Salvador vigile e sempre presente, probabile e grottesco paradigma del potere, ora dalla semplice cameriera Lidia, versione carnale e popolana dell’eterea omonima delle odi del nostro dottore-poeta Ricardo, lei buon cuore e mani screpolate (“amazzone con arco” dice Saramago), che arriverà una notte nel letto dell’ospite diventandone la segreta amante. E ancora l’altera Marcenda, ragazzina di Coimbra di buona famiglia, ospite ogni mese dell’albergo per via delle cure al suo braccio inerte. Entrambe Ricardo le amerà ma in modo diverso, per via di suoi pregiudizi riguardanti la diversa estrazione sociale delle due.
Storia raccontata dai tanti occhi di una Lisbona povera, analfabeta, orgogliosa, elemosinante, sonora, battuta da un vento che non è solo quello che fa oscillare le navi attraccate nel porto, o che fa volare via il cappello del dottor Reis, ma anche quello di un tempo che si stava avvicinando, terrifico, della Grande Guerra, di cui lo stesso Ricardo non vedrà l’alba.
Grande presenza-assenza nello scorrere dell’imperturbabile Storia, l’anima di Fernando Pessoa, morto in carne ed ossa, che non vuole saperne di andare via per sempre e torna a trovare almeno per un po’ Ricardo, che mira, fermo, “lo spettacolo del mondo”. Ed è il mondo stesso che spia e fruscia senza tregua in faccia a Ricardo dalle finestre senza tende della sua casa in affitto, dopo aver lasciato la vita d’ospite dell’Hotel Bragança. Una narrazione quella di Saramago “di solitudine”, proprio nella stessa struttura, che lascia sentire nitido il vuoto dello spazio in cui rintoccano piccoli suoni di passi, minimi segni di vita, pennini sonanti sulla carta e carta croccante di giornale fra le mani, quello che giornalmente Ricardo legge, con notizie a raffica di un fermentare di eventi, grandi discorsi politici e pubblicità di saponi.
Il Ricardo Reis di Saramago sembra essere la finestra inerte ed emblematica dove scorrono i rivoli di pioggia di una storia atroce e stupida. Un romanzo di silenzio chiassone, di denuncia e rivendicazione di un senso d’essere, paradigma dell’uomo senza più punti di riferimento, storia di un’attesa sospesa dove i morti e i vivi si toccano. Solitudine lunga un attimo, ma eterno, un abito blu su misura per Ricardo, preso in prestito dal baule affollato di un poeta e delicatamente posto nell’avanspettacolo storico, ma ad angolazione nettamente parallela, straniata.
La vita passa nel valzer dell’agognato riconoscimento (neanche uno specchio basta a Reis per convincersi di sé..), e dei sentimenti-saponetta nelle mani della razionalità, vuoti da colmare e identità da stabilire. Fernando è presente a tratti, come un padre un po’ gradito, un po’ scocciante, ma sempre necessario, come eccellente testimone sui generis della continuazione di se stesso. E tuttavia sempre più intermittente col procedere della narrazione, sempre più ectoplasma che altro, proprio come la grande civiltà europea, nel suo oblio, alle soglie del disastro.
“…solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia.” · “..solo la notte è lucida, ma il sonno la vince, forse per darci tranquillità e riposo, pace all’anima dei vivi”.

Gianpaolo Mazza (gianpaolo.mazza@virgilio.it)





Di gianpaolo.mazza

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